Il matriarcato e la casa delle donne

I cacciatori raccoglitori che praticano forme di accumulazione tendono ad assumere strutture patriarcali gerarchiche.1 Rientrano in questo gruppo di popolazioni quelle dove si riscontrano fenomeni di coltivazione temporanea. Tipicamente queste culture hanno dei miti che dicono più o meno quanto segue: una volta c’era il matriarcato e il potere apparteneva alle donne, poi un giorno gli uomini sono riusciti a rubarglielo, e adesso devono stare molto attenti a tenere le donne sottomesse perché se no queste si riprenderebbero il potere.

Il matriarcato
Il matriarcato

In questo post riporto gli appunti che ho preso da un video sul matriarcato di Chris Knight (il video, in inglese, si trova a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=DrKhQRfKiJ8)

In questi miti è presente spesso una “casa delle donne” in cui solo le donne possono entrare. La casa delle donne era collegata ai misteri della riproduzione e del ciclo mestruale, e se un uomo provava ad entrarvi veniva violentato. O almeno così raccontano questi miti, secondo i quali la presa di potere degli uomini è spesso avvenuta grazie ad un uomo coraggioso che ha scoperto i segreti con cui le donne tenevano in scacco gli uomini (per esempio facendo rumori misteriosi attribuiti agli spiriti). Fu in seguito alla presa di potere degli uomini che la casa delle donne divenne la casa degli uomini.

Nella lezione che ho ascoltato Chris Knight legge alcuni esempi di questi miti, nei quali si riscontrano, accanto alla linea narrativa principale, molte varianti collegate ai flauti magici piuttosto che al sangue mestruale.

Cosa c’è di vero in questi miti? Di certo hanno una funzione giustificatoria delle strutture patriarcali. Le donne sono pericolose, dunque gli uomini devono tenerle sotto controllo con ogni mezzo, inclusi il segreto e la violenza, escludendole dalla gestione del potere. Questo è il messaggio che passa.

Al di là della funzione giustificatoria, c’è una domanda che sorge spontanea: è davvero esistita un’epoca precedente al patriarcato in cui c’era una sorta di matriarcato in cui le donne avevano il potere? Si e no.

Dopo essersi dilungato ad illustrare i miti cui ho accennato, Knight fa riferimento ad alcuni studi che riguardano i cacciatori raccoglitori puri sopravvissuti fino ai giorni nostri. Quelli di origine più antica. Quelli che non coltivano e non accumulano niente. Come i boscimani del Kalahari o altre popolazioni delle foreste pluviali centroafricane. (Ricordiamoci che tutte le popolazioni extra-africane hanno un’origine relativamente tardiva).

In particolare Knight si sofferma su un rito in uso presso gli Mbuti, i pigmei del Congo descritti da Colin Turnbull nel libro “I Pigmei. Il Popolo Della Foresta”. Quando una ragazza aveva la prima mestruazione, questo era per tutta la tribù un evento gioioso. La ragazza si ritirava con alcune amiche più giovani e alcune amiche più anziane in una costruzione dove gli uomini non potevano entrare, e lì una donna adulta insegnava loro i misteri della procreazione. Gli uomini rimanevano fuori, ma sembra che ad un certo punto le ragazze scegliessero uno dei ragazzi, il quale veniva inseguito, catturato e portato nella “casa delle donne”. Qui tutte le ragazze lo “assalivano” per una sorta di iniziazione sessuale. E il tutto avveniva in un’atmosfera di festa.

Sembra dunque che una forma di dominanza femminile sia esistita, ma solo in modo episodico o periodico, senza i caratteri oppressivi che il patriarcato avrebbe poi assunto nei confronti delle donne. La casa delle donne è esistita, ma il suo significato è stato falsificato nei miti che giustificano il patriarcato. Questa è l’ipotesi di lavoro che pare più probabile.

C’è anche altro da aggiungere. Negli esseri umani il periodo mestruale medio è molto prossimo alla durata del ciclo lunare. Quest’ultimo è un fenomeno molto importante per l’organizzazione della vita dei nostri antenati cacciatori raccoglitori. Nelle notti di luna nuova è pericoloso uscire a cacciare, perché nel buio completo si rischia di essere preda dei grandi felini. È più sicuro uscire a cacciare nelle notti di luna piena, mentre nelle notti di luna nuova è possibile che i nostri antenati si stringessero cantando insieme per tenere lontani i grossi predatori con il suono del canto.

In queste società potevano verificarsi dei rituali in cui le donne, in gruppo, prendevano possesso del centro dell’accampamento. Questi rituali femminili si alternavano ad altri rituali in cui gli uomini mettevano in mostra le loro capacità di cacciatori. È possibile che ci fosse un’alternanza fra questi riti femminili e maschili basata sul ciclo lunare. I riti a dominanza femminile avvenivano dunque in coincidenza con la luna nuova, mentre i riti a dominanza maschile coincidevano con la luna piena, quando si poteva cacciare. E tale alternanza avveniva in modo fluido, senza forme gerarchiche rigide e durevoli.

Che considerazioni si possono aggiungere al punto di vista di Chris Knight (un antropologo britannico), che ho fin qui esposto?

Gli equilibri emotivi del matriarcato
Gli equilibri emotivi del matriarcato

Non è facile avere dati certi sulla vita che l’uomo conduceva decine e centinaia di migliaia di anni fa. Quel che si delinea è una società dai valori egualitari dove non si erano ancora manifestate le strutture gerarchiche in cui viviamo oggi. Il mondo dei cacciatori raccoglitori puri (quelli che non attuavano nessuna forma di accumulazione e di agricoltura) non era un paradiso in terra privo di difficoltà, ma sembra che vi regnasse un equilibrio emotivo di qualità superiore al nostro. Non è poco. Anzi, è tantissimo.2

Non è necessario avere la certezza oggettiva che tutte le popolazioni di cacciatori raccoglitori vivessero in una quotidianità libera dall’incombere del futuro, comparabile al paradiso terrestre. Ci basta molto meno. Ci basta sapere che alcune volte, nel corso della storia dell’uomo, si sia verificato un equilibrio stabile per una lunga linea di generazioni nel quale gli uomini abbiano vissuto un contesto emotivo alimentato da amore e gioco, al polo opposto di una dominanza totalizzante e sorda che opprime e controlla più di quanto sarebbe necessario.3

Una cosa molto, molto interessante è che questo lavoro archeologico/antropologico trova riscontro negli ultimi progressi delle neuroscienze affettive. Queste ultime assegnano un ruolo fondamentale alla cura, alla pena della solitudine ed al gioco considerandole come emozioni di base incluse nella nostra natura biologica. Siamo dunque molto diversi dal lupo di hobbesiana memoria, e ospitiamo dentro di noi degli istinti che promuovono il vivere sociale. Siamo istintivamente aggressivi, è vero, ma altrettanto istintivamente ci prendiamo cura, altrettanto istintivamente sentiamo il bisogno dei nostri simili, altrettanto istintivamente siamo predisposti alla gioia del gioco. Quest’ultima forse non è intrinsecamente di natura sociale, ma trova nell’interazione fra persone uno dei luoghi migliori per esprimersi.

Cosa comporta tutto questo discorso per la nostra vita di tutti i giorni? La conseguenza è che si rinforza la possibilità di definire e sostenere dei nuovi equilibri emotivi che non siano soltanto un rimedio all’ansia e agli attacchi di rabbia, bensì una promessa di paesaggi sociali più degni di essere vissuti (nello scrivere questa frase mi sto lasciando ispirare da Herbert Marcuse).

Chiudo riportando un passo del nostro libro divulgativo sulle neuroscienze affettive e sulle relative implicazioni filosofiche:

La visione di Panksepp sembra candidarsi come sostitutiva nei confronti di quella di Freud, la quale ha alimentato molte delle riflessioni di quell’importante gruppo di pensatori costituito dalla Scuola di Francoforte. Nella visione di Freud la riflessività era intrinsecamente necessaria al sociale per la sua funzione di freno nei confronti delle pulsioni fondamentali di piacere e di distruzione. Nella visione di Panksepp la riflessività si pone invece come elaborazione complessa di radici che includono in sé il valore sociale primario.

La ragione non pare più porsi come originaria fonte di luce. Assomiglia più alla modulazione di una luce che proviene da un altro luogo e che bisogna farsi carico di conservare, evitando le riflessioni che potrebbero neutralizzarla invano. In tale concezione perde di vigore il pessimismo cosmico implicito nel concetto di dialettica dell’illuminismo sviluppato da Adorno ed Horkheimer, esponenti massimi della Scuola di Francoforte, a metà del novecento.”

Da: “Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche.”

1Tieni presente quanto notava Richard Bulliet nel suo corso di World History alla Columbia University: non è necessario che il fenomeno della proprietà sia emerso anzitutto come proprietà della terra. Potrebbe essersi presentato anzitutto come proprietà degli animali piuttosto che dell’acqua: https://www.youtube.com/watch?v=gE_29Y64frk&t=7s (il titolo del video su youtube fa riferimento all’islam, ma ci deve essere un errore. In questa lezione Bulliet parla delle culture dell’Africa, in particolare del Sahara. È interessante in particolare il riferimento a Nabta Playa.

2Su questo tema vedi anche: Gray, Peter. “Play as a Foundation for Hunter-Gatherer Social Existence.” American Journal of Play 1.4 (2009): 476-522.

3A scanso di equivoci, preciso che noi consideriamo la dominanza come un fenomeno dotato di rivolti sia positivi e negativi. Il nostro sogno nel cassetto non è annullare il fenomeno della dominanza, bensì riformarlo perché si coniughi meglio ad un progetto umanistico che promuova la fioritura dell’uomo. A questo scopo sarebbe desiderabile individuare uno spettro di varianti di dominanza che vanno da quella sorda, totalizzante e ipocrita fino a quella più aperta e minimalista di se stessa.

Sfogare la rabbia?

Sfogare la rabbia può sembrare un modo legittimo di esprimere il proprio sentimento, ma rischia di diventare una trappola emotiva. Appoggiandoci alla visione offerta dalle neuroscienze affettive, in questo articolo cercheremo dei modi alternativi per gestire questa emozione, così importante per l’equilibrio affettivo e la crescita personale.

La rabbia si manifesta con una forte propensione all’azione. Il cuore batte più forte, la pressione sale, il respiro accelera e i muscoli vanno in tensione. Le sensazioni provate in tale situazione possono essere immaginate come l’effetto di un fluido in pressione dentro di noi. È cosí che spesso “Un aumento graduale della rabbia è descritto come un crescere della pressione o come un raggiungimento del punto di ebollizione dello stato interno”1. Con tali premesse, l’idea di sfogare la rabbia sembrerebbe un buon modo di riequilibrare le nostre sensazioni. Se lasciamo uscire la pressione all’esterno, cosí ci dice l’intuito, allora si abbasserà la pressione all’interno. Purtroppo questo “modello idraulico della rabbia”2 (che risale almeno alla psicoanalisi di Freud3 ed è ipotizzato anche da Konrad Lorenz4) è parzialmente ingannevole, e non ci aiuta ad agire nel modo più corretto.

Negli anni cinquanta venne condotto un esperimento per verificare se si potesse sfogare la rabbia piantando chiodi con un martello. Come risultato, “le persone che avevano martellato i chiodi erano più (anziché meno) ostili nei confronti della controparte…”5

Nel 2001 venne svolto un esperimento simile ma più raffinato.6 L’esperimento coinvolse alcune centinaia di studenti universitari ai quali venne data una votazione ingiusta.Gli studenti cosí irritati vennero divisi in tre gruppi. Sia gli studenti del primo gruppo sia quelli del secondo gruppo presero a pugni un sacco da pugilato, ma i primi lo fecero mentre guardavano un’immagine dell’esaminatore, mentre i secondi lo fecero guardando il corpo perfetto di un atleta. Gli studenti del gruppo 3, invece, rimasero semplicemente ad aspettare mentre uno dei ricercatori lavorava al computer.

Alla fine dell’esperimento, gli studenti del gruppo 1 erano quelli con i livelli di rabbia più elevati.7 Colpire il sacco da pugilato pensando all’istigatore della rabbia non aveva disperso gli istinti aggressivi.8

Tale risultato dipende probabilmente dal modo in cui la rabbia altera il nostro modo di ragionare. La rabbia, infatti, non ha solo degli effetti fisiologici. La rabbia possiede “un’abilità inusualmente forte di catturare l’attenzione.”9 Le persone “non sono cognitivamente competenti quando si arrabbiano”, e una persona arrabbiata “non è ottimamente vigile, ponderata, empatica, prudente”.10 La persona arrabbiata tende a ripetere in modo ciclico i pensieri che hanno alterato il suo sentimento. La ruminazione intellettuale, riproponendo incessantemente il proprio punto di vista, non aiuta a calmare la rabbia, piuttosto l’amplifica. “Sfogando” la rabbia con azioni distruttive rischiamo di prolungare il pensiero accusatorio, e di trovarci più arrabbiati di prima.

Quali sono dunque le alternative che abbiamo a disposizione?

La rabbia nasce nelle situazioni in cui ci incontriamo-scontriamo con gli altri. “La rabbia è un’emozione molto interpersonale. Essa non può essere pienamente compresa separatamente dal contesto in cui accade…”11 Tipicamente ci arrabbiamo quando qualcuno ci manca intenzionalmente di rispetto.12 Ciò può succedere nei modi più diversi; può accadere, ad esempio, di venir tenuti all’oscuro di qualcosa, di non ricevere la dovuta attenzione, o di veder danneggiato un oggetto a cui teniamo particolarmente.

Prendiamo in considerazione un esempio piuttosto banale, ma significativo: se ci arrabbiamo con una persona perché ci ha insultato e all’improvviso ci rendiamo conto che non stava parlando con noi, la nostra rabbia diminuirà notevolmente, forse addirittura sfumando del tutto. E questo non perché “la pressione della rabbia” sia stata scaricata all’esterno, bensì perché si è disattivata la sorgente che generava il sentimento della rabbia.

L’intenzione della controparte13 e il mancato rispetto sono solitamente la sorgente della rabbia, ed è lì che conviene intervenire. Se per sfogarmi distruggo un oggetto inanimato, è come se in un certo senso tentassi di ingannare la mia emotività. Ma la mia emotività non è stupida, per così dire, e si rende conto che il vero problema non è stato affrontato distruggendo un piatto, dando un pugno ad un cuscino, oppure urlando da soli in una stanza.

Il problema nel comprendere la rabbia è che quando ci pensiamo ci arrabbiamo. Per capire la rabbia dovremmo andare a guardare proprio nel punto esatto dove essa nasce, ma al tempo stesso vorremmo precisamente distoglierne lo sguardo per non restarne coinvolti. Può allora essere d’aiuto immaginare l’episodio dell’arrabbiatura come se fosse, letteralmente, la scena di un film, come se noi fossimo un regista che osserva noi stessi dall’esterno e che riavvolge con pazienza la pellicola per ri-esaminare cosa è successo nel punto incriminato. Osservandoci in questo modo, come se fossimo il regista di noi stessi, potremo staccarci più facilmente dal nostro punto di vista personale, e raggiungere cosí uno stato emotivo più equilibrato.

Non è per nulla facile convincere la nostra parte arrabbiata che la sua accusa non è davvero cosí sicura come sembra. È come se ci fosse dentro di noi una creatura sorda che non vuole ascoltare, e quando essa prende il controllo delle nostre fantasie si creano soltanto dei problemi. Siamo chiamati a fare tutto il possibile per impedire alla rabbia di prendere il controllo delle nostre fantasie, perché quando ciò accade vengono generati motivi di risentimento e piani di vendetta irrealizzabili, i quali non possono che nuocere alla salute delle nostre relazioni. Noi non dovremmo perdere il nostro tempo e la nostra energia ad immaginare la distruzione del nemico, dovremmo invece “usare il cervello” per comprendere cosa questi voglia davvero. E allora forse ci accorgeremmo che col nostro supposto nemico si può anche, volendo, trasformare un conflitto in un’alleanza, o forse ritrovare la strada per l’intimità, se il nemico identificato dalla rabbia è il nostro partner.

La rabbia dovrebbe essere un segnale che ci chiama ad un confronto attento con la realtà concreta, e non ad una fuga in avanti verso le fantasie di vendetta. La rabbia ha un messaggio da darci, perché dove ci arrabbiamo c’è qualcosa che va risistemato. È un messaggio da ascoltare con attenzione, ma non per fare quello che dice la rabbia, bensí per tenerne conto nel prendere la decisione giusta, e quindi passare oltre.


Le situazioni che danno origine alla rabbia sono quelle in cui si definiscono e si aggiustano i confini fra noi e gli altri. Per questo la rabbia è importante e merita di essere studiata. Perché come tutte le emozioni essa dà forma al nostro ragionamento, e se noi non capiamo come funziona, succede che rimaniamo intrappolati nei suoi meccanismi ricorrenti. Sul nostro sito si trovano alcuni articoli che fanno parte della nostra ricerca sulla rabbia. Se ne trova una sintesi a questo link: La psicologia della rabbia, un’occasione per crescere.

APPENDICE
1) Nel caso specifico in cui una persona non si sente in grado di manifestare la rabbia, allora alcuni momenti di sfogo della rabbia potrebbero funzionare da catalizzatore per promuovere l’autocomprensione e la crescita personale. L’idea è che “restare con il sentimento”14 ci possa aiutare a capire da dove il sentimento prenda le mosse e quali ne siano le conseguenze. Si tratta però di esperienze delicate, che probabilmente necessitano dell’aiuto di un terapista professionista.

2) Come ogni emozione, anche la rabbia da luogo a una molteplicità di situazioni molto complesse, diverse da persona a persona. Vi potrebbero dunque essere delle circostanze particolari in cui qualcuno prova una soddisfazione momentanea nello sfogo di rabbia, ma rimane il fatto che la rabbia accade tipicamente nell’ambito delle relazioni sociali durevoli,15 e sembra molto difficile che tali relazioni possano diventare più piacevoli permanendo in un’atmosfera di rabbia. Abbiamo approfondito questo tema nel nostro articolo sulla rabbia verso il partner.


Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico o del professionista abilitato.


BIBLIOGRAFIA

Alia-Klein, Nelly, et al. “The feeling of anger: From brain networks to linguistic expressions.” Neuroscience & Biobehavioral Reviews (2019) p. 492.

Archer, John. “The nature of human aggression.” International journal of law and psychiatry 32.4 (2009): 202-208.

Busch, Fredric N. “Anger and depression.” Advances in Psychiatric Treatment 15.4 (2009): 271-278.

Bushman, Brad J. “Does venting anger feed or extinguish the flame? Catharsis, rumination, distraction, anger, and aggressive responding.” Personality and social psychology bulletin 28.6 (2002): 724-731.

Eibl‐Eibesfeldt, Iraneus. “Evolution of destructive aggression.” Aggressive Behavior 3.2 (1977): 127-144.

Frodi, Ann. “Effects of varying explanations given for a provocation on subsequent hostility.” Psychological reports 38.2 (1976): 659-669.

Mackay, Hannah C., Michael Barkham, and William B. Stiles. “Staying with the feeling: An anger event in psychodynamic–interpersonal therapy.” Journal of Counseling Psychology 45.3 (1998): 279.

Novaco, R. W. (2016). Anger. Stress: Concepts, Cognition, Emotion, and Behavior, 285–292. doi:10.1016/b978-0-12-800951-2.00035-2


1Alia-Klein et al. 2019, p. 492.

2Bushman 2002, p. 725.

3“Le idee terapeutiche di Freud a riguardo della catarsi emozionale formano la base del modello idraulico della rabbia.” Bushman 2002, p. 725.

4“Il modello idraulico per le tendenze al comportamento aggressivo postulato da Lorenz (1966) trae validità da fatti fisiologici.” Citato in Eibl-Eibesfeldt 1977, p. 138. Sempre sull’impostazione di Lorenz, considera anche: “Questo è il motivo per cui generalmente ha senso, da un punto di vista funzionale, che un sistema motivazionale dell’aggressività sia basato su un principio generato dall’avversione piuttosto che da un appetito (…), come una volta fu suggerito da Lorenz…” Archer 2009, p. 207. Ciò significherebbe che non vi è un appetito per l’azione aggressiva il quale lentamente si accresce, indipendentemente della situazione in cui ci troviamo. Al contrario, in assenza di situazioni avverse, il sentimento della rabbia semplicemente non si presenterebbe.

5Bushman 2002, p. 725.

6Bushman 2002.

7Il grado di rabbia è stato valutato con dei questionari e con un metodo sperimentale che può essere curioso riportare: i partecipanti venivano posti in una situazione competitiva in coppia con un altra persona. Ad entrambi veniva fatto ascoltare un suono improvviso. Il primo che rispondeva premendo un bottone aveva il diritto di infliggere alla controparte un rumore di volume elevato di durata a piacere. La durata di questo rumore veniva determinata tenendo premuto un bottone. Il livello di arrabbiatura corrispovande alla durata media del rumore inflitto all’avversario.

8I livelli inferiori di rabbia furono riportati dal terzo gruppo.

9Lerner e Tiedens 2006, p. 116.

10Le due citazioni sono tratte da Novaco 2016, p. 286. Sul medesimo tema vedi anche Alia-Klein, Nelly, et al. 2019.

11Averill 1983, p. 1149.

12Cosí si esprime R.W. Novaco sulla rabbia: “Prototipicamente, essa è innescata o provocata da eventi che sono percepiti costituire un deliberato danneggiamento da parte di un istigatore verso qualcuno o verso coloro a cui qualcuno è affettivamente legato (endeared).” Novaco 2016, p. 285.

13“Heider (1958) sottolineava che l’attribuzione di intenzione é un fattore importante che influenza l’assegnazione di una causa e dei suoi effetti. Le reazioni di una vittima ad una provocazione, infatti, sembrano essere notevolmente influenzate dalla sua comprensione delle intenzioni sottostanti. Similmente, Kelley (1971) argomentava che spesso é l’intenzione ostile ad essere reciprocata, e non l’ammontare del danno o del dolore ricevuti nel corso di un’interazione aggressiva. Rule, Dick e McAra hanno riscontrato che gli studenti delle scuole superiori giudicavano un atto aggressivo motivato da ragioni personali come più sbagliato e meritevole di punizione rispetto ad un aggressione motivata da ragioni non personali o non egoistiche.” Frodi 1976, p. 660. “In breve, la rabbia é una risposta ad un qualche misfatto percepito” Averill 1983, p. 1150.

14Mackay 1998, p. 280.

15Si veda la tabella 2 a pagina 1150 di Averill 1983. Soltanto nel 13% dei casi gli episodi di rabbia erano diretti verso uno sconosciuto. Nel 29% dei casi riguardavano la persona amata. Nel 24% dei casi una persona ben conosciuta e oggetto di apprezzamento.

REV 24 luglio 2021 – rivisto primo paragrafo il giorno 1 settembre

Attacchi di rabbia (e scatti d’ira): come gestirli

La rapidità con cui la rabbia prende possesso delle nostre risorse mentali deriva dalla sua funzione naturale. Di fronte ad un’invasione del nostro territorio, infatti, dobbiamo essere pronti a difenderci subito. Per questo i muscoli vanno in tensione ed i pensieri si focalizzano sul “nemico”, facendo convergere su di lui tutta la nostra potenzialitá distruttiva, incluse le critiche verbali.

La pressione sanguigna si innalza, il respiro accelera, e cosí pure il battito cardiaco. É questo il modo in cui il nostro corpo rende disponibile il massimo dell’energia al sistema motorio. A livello mentale tendiamo ad amplificare ogni informazione che conferma la nostra interpretazione conflittuale, mentre diventiamo sordi a tutto il resto. La forza di questa canalizzazione del pensiero é davvero sorprendente, e costituisce il motivo per cui é difficile contrastare gli attacchi di rabbia.

Come notava Gabor Maté0, la rabbia ha senso soltanto quando riusciamo ad esprimerla sul momento in cui nasce. Chiaramente, questo deve avvenire in modo non distruttivo. Se troviamo il modo di dichiarare subito i bisogni che non sono stati rispettati, forse ci salveremo dalla spirale negativa indotta dall’attacco di rabbia. Ma non é sempre facile trovare un modo di comunicare adeguato al contesto. Anzi, spesso é difficile.

Una mossa che puó rivelarsi molto utile, quando ci sentiamo dominati dalla rabbia, é pensare alle persone di cui desideriamo prenderci cura. Il motivo é semplice. Se la funzione naturale della rabbia é profondamente radicata nel nostro organismo, altrettanto lo é quella della cura. Combattere i nemici é importante, ma non meno importante é prendersi cura dei propri piccoli. Con la differenza che la rabbia ci annebbia la mente e ci rende ciechi, lá dove il sentimento della cura ci predispone all’ascolto.

Fronteggiare la rabbia con la sola razionalitá puó essere difficile. Facendo appello alla cura invece, contrapponiamo alla rabbia una motivazione altrettanto primitiva e potente. Sia nel mondo umano sia in quello animale, vi sono pochi esempi di una determinazione piú grande rispetto alla madre tesa a proteggere i propri piccoli.

Non a caso, la cura é stata identificata dalle neuroscienze affettive come una struttura emotiva di base, al pari della rabbia. E nonostante questo sentimento venga associato facilmente all’archetipo femminile, esso, come ogni padre sa molto bene, fa parte anche della natura maschile.

Il problema é che da un lato l’aggressività ha una radice biologica comune a tutti gli esseri umani, ma al tempo stesso la nostra società condanna (per fortuna) il comportamento aggressivo. La rabbia é importante perché ci segnala che le nostre aspettative sono state calpestate. Ma dopo aver ascoltato con la dovuta attenzione il suo messaggio, non possiamo permetterci di lasciarle il controllo. Dobbiamo piuttosto prenderci cura delle nostre esigenze. Comunicando. Scegliendo le situazioni da frequentare. E decidendo a chi concedere la nostra fiducia.

Il tema della fiducia é molto importante. Tanto piú ci lasciamo colpire nell’intimo, tanto piú sará difficile mantenere il controllo. Per questo dobbiamo stare molto attenti quando ci apriamo, concedendo agli altri di giungere alla nostra parte piú intima. Lo psicoanalista Erik Erikson individuava nelle primissime fasi dello sviluppo il momento in cui l’individuo é chiamato ad imparare il modo giusto di concedere (o non concedere) la propria fiducia00.

In aggiunta a quanto detto finora, vale la pena descrivere alcune semplici strategie che é possibile impiegare per interrompere la proliferazione di pensieri negativi indotta dalla rabbia. Spesso queste strategie fanno ricorso al principio della distrazione: noi non abbiamo davvero il potere di rifiutare ciò che non vogliamo pensare, ma abbiamo la possibilità di praticare dei pensieri alternativi per tenere impegnata la mente e minimizzare i danni dovuti ai sentimenti ostili.


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1 – Cambiare la situazione. Se abbiamo la possibilità di uscire dalla stanza, facciamolo. Ci allontaneremo cosí dalle cause immediate che hanno provocato lo scatto d’ira. E il nuovo ambiente offrirá alla nostra percezione diverse possibilitá di agire, di proteggersi, di affermarsi.

2 – Porre attenzione al respiro. È questo un metodo molto praticato nell’ambito della meditazione. L’aria entra nelle narici e rinfresca le cavità del setto nasale, poi cade veloce in gola e va a spandersi nei polmoni che si gonfiano. Il movimento di espansione termina, e i muscoli richiamano indietro l’addome. E un altro ciclo riparte. Concentrarsi su tutte le micro-sensazioni del respiro è un altro modo di tenere lontana la mente dai pensieri che infiammano l’ira. Inoltre, rallentare la respirazione ha anche un effetto calmante sull’attivazione fisiologica della rabbia.

3 – Praticare il rilassamento muscolare. Si tratta di un metodo specifico proposto inizialmente da Edmund Jacobson nei primi decenni del novecento.1 Richiede di passare in rassegna i principali gruppi muscolari del corpo soggetti ad azione volontaria (le gambe sì e l’intestino no, tanto per fare un esempio). Per ciascuno di questi gruppi muscolari si produce una tensione di 5 secondi seguita da un graduale rilassamento di 10 secondi. Come nel caso del respiro, si ottiene un doppio effetto. Anzitutto il pensiero sta impegnato nelle sensazioni corporee e non alimenta il senso di rabbia, e poi il rilassamento muscolare tende a contro-bilanciare l’attivazione fisiologica della rabbia.

4 – Contare. Nella sua semplicità, contare serve a tenere impegnati i pensieri. Passare da un numero al successivo, magari con una pronuncia ben scandita, serve come forma di distrazione dai pensieri che ci alterano.

5 – Lavorare a qualcosa che non c’entra con l’arrabbiatura. I compiti lavorativi usuali si basano su abitudini robuste e radicate, in grado di richiamare all’attenzione una schiera di dettagli e di significati. Questi riempiono lo spazio del pensiero tenendolo impegnato, che è esattamente ciò che ci serve per togliere risorse ai ragionamenti della rabbia.

6 – Guardare un film. Il film è una storia, e le storie sono la forma privilegiata che da sempre cattura l’attenzione dell’uomo. Come già sottolineato più volte, l’obiettivo è creare un alternativa che impedisca ai pensieri di ripetere i circoli viziosi che giustificano il conflitto. Altre attività utili a tal fine potrebbero essere progettare un viaggio con la fantasia piuttosto che cercare un evento per il weekend o fare ordine nelle nostre stanze.

7 – Fare attività fisica è un altro modo di gestire gli attacchi d’ira. Ma bisogna farlo senza pensare all’episodio che ci ha fatto arrabbiare, altrimenti non si interrompe la catena dei pensieri negativi. A tal proposito, si dice a volte che l’esercizio fisico sia un buon modo per sfogare la rabbia, ma dietro questa idea apparentemente semplice si celano alcune difficoltà significative. Qui puoi trovare un articolo più specifico sullo sfogo della rabbia.

8 – L’umorismo. Gli scatti d’ira dipendono dalle aspettative che abbiamo sul comportamento degli altri, e queste aspettative dipendono dal ruolo che rivestiamo. Allentare la forza con cui questi ruoli ci vincolano può togliere enfasi ai ragionamenti che alimentano la rabbia. L’umorismo ci può allora venire in aiuto come se fosse, in un certo senso, un frammento di Carnevale. A Carnevale gli uomini si vestono da donne, i ricchi si vestono da poveri e i timidi possono indossare una maschera disinibita. Ci si scambiano i ruoli. Per questo l’umorismo (fare una battuta) può allentare la tensione, perché per un momento ci separa dal ruolo e dalle aspettative da cui la rabbia si è originata.2

In questo articolo ci siamo concentrati su quel che si puó fare per gestire la rabbia nell’immediato. Per approfondire il lavoro che si puó fare sulla rabbia, potete leggere questo articolo dedicato alla rabbia repressa.


LEGGI ANCHE: La rabbia nei bambini in età prescolare (capricci, crisi isteriche e crisi di pianto)


La gestione della rabbia fa parte del più ampio tema dell’intelligenza emotiva e della regolazione emotiva. Per una panoramica sulle tecniche di regolazione emotiva puoi leggere questo articolo.

Copyright Manuel Cappello 2023 (ultimo update significativo: 19 giugno 2023)

Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico o del professionista abilitato.

1 Su youtube potete torvare il video: “Dr. Gabor Maté on How to Process Anger and Rage | The Tim Ferriss Show”.

1 Gillibrand, Rachel, et al. Psicologia dello sviluppo. Pearson, 2019. p. 46.

1 Martha S. McCallie BSW, Claire M. Blum RN & Charlaine J. Hood (2006) Progressive Muscle Relaxation, Journal of Human Behavior in the Social Environment, 13:3, 51-66.

2 L’umorismo può anche essere un umorismo che mette in luce che non siamo molto importanti. E richiama il concetto di umiltà.

La meditazione mindfulness e la regolazione delle emozioni

Per arrabbiarsi può bastare un dettaglio sbagliato, e poi la fiamma della rabbia alimenta catene di pensieri che vanno per conto loro, senza più tenere conto della realtà. L’ideale della mindfulness1 è saper cogliere quel dettaglio sbagliato al volo, come se stessimo fermando lo screenshot di un film per salvare l’immagine che ci interessa. Naturalmente il film della realtà non può essere fermato davvero, ma quel momento di consapevolezza emotiva può essere colto, e può diventare decisivo per affrontare la situazione con più equilibrio, con più empatia, con più accortezza.

Meditazione Mindfulness e Regolazione Emotiva

Meditazione Mindfulness e Regolazione Emotiva

La meditazione mindfulness è un allenamento a percepire il proprio stato interiore, e quindi anche il proprio stato emotivo. La mindfulness si focalizza sull’interiorità fisiologica per interrompere la ruminazione e le elaborazioni concettuali (personalmente, io amo le elaborazioni concettuali, ma riconosco che in determinate circostanze bisognerebbe frenarle).

La meditazione mindfulness tipicamente comincia con degli esercizi di concentrazione sul corpo o sulla respirazione. Poi, quando si è trovata la concentrazione, si passa ad esercitare un’attenzione diffusa (open monitoring) nel corso della quale si prende atto di qualsiasi evento esterno o interno che vediamo accadere nel presente.2 Suoni, emozioni, pensieri. La focalizzazione sull’esperienza presente si accompagna ad un atteggiamento non giudicante. Questo è fondamentale. Significa che quando un pensiero non ci piace, noi non pratichiamo l’evitamento, non lo ricacciamo indietro, non lo sopprimiamo. Quel che facciamo è accettarlo, restando a guardarlo momento per momento. E nel fare ciò ci vietiamo di dare corso alle catene di verbalizzazioni interiori che così facilmente tendono a germogliare.3

L’atteggiamento non giudicante e l’accettazione conducono a un decentramento dell’esperienza. È questo un altro aspetto importante della psicologia della mindfulness. Anziché vivere gli eventi identificandoci strettamente con il nostro io (con il soggetto grammaticale dei nostri ragionamenti), gli eventi vengono inseriti in un contesto più articolato, in una cornice di riferimento costituita dalla percezione consapevole dei propri molteplici processi interiori.

Mindfulness significa consapevolezza. La meditazione mindfulness è un adattamento occidentale di alcuni metodi di meditazione appartenenti alla tradizione del Buddismo e dello Yoga. Jon Kabat-Zinn, americano, è un personaggio importante nella storia della mindfulness. Nel 1979 ha creato un programma di riduzione dello stress basato sulle idee fondanti della mindfulness, apprese nel corso delle sue frequentazioni di ambienti buddisti zen. Questo programma di otto settimane diverrà poi famoso con l’acronimo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction: riduzione dello stress basata sulla mindfulness.)

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La formalizzazione delle pratiche di meditazione è stata seguita da un’accresciuta attenzione da parte della ricerca scientifica. Gli effetti della meditazione si sono rivelati benefici per molte patologie della psiche fra cui lo stress, l’ansia, la depressione. Le tecniche di brain imaging hanno rivelato che la pratica della meditazione può cambiare il profilo immediato dell’attività mentale, e nel lungo periodo si possono anche riscontrare dei cambiamenti nelle connessioni fra le diverse aree del cervello.

Le emozioni sono dei processi che possono essere attivati da ciò che vediamo nel mondo, oppure da qualche memoria. Le emozioni hanno conseguenze fisiologiche e cognitive. L’innesco della rabbia, ad esempio, può essere dovuto ad un atto di mancato rispetto, e fra le conseguenze fisiologiche vi sono l’innalzamento della pressione sanguigna, l’accelerazione del battito cardiaco e della respirazione, e un’accresciuta tensione dei muscoli. Da un punto di vista cognitivo, la rabbia produce una catena di pensieri tesi alla distruzione, all’attacco di chi ci ha offeso. La rabbia promuove l’azione necessaria a ristabilire “il nostro territorio”.

La rabbia ha un senso dunque, ma è evidente che può fare dei danni. L’allenamento della mindfulness ci può aiutare a intervenire il prima possibile, quando la rabbia è stata appena innescata, così che sia più facile gestirla. La rapidità d’intervento è uno dei capisaldi della regolazione emotiva.

La mindfulness non ci rende soltanto più bravi a cogliere al volo le manifestazioni dei fenomeni emotivi, siano essi la rabbia, gli attacchi di panico, o le crisi di ansia. L’ascolto sistematico della nostra interiorità crea una sorta di mondo alternativo nel quale si possono tenere impegnati i pensieri. La pratica continua dell’ascolto delle tensioni muscolari e del respiro ci può trasformare, per così dire, in intenditori di noi stessi. È come se sviluppassimo un nuovo gusto per assaporare la nostra interiorità fisiologica.

Quando non vogliamo alimentare un processo emotivo, è molto, molto utile riuscire a concentrarci su qualcosa d’altro (nella letteratura specializzata sulla regolazione emotiva si parla di distrazione), ed è importante che lo si faccia appena possibile . La pratica meditativa ci rende sempre disponibile un’area interiore in cui rifugiarci per staccare la spina dalle ruminazioni concettuali che amplificherebbero le emozioni sgradite.4

Ho parlato finora delle emozioni in termini negativi. Qualcuno forse potrebbe parlare della rabbia come di una forza positiva, ma in fin dei conti le persone arrabbiate non sono felici. Né l’ansia è attraente. Né tanto meno gli attacchi di panico. Ma il cielo delle emozioni è solo per metà colorato di grigio. Vi sono anche emozioni per cui vale la pena vivere. Due di esse, in particolare mi paiono collegate alla pratica di meditazione.

La meditazione si inserisce nella visione del mondo di chi la pratica. Credo vi siano persone che vivono la meditazione come una forma di distacco dal mondo. Io preferisco intenderla come un esercizio per capire quali sia il modo migliore di essere coinvolti nel mondo, il che presuppone anche la capacità di distaccarci da ciò che ci fa male. Soprattutto, credo che sia utile intendere la meditazione in generale, e quindi anche la mindfulness, come una forma di cura. Nell’immediato come una cura verso sé stessi, e più in generale come la coltivazione della capacità di prenderci cura anche delle persone a cui teniamo. La cura, o amore materno, è una delle emozioni primarie secondo le neuroscienze affettive.

La curiosità è un’altra manifestazione emotiva primaria, anch’essa di natura positiva. La curiosità, a me piace pensare, è la vittoria della meditazione e della regolazione emotiva insieme. La curiosità è l’attenzione volta al nuovo, allo scoprire, all’indagare. Chi riesce a far nascere la curiosità, con ciò si è lasciato definitivamente dietro gli schemi fissi alimentati dalla rabbia e dalla paura.

Per gestire le emozioni bisogna anzitutto diventare conoscitori di sé stessi e degli altri. Chi resta prigioniero dei pensieri ciclici non può fare altro che ripetere gli stessi errori. Chi sa diventare curioso delle situazioni emotive invece, è destinato a crescere e a scoprire piccoli tesori nel mondo delle relazioni sociali.

La meditazione, diceva qualcuno, è il singolo cambiamento più importante che una persona possa intraprendere per la propria crescita personale. Di sicuro la meditazione può essere un capitolo importante da aprire nel percorso di una vita. Io credo che il modo giusto di approcciarla non sia un tentativo circoscritto ad una seduta fine a sé stessa. Io ho iniziato a meditare quando mi sono sentito sicuro che avrei dedicato alla meditazione uno spazio piccolo, sì, ma quotidiano. A tempo indeterminato.

Ciascuno di noi segue percorsi diversi per arrivare a questo tipo di decisioni. Per me c’è stata una cosa importante da capire. Nel nostro immaginario la meditazione richiama alla mente delle figure di maestri orientali che vengono da una cultura separata dalla nostra da millenni di civilizzazione distinta. Ciononostante, la meditazione non va vista come una pratica presa a prestito dalla tradizione buddista piuttosto che da quella indiana. La meditazione, io credo, appartiene ad un patrimonio più antico, comune a tutti gli uomini.

Praticare la meditazione, allora, non è una fuga verso qualcosa di esotico e non è un espediente alla moda. È una decisione importante per trovare il proprio centro, un appuntamento con sé stessi, una scelta di lungo periodo che porta ordine nel nostro orizzonte. La meditazione è la scelta di coltivare una sensibilità molto delicata, e il mondo delle emozioni è il territorio dove tale sensibilità può dare i suoi frutti migliori.

Per farti un’idea generale sulla regolazione emotiva ti consiglio di leggere quest’articolo: La regolazione emotiva: Tre orientamenti

Se hai trovato questo post interessante, ti consiglio di approfondire anche il tema dell’intelligenza emotiva, che è molto prossimo a quello di regolazione emotiva.

Le emozioni sono dei processi. È su tale premessa che si basa l’alleanza fra meditazione e regolazione emotiva. Nel modello componenziale di Klaus Scherer troverai un approccio scientifico alla natura processuale delle emozioni.

1L’articolo accademico di riferimento per la stesura di questo testo è il seguente: Farb, N. A., Anderson, A. K., Irving, J. A., & Segal, Z. V. (2014). Mindfulness interventions and emotion regulation. Handbook of emotion regulation, 2, 548-570

2To strengthen attention, MT begins with concentrative attention practices that often focus on physical sensations, such as fine-grained “body scans”, in which individuals attend to physical sensation from specific body parts, or feeling of respiration (…) However, mindfulness practices then transition from focal attention to open monitoring, widespread attention to all sensations, thoughts, and emotions.” Farb e altri 2014, pagina 551-552.

3La mia personale esperienza mi dice che all’inizio è difficile farlo, ma i meditatori di lungo corso dicono che poi ci si riesce.

4Faccio notare un’ambiguità che si può incontrare quando la mindfulness viene presa in considerazione negli articoli scientifici. In un certo senso l’attenzione interocettiva della mindfulness può essere considerata una distrazione dalle ruminazioni concettuali. In un altro senso non è esattamente una distrazione, perché comunque mantiene l’attenzione sulla componente fisiologica dell’emozione in corso.

L’intelligenza emotiva e l’anti-solitudine. Quando la regolazione emotiva diventa filosofia

Nei mesi scorsi ho letto Intelligenza Emotiva di Goleman e ne ho scritto una sintesi. È un libro che si mantiene interessante a più di vent’anni dalla prima edizione; tuttavia, c’è qualcosa nell’impostazione generale che non riesco a digerire.

Goleman dedica molto spazio a raccontare le storie di persone impazzite che fanno strage di minori, omicidi dovuti ad eccessi di rabbia, gravi litigi nati da futili motivi, crisi di coppia, figli maltrattati, ambienti di lavoro corrosivi e medici che non sanno entrate in empatia coi pazienti.

Goleman costruisce gran parte della sua narrazione riferendosi ad esempi tratti dalla cronaca nera, o comunque da situazioni dove l’emotività si lega ad un fallimento del vivere insieme. Nella sua narrativa le tre emozioni principali sono la rabbia, la paura e la tristezza-depressione. In tale visione, la persona emotivamente intelligente è quella che si destreggia meglio tra gli ostacoli-emozioni, evitando di inciamparvi.1

Vi sono alcuni aspetti di questa impostazione che mi interessa approfondire, ed a tale scopo potrà esserci utile un paragone fra Goleman e le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp.

Se Goleman è un abile conferenziere che usa molte storie tratte dalla quotidianità, soffermandosi molto sull’aspetto conflittuale degli intercorsi emotivi, se Goleman invoca una forma di intelligenza capace di porre ordine nel caos generato dalle emozioni, allora Panksepp è (lasciatemi usare un po’ di fantasia) il profeta delle emozioni.

Secondo Panksepp il nostro stare insieme non è il frutto della mediazione effettuata da una saggia ragione per mettere pace tra le scapestrate emozioni. Al contrario, il nostro stare insieme e il nostro essere sociali si fondano proprio su alcuni sistemi emotivi fondamentali quali la cura (l’amore materno), il gioco e la pena della solitudine. Queste emozioni fondamentali sono molto diffuse e sviluppate in particolare tra i mammiferi (noi inclusi), ed infatti i mammiferi si organizzano di frequente in compagini sociali che fra i rettili sono assenti.

Semplificando ulteriormente, Goleman dice NO a paura, rabbia e tristezza-depressione, là dove la mossa psicologica fondamentale di Panksepp è dire SI alla cura ed al gioco. Chi scrive preferisce nettamente l’impostazione di Panksepp, perché questi costruisce il suo discorso attorno all’affermazione di ciò che si desidera anziché attorno alla negazione di ciò che si vuole limitare. Negare un pensiero non è assolutamente la strategia migliore per tenerlo fuori dal lavorio della nostra mente. A tale scopo funziona meglio tenere la mente impegnata su un altro tema.2

Quanto detto finora lo avevamo già accennato in alcuni post precedenti, ma qui vorrei aggiungere qualcos’altro. Detto nel modo più semplice possibile, ci rendiamo conto che anche noi (seguendo Panksepp) costruiamo il nostro discorso organizzandolo attorno a una negazione importante, in modo simile a quanto faceva Goleman. Ci troviamo infatti ad organizzare il nostro sistema di valori dicendo NO alla pena della solitudine. Ed io mi chiedo se non vi sia la possibilità di sostituire questa negazione con un’affermazione che abbia un significato equivalente. Perché la negazione contiene sempre in sé un invito al proprio opposto, mentre l’affermazione è una base più solida su cui costruire.

Anziché ripetermi che non devo mangiare i carboidrati, farei meglio ad imparare le ricette che valorizzano le verdure; anziché immaginare tutte le possibilità di tradimento della mia compagna, farei meglio a creare momenti positivi insieme; anziché lamentarmi dei miei fallimenti, farei meglio a elaborare un nuovo progetto di vita. Lo schema è chiaro a sufficienza. Anziché spendere le energie mentali opponendosi a un certo fattore X, si dovrebbe lavorare per promuovere il suo opposto. Ma quale è l’opposto della pena della solitudine?

Panksepp in inglese indica questo sistema emotivo primario con la parola GRIEF. Noi abbiamo scelto di tradurre in italiano con l’espressione ‘pena della solitudine’ per indicare sia l’aspetto di dolore che è connesso a tale fenomeno, sia il fatto che una situazione caratteristica in cui si genera è l’assenza dei nostri simili. La pena della solitudine è il sistema emotivo che promuove il pianto nel bambino quando questi si rende conto dell’assenza della madre.3 Vi è in ciò qualcosa di molto simile alla comune idea di tristezza, ma, mentre la pena della solitudine è proprio una pena, a volte la tristezza può essere concettualizzata come una sorta di vaga consapevolezza che già porta in sé alcune note di conforto, dovute alla stratificazione cognitiva.

Chi abita, dunque, al polo opposto della pena della solitudine? Forse la vera amicizia, forse il canto, forse essere il destinatario di un prendersi cura. Forse la propria casa, forse la tradizione, forse una bandiera, forse la sensazione promossa da uno stupefacente a base di oppiacei di cui non sostengo l’impiego. Alcuni candidati ci sono, ma non è facile sceglierne uno come centro del significato che vogliamo esprimere. Più in generale, le parole che impieghiamo per indicare le nostre emozioni primarie sono il risultato di una stratificazione molto antica, e non si può avere la pretesa di ribaltarle con un ragionamento lungo appena lo spazio dell’articolo di un blog. Nondimeno, non riesco a rinunciare a quest’idea, che anziché fuggire il vuoto ed il disagio della solitudine ci troveremmo meglio se riuscissimo a indirizzare il nostro sguardo verso quella forma di calore e di benessere che si trova al capo opposto del sentire. L’inseguimento del caldo mi sembra un progetto di vita più costruttivo rispetto alla fuga dal freddo, ma mi manca l’appiglio linguistico con cui costruire l’affermazione che mi serve.

Antisolitudine come regolazione emotiva

Antisolitudine come regolazione emotiva

La parola anti-solitudine forse non esprime correttamente il (supposto) polo opposto della pena della solitudine, ma esprime bene l’esigenza che ho tentato di descrivere. È un’idea di cui abbiamo bisogno per dire come vogliamo vivere, per disegnare i paradisi verso cui vogliamo navigare anziché gli abissi che ci inquietano. Si tratta, se volete, di una forma di regolazione emotiva su scala filosofica.


NEL SEGUENTE ARTICOLO ABBIAMO ELABORATO ULTERIORMENTE L’IDEA DI UN POLO OPPOSTO ALLA SOLITUDINE: Edward Tronick, le emozioni nei bambini e il momento dell’incontro


Per approfondire il tema della regolazione emotiva ti consiglio di leggere i seguenti articoli:

La regolazione emotiva: Tre orientamenti (una panoramica sulle tecniche di regolazione emotiva)

Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

1 Per non essere ingiusti verso Goleman bisogna dire che vi sono anche dei lati più ottimistici della sua prosa, e che la parte pessimistica è comunque verosimile. Ciononostante, nel discorso di Goleman le emozioni sono presentate troppo spesso come una fonte di caos che bisogna imparare a tenere sotto controllo.

2 “Specificare cosa non fare sembra avere un effetto contrario, perché dà risalto alla tentazione, rendendola più desiderabile e più difficile da controllare”

Mann, Traci, Denise de Ridder and Kentaro Fujita, “Self-regulation of health behavior: Social psychological approaches to goal setting and goal striving,” Health Psychology, 32(5), (2013), 487-498, p. 492. http://dx.doi.org/10.1037/a0028533

3 Panksepp, Jaak and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

Cappello, Manuel, 2017, Le emozioni di base secondo Panksepp. http://it.manuelcappello.com/2017/05/le-emozioni-base-secondo-panksepp/

La regolazione emotiva: Tre orientamenti

Una panoramica delle tecniche per gestire le emozioni

Regolare le emozioni è come essere un giardiniere. È come prendersi cura delle piante e dei fiori. Lo sviluppo della regolazione emotiva non ci fa “vivere di meno” e diventare, per cosí dire, più grigi e più scialbi. Le persone con una migliore autoregolazione emotiva hanno una vita interiore ricca di sfumature.1 Il nostro scopo ultimo non è quello di impedire all’emotività di manifestarsi, quanto quello di incanalarla in forme proporzionate e godibili.

Quando siamo presi dalla rabbia, dalla paura o dalla tristezza, questo dipende dalla nostra sensibilità emotiva, che è una parte della nostra personalità relativamente stabile nel corso del tempo. Come poi gestiamo la rabbia, la paura o la tristezza, questo invece fa parte della regolazione emotiva, ed è un arte che col tempo si può apprendere ed affinare. La sensibilità emotiva riguarda l’inizio di un evento emotivo, là dove la regolazione emotiva è l’insieme dei processi che si attuano successivamente, per gestire le dinamiche emotive in corso. 2

Sander Koole3 è l’autore di una rassegna sulle più diffuse tecniche per la regolazione delle emozioni, pubblicata nel 2009. In questo post ripercorriamo l’esposizione di Koole, in cerca dei suggerimenti più adatti per gestire la emozioni in base al nostro stile di vita.

Si possono individuare molteplici strategie di regolazione emotiva di varia natura. Si va dal rilassamento muscolare alla reinterpretazione cognitiva, dalla scrittura espressiva alla meditazione, passando per il controllo del respiro, la soppressione delle emozioni, lo sfogo della rabbia, l’esagerazione dell’espressione e diverse altre. Non è facile organizzare questo materiale teorico in modo sistematico.

Un primo approccio descritto da Koole consiste nell’ordinare queste tecniche in base al sistema su cui intervengono, considerato nell’ambito dell’organizzazione psichica della persona. Si hanno cosí le tecniche per controllare le emozioni che si focalizzano sul contenuto dell’attenzione (come quando ci concentriamo su un compito impegnativo per distrarci da un pensiero sgradito), quelle che agiscono sulla dimensione cognitiva del sapere-che (come quando reinterpretiamo uno sgarbo e ci rendiamo conto che non era diretto a noi), e quelle che agiscono sulla dimensione corporea (come quando cerchiamo di dissimulare un espressione di disappunto).

Tre orientamenti della regolazione emotiva.

Regolazione Emotiva: Tre orientamenti

Il secondo approccio descritto da Koole si concentra non tanto sui “mezzi” (attenzione corrente, sfera della conoscenza, azione fisica), quanto sugli scopi della gestione emotiva. Si hanno cosí tre grandi famiglie: le tecniche dirette ad ottenere un benessere emotivo immediato (tecniche edonistiche),4 quelle dirette al raggiungimento di un obiettivo, e quelle che mirano a stabilire un equilibrio generale della persona.

Questi approcci non danno luogo ad una classificazione esatta, completa e definitiva; sono piuttosto delle mappe utili per orientarsi nelle varie possibilità della regolazione emotiva.

L’Orientamento al benessere immediato

Le persone in cui prevale questo orientamento tendono ad evitare gli stimoli negativi, per esempio distogliendo facilmente lo sguardo da un volto ostile o da una circostanza sgradita. Quando però gli stimoli negativi si fanno più pressanti, e non è possibile evitare di prenderli in considerazione, allora si ricorre a fantasie emotivamente positive per bilanciare il sentimento negativo.

Da un punto di vista cognitivo, questa tendenza “edonistica” si può accompagnare ad una serie di pregiudizi difensivi fra cui la banalizzazione, il criticismo la dimenticanza selettiva delle informazioni che in qualche modo ci danno fastidio, come anche il commento dispregiativo verso gli altri. Un ruolo cognitivo difensivo è riscontrabile anche nei confronti verso il basso e nella creazione di un’immagine importante di sé stessi in un ambito non raggiungibile dalle minacce attuali.5

Da un punto di vista corporeo, la focalizzazione sui bisogni edonistici immediati può far si che il consumo eccessivo di cibo venga impiegato come forma di regolazione/compensazione emotiva, e meccanismi simili possono coinvolgere l’alcol o il tabacco. Anche l’esercizio fisico e la ricerca di vicinanza fisica (soprattutto nelle donne) possono essere interpretati in questo modo.

Ciò che accomuna le tecniche di questa famiglia è la focalizzazione sul qui ed ora e sul benessere emotivo nel breve termine, il che di per sé non è un problema, ed in una certa misura è anche necessario. Il punto dirimente è che un’eccessiva concentrazione su questo tema avviene a spese del benessere di lungo periodo.

L’Orientamento agli obiettivi e ai risultati

Questo orientamento della regolazione emotiva si distingue per la focalizzazione su obiettivi, risultati o compiti ben specificati e descrivibili in parole. Una tecnica tipica in questo ambito è impiegare completamente la propria attenzione nello svolgimento di un compito che richiede un grande impegno, col risultato di distrarsi dai pensieri che alimentavano l’emozione indesiderata. Se mi concentro su un progetto lavorativo, potrò evitare di pensare troppo ai problemi situati nell’ambito della mia relazione. Se invece mi dedico alla costruzione di una casetta nel bosco, potrò evitare di pensare ai problemi di lavoro. Vale la pena ricordare che la negazione diretta dei pensieri sgraditi, al contrario della distrazione, non è molto efficace, e risulta spesso nell’effetto opposto di promuoverli.

L’orientamento agli obiettivi si fonda su di una organizzazione verbale esplicita dei propri intenti e dei propri giudizi di valore sull’ambiente circostante. Questa impostazione si accorda bene con una rielaborazione cognitiva delle situazioni basata su una verbalizzazione esplicita.

Per quanto riguarda il controllo emotivo attraverso il corpo, la focalizzazione su obiettivi e risultati si associa ad un tentativo di moderare l’espressività corporea in modo più o meno consistente. Questo può accadere, ad esempio, nel corso di una trattativa con un cliente, piuttosto che durante un esame universitario. Tale forma di soppressione dell’espressione corporea delle emozioni, però, non è molto funzionale a diminuire le sensazioni emotive provate interiormente. Un paio di alternative possono essere un’espressione esagerata dello stato emotivo, oppure lo sfogo. Nemmeno queste strategie basate sul corpo, però, sembrano essere molto efficaci.6

Nel caso dell’orientamento ad obiettivi e risultati precisi, sembra che la via migliore non sia controllare le emozioni attraverso il corpo, bensì mediante la sfera cognitiva.

L’orientamento alla persona

L’orientamento alla persona prende in considerazione la persona nella sua interezza, lavorando per integrare diversi aspetti della personalità che spesso sono considerati come poli opposti: il corpo e l’anima, le emozioni negative e quelle positive, il controllo e l’ascolto.

Tra le attività che promuovo questa forma di integrazione vi è la meditazione, e nell’ambito delle pratiche meditative Koole cita in particolare la mindfulness. Nel corso di una sessione di mindfulness le persone sono invitate a prendere atto in modo oggettivo, non giudicante, delle proprie esperienze interne ed esterne.

Il processo di integrazione può prendere la forma di una riflessione che inserisce le emozioni in una prospettiva più ampia. Abbiamo cosí la possibilità di impiegare la scrittura espressiva per promuovere la formazione di una narrativa ordinata degli eventi accaduti. Il raccontare inserisce in una cornice di riferimento gli episodi che prima di essere raccontati erano disposti in formazione sparsa.

Similmente, l’elaborazione di una buona memoria autobiografica crea un contesto di ampio respiro dentro il quale si possono collocare gli eventi emotivi, attribuendo loro un significato sullo sfondo del nostro percorso di vita.

Stati emotivi distinti sono associati a schemi di respirazione distinti, motivo per cui la respirazione controllata è un metodo valido per la regolazione emotiva, in particolare per alleviare lo stress emotivo. Negli esercizi di respirazione si esercita sia un controllo sul corpo (imponendo un certo ritmo alla respirazione) sia un ascolto delle sensazioni fisiologiche collegate al respiro. Questo intreccio di azione sul corpo e di ascolto del corpo è un esempio di integrazione che ben si coordina con l’attitudine olistica dell’orientamento alla persona.

Un simile schema di interazioni controllo-ascolto si trova anche nelle pratiche di rilassamento muscolare. Queste consistono nell’alternare brevi momenti di tensione e di rilassamento muscolare, e la loro efficacia per la diminuzione di ansia e stress è migliore quando manteniamo l’attenzione concentrata sulle sensazioni muscolari.

Regolazione emotiva ed intelligenza emotiva

L'Arte della Regolazione Emotiva

L’Arte della Regolazione Emotiva

La regolazione delle emozioni è strettamente imparentata con la regolazione dell’umore, la gestione dello stress e l’intelligenza emotiva. Non è un caso che i vantaggi attribuiti alla regolazione emotiva siano simili a quelli attribuiti all’intelligenza emotiva: miglioramento della salute mentale, soddisfazione nelle relazioni, buona riuscita sul lavoro. Rispetto alla regolazione emotiva l’intelligenza emotiva include esplicitamente la capacità di riconoscere le emozioni, non soltanto di influenzarne il corso. Soprattutto, l’intelligenza emotiva riguarda anche la capacità di interagire con le emozioni degli altri.7 Chi vuole approfondire il tema dell’intelligenza emotiva può leggere il nostro articolo: “Intelligenza emotiva di Daniel Goleman. Una sintesi ed alcune idee nuove.”

Le emozioni fondamentali secondo le neuroscienze affettive

Alla luce della rassegna di Koole, potremmo dire che la nostra personale preferenza va ad un orientamento alla persona capace di promuovere l’autoregolazione emotiva mediante un’integrazione di tipo olistico. Tale azione di coordinamento dovrebbe includere nella propria regia anche la mediazione fra la ricerca del benessere immediato e la focalizzazione sui risultati da raggiungere nel futuro. Perché questa integrazione abbia luogo, un’articolata consapevolezza dei propri stati emotivi può essere d’aiuto.8 In quest’ottica riteniamo utile una riflessione a riguardo di quali siano le emozioni fondamentali dell’uomo. Koole, nel corso della sua rassegna, fa riferimento al modello teorico di Russell, secondo il quale le emozioni sarebbero identificate da un livello di attivazione e da una valenza che assume valori da piacevole a spiacevole. Noi pensiamo che tale visione sia posta ad un livello di astrazione troppo elevato,9 e preferiamo prendere come riferimento il punto di vista delle neuroscienze affettive, le quali individuano sette emozioni fondamentali di origine biologica: paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, gioco, pena della solitudine, ricerca/voglia-di-fare.10 Questa visione (che può anche essere posta in continuità con il modello componenziale di Scherer), può essere approfondita leggendo il nostro testo divulgativo “Le emozioni di base secondo Panksepp”.

Qui di seguito puoi trovare altri articoli sulla regolazione emotiva:

Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

Gli effetti della regolazione emotiva su ansia e depressione

1“È dunque verosimile che la vita emotiva delle persone divenga più ricca nel momento in cui le persone apprendono nuove e più potenti metodi per regolare le proprie emozioni.” Koole 2009, pagina 31. (vedi nota 2)

2Questa descrizione della distinzione fra sensibilità emotiva e regolazione emotiva rappresenta il punto di vista di Koole, ma si può notare che un lavoro sufficientemente profondo di regolazione delle emozioni implica anche uno sviluppo dell’identità personale, la quale a sua volta può influire sulla nostra sensibilità emotiva. Per esempio, la rabbia spesso si scatena quando qualcuno ci manca di rispetto, là dove la mancanza di rispetto dipende dalle nostre aspettative, e dal nostro senso di identità, ovvero da quale è di volta in volta il “territorio da difendere”. Per esempio, se ci appassioniamo alla progettazione di un viaggio e lo consideriamo come se fosse una cosa esclusivamente nostra, potremmo anche risentirci nel caso in cui i nostri compagni di viaggio dovessero tardare a prepararsi al mattino, rendendo impossibile realizzare l’intero percorso che ci eravamo immaginati. Una persona che ha sviluppato un buon livello di consapevolezza emotiva dovrebbe invece ricordarsi che non può permettersi di considerare il viaggio come cosa propria, senza tener conto delle aspettative e dei bisogni delle altre persone. Se si impara a tener distinta la passione dal senso di possesso, cosí facendo si cambiano le frontiere della propria sensibilità emotiva.

Vediamo dunque che la distinzione tra sensibilità emotiva e regolazione emotiva sembra giustificata nel breve periodo, ma tende a sfumare quando si considera un intervallo di tempo più esteso e quando si dà un senso più ampio e profondo al concetto di regolazione emotiva, andando ad includere l’intero processo di crescita personale.

3Sander L. Koole (2009): The psychology of emotion regulation: An integrative review, Cognition & Emotion, 23:1, 4-41. DOI: 10.1080/02699930802619031

4“Le strategie orientate ai bisogni (need-oriented) regolano le risposte emozionali per promuovere la soddisfazione di bisogni edonistici” Koole 2009, pagina 21

5A riguardo di questi fenomeni si potrebbe anche parlare di distorsione della realtà, ma bisogna tener presente che tale espressione implica l’esistenza di un’idea oggettiva a riguardo di cosa sia la realtà, e non è cosí scontato che su questo tema sia sempre possibile trovare un completo accordo.

6“Anche se lo sfogo è ampiamente pubblicizzato, la ricerca indica che dare sfogo alla rabbia accresce la rabbia e l’aggressività (…). Presumibilmente, lo sfogo della rabbia mette benzina sul fuoco innalzando l’attivazione dei pensieri di rabbia e le tendenze all’azione (…), che a loro volta promuovono l’emozione della rabbia ed il relativo comportamento.” Koole 2009, pagina 25.

7Vale la pena osservare che calarsi in una rete di relazioni può essere considerato come un modo di creare attorno a sé un ambiente che favorisca la propria regolazione emotiva. In tal senso anche il concetto di regolazione emotiva finisce per assumere una connotazione sociale.

8“Una volta che la conoscenza rilevante alle emozioni è stata acquisita, questa conoscenza può essere d’aiuto nei successivi sforzi di regolazione emotiva. Specificamente, quando la conoscenza delle emozioni diventa più vasta e differenziata, nuove esperienze emozionali possono essere incorporate più facilmente negli schemi cognitivi esistenti.” Koole 2009, pagina 27.

9Scherer critica il concetto di ‘core affect’ sviluppato da Russell e Barrett, il quale individua le emozioni come dei punti in uno spazio bidimensionale determinato da attivazione e valenza. Secondo Scherer questo modello corrisponde ad una forma di elaborazione cognitiva a posteriori delle emozioni, ma non vi sono indicazioni che il piano bidimensionale di valenza e attivazione sia in qualche modo più primitivo di altre rappresentazioni delle emozioni. Riporto in proposito alcune citazioni di Scherer:

“Un problema centrale con la nozione di ‘core affect’ proposta da Russell (…) e Barrett (…) è che vi è soltanto un tentativo minimo di descrivere il meccanismo mediante il quale il ‘core affect’ è prodotto.”

“Secondo, entrambi Russell e Barrett dichiarano che il ‘core affect’, un punto in un semplice spazio valenza-attivazione, è la “primitiva” psicologica centrale per il sentimento degli affetti, ed è la base per tutta la successiva elaborazione, ovvero per la costruzione di una categoria emotiva. Questa affermazione non è né giustificata teoricamente né dimostrata empiricamente.”

“Questo non significa che la proiezione a due dimensioni sia ‘core’ nel senso di essere logicamente prioritaria o più originaria o più primitiva per quanto riguarda la ‘quantità’ di elaborazione subita. Al contrario, una proiezione a poche dimensioni è più verosimilmente un prodotto molto elaborato.”

Le citazioni sono tratte dalle pagine 1335-1336 di questo articolo:

Klaus R. Scherer (2009) The dynamic architecture of emotion: Evidence for the component process model, Cognition and Emotion, 23:7, 1307-1351, DOI: 10.1080/02699930902928969

10Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

Manuel Cappello, Le emozioni di base secondo Panksepp, (Brescia, 2017)

Gli effetti della regolazione emotiva su ansia e depressione

Quali sono le strategie migliori per tenere un equilibrio nella nostra vita emotiva? In questo post descriviamo il risultato di uno studio1 effettuato sugli adolescenti, i cui risultati ci appaiono interessanti anche da un punto di vista più generale.

Nel bambino da 1 a 2 anni la regolazione emotiva dipende essenzialmente dall’influenza esterna dei genitori, mentre durante l’età compresa fra 3 e 5 anni aumenta l’importanza dei processi interiori, che naturalmente si intrecciano con fattori sociali, culturali e interpersonali. Negli anni fra 6 e 12 si sviluppano le competenze esecutive (per esempio attenzione, inibizione, memoria, pianificazione), che si accompagnano ad una maggiore consapevolezza delle emozioni e ad una migliore capacità di gestirle. Queste competenze continuano a svilupparsi nel corso dell’adolescenza (dai 13 ai 18 anni), con la messa a punto di processi cognitivi sofisticati quali l’assunzione delle prospettive altrui,2 il pensiero astratto e il processo decisionale. Aumenta cosí l’abilità dei ragazzi di impiegare le strategie di regolazione emotiva in modo efficace.

Da un’analisi della letteratura è possibile individuare almeno sei strategie di regolazione emotiva. Tra di esse, quelle che hanno un effetto tendenzialmente positivo sulla salute mentale sono:

  • la reinterpretazione dei fatti che hanno dato origine all’episodio emotivo (questa è una strategia nota almeno fin dai tempi di Aristotele)

  • l’accettazione che le proprie reazioni si svolgano senza opporre nessuna resistenza (su questo punto, in particolare, torneremo più avanti).

  • il problem solving, inteso come attività volta ad appianare gli ostacoli e a cambiare le situazioni sfavorevoli

Le strategie tendenzialmente negative per la salute mentale sono invece:

  • l’evitamento degli stimoli e delle situazioni che producono esiti emotivi indesiderati (questo può funzionare nel breve periodo, ma alla lunga gli effetti negativi, per esempio l’ansiosità, prevalgono.)

  • la soppressione della sensazione emotiva e della sua espressione nel comportamento.

  • La ruminazione mentale, intesa come forma di riflessione ripetitiva e sterile su cause e conseguenze dell’esperienza emotiva corrente.

Strategie di regolazione emotiva

Lo studio a cui facciamo riferimento si occupa di verificare il legame fra queste sei strategie di regolazione emotiva e i sintomi di ansia e depressione negli adolescenti fra i 13 ed i 18 anni. Schäfer e colleghi hanno realizzato una meta-analisi in cui sono stati analizzati statisticamente i risultati di 35 studi realizzati fra il 1990 ed il 2015. I risultati della meta-analisi confermano quanto ci si aspettava dalle premesse: i soggetti che prediligono la ruminazione, l’evitamento e la soppressione sono più coinvolti nei fenomeni di ansia e depressione, mentre i soggetti che favoriscono le strategie di rielaborazione, il problem solving e l’accettazione sono meno coinvolti.3

Quanto detto finora riguarda il dato oggettivo messo in luce dai risultati sperimentali. È chiaro che questi risultati supportano l’accettazione delle emozioni in senso lato, nonché lo sviluppo delle capacità di problem solving e di rielaborazione. E sconsigliano la soppressione delle emozioni, l’evitamento e la ruminazione. Bisogna però tenere presente che questi dati rappresentano la media di molte situazioni personali qualitativamente disparate, e non vanno presi come regole definitive, bensì come una base per lo sviluppo di approcci teorici di più ampio respiro, nonché di soluzioni personalizzate in base alle situazioni specifiche delle persone coinvolte. A tal proposito vorremmo aggiungere al dato oggettivo un nostro commento personale.

Il valore dato all’accettazione richiama l’attenzione sulla necessità di scegliere interpretazioni culturali che sappiano incanalare i nostri istinti emotivi dando loro soddisfazione. Questo non significa però che dobbiamo farci star bene qualsiasi sviluppo emotivo spontaneo, perché non ci siamo solo noi, ci sono anche gli altri, e noi scegliamo una visione culturale nella quale prendersi cura degli altri è importante. Sia benvenuta dunque l’accettazione, ma intesa come proprietà generale di una comprensione profonda, di una visione culturale ampia che sappia anche porre un limite al libero corso delle emozioni. Tanto per capirci, quando siamo arrabbiati sarebbe disastroso accettare l’istinto di dare un pugno ad un amico. Sembra meglio sopprimere questo istinto sul momento, e poi tornare a discutere dell’episodio in un secondo momento, per giungere ad una comprensione condivisa che ci consenta, a quel punto sì, di trovare un sentimento di accettazione verso il nostro stato emotivo. Vediamo dunque che la soppressione è in determinati casi funzionale ad uno sviluppo positivo delle relazioni sociali. Quello che si può sconsigliare è piuttosto la soppressione reiterata ed abituale dell’esperienza emotiva.

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1Schäfer, Johanna Özlem, et al. “Emotion regulation strategies in depressive and anxiety symptoms in youth: A meta-analytic review.” Journal of youth and adolescence 46.2 (2017): 261-276.

2“Perspective taking” in inglese.

3La ruminazione e l’evitamento hanno una correlazione positiva medio-grande coi sintomi di ansia e depressione. La soppressione ha una correlazione positiva piccola. La rielaborazione e le capacità di problem solving hanno una correlazione negativa medio-piccola. L’accettazione ha una correlazione negativa medio-grande.

La differenza dell’effetto di queste strategie fra depressione e ansia è limitata. Segnaliamo che l’accettazione è più efficace contro la depressione, e che l’evitamento favorisce maggiormente la depressione. Per quanto riguarda le differenze di età, nel corso dello studio non si sono rilevati effetti statistici significativi.

Donald Winnicott, la psicoanalisi e il verbo più importante del mondo: indicare

Donald Winnicott si occupava dei bambini e del gioco. Presso il grande pubblico era diventato famoso grazie ad una serie di trasmissioni radiofoniche del secondo dopoguerra, nelle quali parlava dell’atteggiamento che la mamma dovrebbe/potrebbe tenere nei confronti del bambino. Winnicott è stato una figura molto importante nella psicoanalisi del novecento. Leggendo un suo libro, Gioco e Realtà,1 ho percepito la presenza di un filo rosso di significato che mi ha attratto particolarmente. Si tratta del modo in cui le persone possono crescere insieme, e proverò a parlarne in quest’articolo, a partire da un’esperienza personale.

Tanti anni fa, insegnavo ai nuovi assunti le operazioni manuali da fare per la produzione di chiusure lampo. Erano persone straniere, che venivano in azienda per fare i lavori di assemblaggio manuale durante i picchi stagionali. Mi mettevo vicino al tavolo del nuovo arrivato e prima di tutto mi dedicavo a sviluppare un linguaggio comune. Gli parlavo dei nomi usati per indicare le diverse parti della chiusura lampo. Poi gli spiegavo in che modo prendere il pezzo da assemblare, come ruotarlo, come posizionarlo rispetto agli altri componenti. Quindi gli chiedevo di provare a fare l’assemblaggio, osservavo il movimento della mano, ed intervenivo a correggere dove necessario. Ricordo ancora la mia curiosità nel constatare il modo diverso in cui le persone rispondevano alle stesse parole. Qualcuno capiva al volo, altri avevano bisogno di provare prima con dei movimenti lenti per poi modificare la torsione della mano, la presa con le dita, oppure il punto di appoggio del pezzo. Come dicevo, molte di queste persone erano extracomunitarie, e spesso parlavano poco l’italiano. Ciononostante, restandogli accanto ed osservandoli riuscivo a sintonizzarmi sul loro processo manuale, e spesso potevo rendere chiaro l’errore semplicemente fermando la persona al momento giusto e indicando col dito il problema. È questo il punto su cui mi interessa concentrarmi ora: l’affiancamento senso-motorio creava una situazione comune fra due persone, e tutto il significato di tale situazione si riversava nel semplice gesto dell’indicare col dito indice. Il collocamento in un contesto concreto poteva rendere molto più ricco e significativo un segno di per sé semplice. Dato quel contesto, il mio dito indice diventava capace di evocare la perfezione di un processo.

Winnicott: il premio dell’attesa

In Winnicott ho trovato un grande acume unito a una preziosa forma di modestia teoretica, che apprezzo molto. Winnicott nota che a volte l’analista prova soddisfazione nel dare al paziente l’interpretazione perfetta, perché così facendo mostra la propria intelligenza. Ma spesso sarebbe meglio attendere, guidando il paziente a trovare da solo l’interpretazione giusta. Winnicott dice che gli è servito molto tempo per imparare ad attendere.
Nel libro Gioco e Realtà Winnicott riporta alcuni resoconti delle sue sedute psicoanalitiche. Lì ci vedi l’uso della parola per curare. Nel corso di queste lunghe sedute si creano delle situazioni mentali che formano il presupposto per la formulazione di interpretazioni adeguate alla soluzione del problema del paziente. Sedendosi e parlando a lungo con l’analista, si creano delle situazioni nelle quali la frase giusta funziona come un dispositivo che convoglia i significati dandogli la possibilità di fluire in un canale nuovo.

A questo punto vorrei provare a dire qualcosa che forse mette insieme i racconti psicoanalitici di Winnicott con quei ricordi sulla fabbrica di chiusure lampo.

Nel corso di una seduta di psicoanalisi si sviluppa una situazione che consente di posizionare le parole in modo particolarmente efficace. La stessa interpretazione fornita a freddo non avrebbe lo stesso impatto, scivolerebbe via senza far presa. Quello che io mi chiedo è se non vi siano altri modi per posizionare le parole al punto giusto dove possano fare presa. E la risposta che mi do è che è necessario condividere una situazione. Così come osservare i movimenti dei lavoratori mi consentiva di usare il dito indice con una particolare significatività, così osservare da vicino il processo giornaliero di un altro uomo potrebbe consentirci di piazzare la parola giusta al momento giusto per notare in che modo le sue abitudini cognitive favoriscano lo sviluppo di dinamiche depressive piuttosto che la degradazione di un rapporto di coppia.

Nel dire questo, mi sto immaginando un paziente che accetti di farsi affiancare da un’analista in tutti i risvolti di un’intera giornata. D’altra parte, ad un certo punto noi vorremmo anche uscire dall’ottica di una relazione analista-paziente, e spostarci a considerare il vivere normale. La dimensione della psicoanalisi è molto utile per tenere ben viva l’idea di quanto sia possibile fare con la parola, ma poi questo modo di fare parola si vorrebbe importarlo nelle proprie relazioni quotidiane, senza lasciarlo confinato al patologico.

Uscendo dal rapporto medico-paziente non vi è più una patologia a recitare, per cosí dire, il ruolo del nemico da sconfiggere, e ci troviamo a coltivare dei risultati di natura più ambigua, perché non sappiamo ancora quali siano.

Eccoci dunque a parlare di Couchsurfing. Couchsurfing è un social network nel quale si ospitano persone e si viene ospitati senza scambio di denaro. Qualcuno è attratto soprattutto dalla possibilità di dormire da qualche parte senza pagare, ma il vero spirito di Couchsurfing mette al primo posto l’atmosfera dell’incontro.

(Prima di Couchsurfing c’era Servas, che è un sistema nato nel secondo dopoguerra per facilitare lo sviluppo di rapporti internazionali, allo scopo di prevenire la guerra. Non c’era internet, e si usavano liste su carta con gli indirizzi. Al centro vi era l’idea di condividere un paio di giorni di vita. Servas esiste ancora, e mi sto informando per iscrivermi.)

Ora, detto molto semplicemente, io mi chiedo se sia possibile impiegare la rete di Couchsurfing per realizzare una condivisione di esperienza come quella descritta sopra. Una condivisione di esperienza per scoprire e per farsi scoprire. Per rendere visibili le forme del nostro vivere, e creare così l’opportunità di indicarle. Perché l’atto dell’indicare riesce a convogliare la coscienza in un luogo circoscritto, che prima di essere indicato era sì presente, ma senza essere percepito come un’unità a sé stante. Come la statua nel blocco di marmo non ancora scolpito.

Adesso proviamo a togliere tutto. Togliamo l’indice che addestra alle chiusure lampo, togliamo la tradizione psicoanalitica cui Donald Winnicott appartiene, e togliamo anche Couchsurfing e Servas. Cosa rimane di tutto questo discorso?

Domanda sbagliata. La domanda giusta è: “Cosa vogliamo che rimanga di tutto questo discorso?”.

Se io sapessi già la soluzione di questo piccolo enigma, allora potrei fare a meno di scriverla, e aspettare che il lettore ci arrivi da solo, così come faceva Winnicott coi suoi pazienti. Ma non è così, noi siamo qui per provarci insieme, e la mia idea non si qualifica come una formula che risolve, bensì come un dispositivo da mettere alla prova. Per vedere dove funziona, e dove invece servono correzioni.

Il centro del nostro discorso stava dunque già nel titolo. Il verbo più importante non è il verbo essere, ma il verbo indicare. Lo facciamo quasi da sempre. A partire da quando riusciamo a ricordarci un collegamento fra due cose che si susseguono, la prima viene ad avere la seconda come significato, e la può dunque indicare.

Il problema nostro (o almeno, il problema di molti occidentali ad inizio 21mo secolo) è che ci troviamo a vivere in un mondo di cose isolate e di concetti costruiti come termini isolati. Il che ci porta a vivere come individui (troppo) separati.

I modi dell’indicare sono un luogo privilegiato per fuggire dalla prigione dei termini separati. È ampliando la base concreta in cui si radica l’indicazione che potremo pronunciare parole evocative, parole che fanno la differenza, parole che trasfigurano.

 

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1 Donald W. Winnicott, Gioco e realtà (Roma: Armando Editore, 1974). Titolo originale: Playing and Reality, London, 1971. Traduzione di Giorgio Adamo e Renata Gaddini.

 

 

 

Pontevedra città senz’auto. Un diario di viaggio.

Pontevedra è la città spagnola famosa per aver messo al bando le auto nel centro storico. Io amo l’idea di una città senz’auto, e quest’estate sono andato a visitarla. Qui di seguito trovate il racconto di quello che ho visto.

Arrivato a Pontevedra sono pronto a fotografare tutto, anche le cose inutili, incluso il treno che riparte. Nell’uscire dalla stazione sono pervaso da una leggera ansia di rintracciare subito gli effetti benefici del vivere senz’auto, ma a dire il vero qui di auto ce ne sono molte. Però, inizio a notare con sollievo, sembra che l’andatura sia più lenta che altrove. E appena mi avvicino alle strisce pedonali, subito i veicoli rallentano in segno di rispetto.

Il centro si trova ad alcuni chilometri di distanza dalla stazione, e ci mettiamo in marcia per raggiungerlo. Dopo aver camminato per alcuni minuti troviamo delle strade col limite a 30 all’ora e la carreggiata molto stretta, delimitata da una serie di blocchi di pietra lunghi circa un metro, alternati regolarmente a degli spazi lunghi altrettanto. Questi blocchi di pietra sono piuttosto spigolosi, e fanno passare la voglia di andare veloci alle automobili, che infatti avanzano lentamente. Ai due lati della via ci sono dei marciapiedi molto ampi con alberi e panchine.

Pontevedra – Strada con il limite a 30 Km/h

Procedendo nel nostro cammino raggiungiamo la zona propriamente pedonale. É ricca di luoghi per sedersi, si vede in circolazione un certo numero di carrozzelle per gli anziani e, soprattutto, ci sono tanti passeggini e tanti bambini. Ci troviamo in una zona che onestamente non potremmo considerare turistica. Al contrario, i palazzi sono piuttosto anonimi, eppure le strade sono piene di persone, ed i negozi anche. Mentre camminiamo mi fermo continuamente a fare fotografie cercando gli scorci più interessanti per immortalare lo spirito della città senz’auto, ma Miss Timea mi ricorda che siamo in ritardo per l’appuntamento con la ragazza che ci ospita (abbiamo prenotato una stanza con AIRBNB).

Pontevedra – Persone che camminano nel centro pedonale

Luisa se ne era andata molto tempo fa da Pontevedra per andare a stare a Dublino, ed è tornata qui da poco più di un anno. Quando era più giovane voleva scappare dalla città natale, mentre adesso stare qua le piace. Dice che ci sono tante persone capaci con iniziative interessanti. Questa sera deve uscire per andare a una protesta contro la corrida.

Domenica mattina ho tempo di parlarle meglio. Luisa è contenta della politica pedonale, ma non è allergica all’auto come lo siamo noi. Lei l’auto ce l’ha, solo che per andare in centro non la usa, sia perché in centro non ci sono parcheggi, sia perché la rete dei sensi unici rende difficile (volutamente) raggiungere la meta precisa usando l’automobile. Le chiedo se in città tutti sono contenti di questa situazione di mobilità alternativa. Lei dice che c’è sempre qualcuno che non è contento. Per esempio, i corrieri che devono consegnare la merce ai negozi del centro devono farsi largo lentamente fra i pedoni, perdendo molto tempo (mentre la ascolto mi chiedo se non perderebbero anche più tempo in una città con molto traffico). Poi Luisa mi spiega che qua a Pontevedra i trasporti pubblici sono molto limitati. E se qualcuno deve andare da qualche parte fuori dal centro, deve usare per forza l’auto. Dice che qua le persone i trasporti pubblici non li usano, e nemmeno le biciclette. Noi alcune le abbiamo viste, ma effettivamente erano meno di quel che potevamo aspettarci. Dopo averle parlato per un quarto d’ora, mi perdo a contemplare il paesaggio fuori dalla finestra. Siamo in periferia, e sulla strada che osservo ci sono due lunghe file di auto parcheggiate da entrambi i lati.

Appena Miss Timea è pronta, usciamo per andare a vedere il centro storico. Molti degli edifici che incontriamo sono costruiti con quella pietra granitica che è tipica della Galizia. La stessa che già avevamo visto a Santiago. Ci sono strade, piazze e palazzi interessanti, ma non si può dire che Pontevedra sia una vera e propria città d’arte. Questo a noi interessa molto, perché significa che il modello pedonale può funzionare anche in situazioni “normali”. La città senz’auto non è circoscritta ai borghi medievali con le stradine strette e poco praticabili, oppure ai luoghi artistici con un’elevata qualità estetica delle architetture.

Pontevedra – Uno scorcio del palco montato nella piazza centrale

Qui a Pontevedra non si tratta semplicemente del fatto che qualche strada sia pedonale. È un intera grande area ad essere pedonale, e chi cammina sente di avere la precedenza rispetto alle poche auto che mantengono la possibilità di accedere al centro storico. Si potrebbero fare (e si fanno) molte riflessioni sul modo in cui la presenza delle automobili nello spazio cittadino influenza l’esperienza del vivere le strade. L’immagine chiave che le riassume tutte è quella dei bambini che giocano liberamente per strada. Non è un caso che una delle fonti di ispirazione del governo locale sia stato il libro “La città dei bambini”, scritto da Francesco Tonucci, un italiano che fa parte del CNR (il Consiglio Nazionale delle Ricerche). Il punto fondamentale è che costruendo una città accogliente per i bambini e per gli anziani si ottiene un ambiente più accogliente per tutti.

Pontevedra – Bambini che giocano in strada

La presenza nelle strade di giovani e bambini non è solo un’impressione. La popolazione di Pontevedra è passata da 74.000 abitanti nel 1998 a più di 82.000 nel 20171. Carlos Ferrás, un esperto dell’Università di Santiago de Compostela, sostiene che gli incentivi economici per le nascite si sono rivelati insufficienti allo scopo, e che il punto di partenza per promuovere le nascite è la pianificazione urbana, calibrata per favorire le famiglie che decidono di fare figli. Come è appunto il caso di Pontevedra.

Pontevedra era una città che mostrava segni di declino, ed era soffocata dal traffico automobilistico. Il cambiamento è cominciato nel 1999, promosso dal sindaco Miguel Lores (un medico, dettaglio non secondario). Il principio guida adottato è quello di ostacolare tutto il traffico di auto private che non fosse strettamente necessario alla vita urbana. Si è cosí ritenuto opportuno impedire alle auto di attraversare il centro da parte a parte, e di girare a vuoto in cerca di parcheggio. Questi obiettivi sono stati realizzati con una rete di sensi unici che rende sconveniente l’attraversamento del centro, e (misura fondamentale) rimpiazzando gli spazi dedicati ai parcheggi a raso con degli spazi dedicati al tempo libero e alla vita urbana. I parcheggi sotterranei nel centro sono stati mantenuti, e se ne sono realizzati di nuovi in periferia (gratuiti). In diverse strade vi è stato un approccio graduale con un progressivo allargamento dei marciapiedi fino alla creazione di uno spazio unico dove i marciapiedi non sono più differenziati dalla parte carrabile, e dove i pedoni hanno la precedenza sulle auto.2 La possibilità di accesso al centro è stata mantenuta per chi possiede un garage, per le emergenze, per i disabili e per le consegne (se ho capito bene, c’è la possibilità di soste brevi gratuite per questi impieghi degli automezzi).

Pontevedra, un negozio di cicli “speciali”

Insieme al numero di auto circolanti è calata notevolmente l’emissione di anidride carbonica, e Pontevedra è stata invitata a partecipare alla conferenza sul clima di Parigi del 2015. Questo è solo uno dei numerosi riconoscimenti ricevuti a livello internazionale dalla cittadina spagnola, i cui rappresentanti hanno anche sottoscritto un documento programmatico di Walk21. Walk21 é un associazione internazionale che promuove la mobilitá pedonale, cosa che mi ha incuriosito non poco. Sul sito dedicato si legge che Walk21 “coordina una rete globale di più di 5.000 persone e invita chi è ispirato dal movimento dei camminatori ad entrare in contatto e ad unirsi”. La ventesima conferenza di Walk21 si è appena chiusa a Rotterdam, il 10 ottobre 2019. C’è un video su Youtube che ne parla e porta questa sovrimpressione: “Perché camminare è salutare, alla moda, e per tutti. E contribuisce all’economia.” Ci ho subito messo il like.

Abbiamo provato a chiedere alle persone incontrate in città cosa pensano della situazione delle auto in Pontevedra. L’impiegata del museo dice che è contenta perché c’è una grande accessibilità. La cameriera della birreria dice che le piace camminare, ma forse vorrebbe più posti per parcheggiare. Il proprietario di un piccolo ristorante è contentissimo di camminare, e compra le forniture per la cucina a poca distanza, senza nessun problema.

A Pontevedra la serata della domenica è molto popolata, e per le vie del centro ci sono artisti di strada e gente che fa musica. Alcuni musicisti sono vestiti con abiti folcloristici e suonano anche la zampogna. Un altro gruppetto con gli ottoni e la batteria incalzante è organizzato fuori da un ristorante. Nella piazza centrale è montato un palco e c’è un concerto con un cantante famoso da queste parti.

Pontevedra – La lotteria nel parco di sera

In una zona diversa del centro è organizzata una specie di luna park estivo con le giostre e le bancarelle. Mi attira una grande postazione con tante luci e centinaia di pupazzi e giocattoli. Si possono vincere premi con una specie di lotteria. Per terra c’è uno stuolo di schedine usate, che coprono completamente il suolo. E c’è un uomo col microfono che ha sempre qualcosa da dire per invitare al gioco.

Ma non sono solo i bambini a cadere nelle trappole degli imbonitori. C’è un’altra postazione dove sono esposti, ben illuminati nella notte scura, decine e decine di prosciutti. E anche qui il terreno è coperto di biglietti e schedine. E anche qui c’è un uomo col microfono che incessantemente ripete in una litania i premi che si possono vincere (i prosciutti ed altri insaccati). C’è qualcosa di profondo ed ipnotizzante nella sua voce rauca e rovinata. Direi quasi sciamanico, se non fosse per la prosaicità dei prosciutti.

Lunedì nel tardo pomeriggio abbiamo il treno per Porto, in Portogallo. Dopo aver salutato Luisa usciamo di casa che è quasi mezzogiorno. Vogliamo cercare un posto per mangiare lungo il Rio Gafos, che è un piccolo corso d’acqua nella parte meridionale di Pontevedra. A partire dal punto in cui il Rio Gafos sbocca nell’oceano, lo risaliamo in direzione della stazione, percorrendo il sentiero che lo costeggia. Nell’acqua del piccolo fiume ci sono molti pesci, anatre, e alcuni uccelli strani che assomigliano a dei cigni, ma sono più grassi, hanno alcune piume di color marrone, e il becco di forma diversa. L’area attraversata dal sentiero è ben curata, con prati rasati, grandi alberi frondosi, piccoli ponti graziosi e panchine in abbondanza. Camminando incrociamo un po’ di persone col cane o col passeggino. C’è anche una famiglia che corre, col papà in tuta che tira la volata, i due bimbi che seguono lamentandosi, e la mamma un poco trafelata che prova a correre con la borsa sottobraccio e gli occhiali da sole. Li incrociamo prima in un senso e poi nell’altro, quando tornano indietro. Arrivati in prossimità della stazione troviamo un luogo che ci aveva segnalato Luisa. Si tratta di un terreno dove si può andare a coltivare la terra come passatempo, per conoscere altre persone. È come un grande orto, con alberi da frutto, tante varietà di verdura e qualche fiore colorato.

Pontevedra – L’orto pubblico

La politica dei corsi d’acqua scoperti è impiegata in molti luoghi per la riqualificazione delle aree urbane. Ad Oslo (un altro luogo dove si lavora per lo sviluppo di un modello di città senz’auto; ci vado fra un paio di settimane) hanno in programma di riaprire alcuni canali precedentemente interrati, ma loro sono al freddo e non hanno il problema delle zanzare. A Milano pianificano di riaprire il percorso dei Navigli, e dicono che eviteranno la formazione di zanzare tenendo sempre una velocità minima del flusso d’acqua. Qui a Pontevedra possiamo constatare che di zanzare non ce ne sono. Non saprei se per via del clima oceanico, se per il vento, per l’acqua salata o per le temperature moderate (oggi la massima è di 23 gradi, sulla costa dell’oceano l’estate è fresca).

A Pontevedra ho fatto molte fotografie in questi due giorni, e mentre aspettiamo il treno per Porto le ricontrollo per individuare quelle più significative. Esaminando le immagini mi nascono delle domande. Come si può portare altrove questo esempio di sviluppo sostenibile, questa esperienza di un centro storico senz’auto? Come è possibile estendere questo tipo di mobilitá alternativa ad un area più grande? Come la si può integrare meglio col trasporto pubblico? Come si fa a spiegarla a chi è troppo assuefatto al modello sbagliato di una città costruita per le auto private? Ed in un’ottica più ampia, come si fa a promuovere il passaggio da un capitalismo consumistico, centrato sulle auto, ad un capitalismo delle infrastrutture durevoli?

Per ora non ho la risposta a queste domande, forse capirò qualcosa in più dopo essere stato ad Oslo, che è un tipo di città molto diversa da Pontevedra per dimensione, livello di vita e situazione climatica. Intanto continuo a scorrere le immagini e mi rendo conto di quanto è difficile trovare quella giusta, perché la foto migliore non è altro che la normalità di un uomo che cammina. Nel fare questi pensieri mi torna però alla mente un ricordo. C’era un filosofo, forse Nietzsche, che parlava di come è cambiato il ruolo sociale della caccia col passare dei secoli. Da attività di vitale importanza è diventata un passatempo per i nobili. Ed oggi ha perso anche gran parte di quell’aura di prestigio che la avvolgeva. Ecco, questo esempio mi fa capire cosa voglio augurare all’automobile, soprattutto all’automobile privata. Io auguro all’automobile privata di perdere sia l’apparenza di bene necessario sia il prestigio sociale. Visto però che sono di animo buono, sono anche disposto a fare delle concessioni rispetto a questo mio augurio, forse un poco troppo severo, e non avrò allora obiezioni se i bambini vorranno ancora usare le auto come un gioco.

Pontevedra – Le auto giocattolo

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1https://www.citylab.com/design/2018/11/car-free-pedestrianization-made-pontevedra-spain-kid-friendly/576268/

2Ecco alcuni risultati riportati su un documento diffuso dal governo locale: 81% di bambini che vanno a scuola camminando. 91% di veicoli che non entrano nel centro storico. Nessun morto a causa del traffico da quando è intervenuto il cambiamento. Limite di velocità massima di 30 Km/h esteso a tutta la città. Emissioni di CO2 diminuite del 66% dal 1999 al 2014.

Diario di viaggio a Santiago e Finisterre: Il Pellegrino e Il Mare

(…)

La cattedrale si staglia illuminata contro il buio della sera. Le torri barocche della facciata principale, ricche di decorazioni, si staccano dall’ampia base dell’edificio per svettare verso lo scuro del cielo. Dal lato opposto della piazza c’è un lungo porticato, e nella parte centrale del porticato ci sono alcuni ragazzi che fotografano la cattedrale. Più defilate, sui lati, ci sono un paio di persone che dormono nei sacchi a pelo. Sono sdraiate per terra, sistemate su un semplice telo steso sulla dura pietra del pavimento. Hanno lasciato il bastone appoggiato al muro. Non sono vagabondi, naturalmente, sono pellegrini che hanno fatto il cammino.

Miss Timea il cammino di Santiago l’ha fatto l’anno scorso, e per lei questo luogo ha un significato particolare. Si incanta alla vista dei pellegrini, e le vedo negli occhi i ricordi di quell’esperienza. Mentre io mi siedo sotto il porticato a meditare, lei si perde in giro a camminare nei vicoli illuminati dai lampioni. Ritorna dopo venti minuti ad avvertirmi che il tempo della mia meditazione è finito, e poi si siede per terra con me. E mi dice che per lei questo é il giorno più bello dell’ultimo anno.

Al mattino del giorno dopo torniamo alla cattedrale per visitare l’interno(…)

Santiago, la cattedrale sotto la pioggia. Vista laterale.

Nella zona centrale c’è un folto gruppo di persone, che non capiamo cosa stiano facendo. Noi preferiamo aggirare l’assembramento camminando lungo i muri perimetrali. Miss Timea mi spiega che le persone sono in coda per visitare la cripta coi resti del santo. Lei c’è entrata l’anno prima. Io riesco a confondermi con qualcuno che va e viene da un corridoio e mi infilo nella parte finale della coda. Non c’è solo l’urna da vedere, c’è anche la statua del santo da abbracciare. Santiago è San Giacomo, e più precisamente San Giacomo il Maggiore (uno degli apostoli). Alla statua del santo si accede attraverso una scaletta molto stretta che sale all’interno di un tabernacolo arricchito da colonne dorate ornate da forme vegetali. La statua del santo è più grande di una normale figura umana, e vi si arriva da dietro, all’altezza giusta per abbracciarlo mettendo le braccia sulla mantellina di metallo che ne copre le spalle. Su questa mantellina sono incastonate alcune pietre e vi sono fissate alcune decorazioni metalliche lucidate dagli abbracci dei pellegrini. Ma ho appena il tempo di notarlo, che già il mio turno è terminato.

(…)

Finisterre si chiama anche Finisterra, oppure Fisterra. Il nome viene dal latino finis terrae, che significa fine della terra. Ed infatti si tratta del lembo di terra che, nella spagna del nord, si estende più a Ovest nell’Oceano Atlantico.1 La penisola di Finisterre crea un insenatura protetta dove l’acqua è più calma, ed é da questo lato che si trova il centro abitato, incluso il nostro albergo. Una volta prese le chiavi della stanza e mangiato un kebap, siamo ancora in tempo per raggiungere l’altro lato della penisola dove si puó vedere il tramonto del sole nell’oceano.

Finisterre, onde nella baia

Le onde dell’oceano si fanno sentire a centinaia di metri di distanza. Per raggiungere la spiaggia percorriamo un sentiero costeggiato dai rovi con le more rosse e nere. Ci togliamo le scarpe e i sandali per camminare meglio nella sabbia. Le dune sono cosparse di vegetazione, e stiamo attenti a non calpestare le piante grasse. Gli scogli, in lontananza, sono avvolti da una nebbia sottile. Arrivati sul bagnasciuga ci mettiamo a camminare all’indietro, fotografando le nostre impronte cancellate dall’acqua. Dobbiamo alzare la voce per riuscire a sentirci. Le onde cominciano a fare la cresta molte decine di metri al largo, e quando arrivano a riva sono completamente bianche. Un bambino sta giocando a rincorrere l’acqua che si ritrae nel mare, per poi scappare indietro di fretta quando arrivano le nuove ondate. C’è un uomo che porta il cane a passeggio, e alcune ragazze sedute guardano il tramonto. Del sole rimangono solo alcune strisce arancio appoggiate all’orizzonte, mentre la luna nel cielo si fa più brillante contro il cielo che imbrunisce. Un paio di pescatori hanno piantato la canna nella sabbia, in un punto dove le onde non arrivano. Non vediamo dove si trova la lenza, e per non inciampare risaliamo verso l’entroterra. Il vento continua a soffiare forte, ed é ora di rientrare.

(…)

Vicino al pilastrino del chilometro zero c’è una fila di persone che vogliono farsi la fotografia, e a pochi metri c’è un ragazzo che suona la chitarra. Camminando attorno all’edificio del faro si raggiunge una zona da cui si vedono le onde e gli scogli a strapiombo, da grande altezza. Ci sediamo lì a goderci il sole. Le onde viste da lontano si muovono al rallentatore. Mi perdo a confrontare i movimenti dell’acqua e della schiuma da un punto all’altro della distesa liquida e mobile. Cerco di inseguire il percorso delle onde che si avvicinano, ma quando queste si mescolano al riflusso, non riesco più ad aver presente tutti i movimenti che si intrecciano. All’orizzonte un paio di piccole vele si confondono alla foschia della lontananza, e quando il gabbiano passa a mezza distanza tra noi e le acque posso cogliere appieno la grandezza dei volumi.

L’oceano a vista d’uccello è già una cartolina da ricordare. Ma c’è ancora un percorso ritorto e stretto tra un muro bianco e la ripida discesa del promontorio che ci conduce in un punto da cui si gode una vista privilegiata. L’ultimissimo pezzo di terra dopo il faro scende verso il mare con una pendenza più lieve, in un’alternanza di rocce, chiazze d’erba e sentieri percorribili. Decine di persone se ne stanno sparse nel paesaggio. Ci sono uomini soli che scrutano l’orizzonte e gruppi di amici che scherzano. Alcuni fanno fotografie, altri si siedono a guardare. Ci sono cani al guinzaglio e cani senza guinzaglio, bambini nel passeggino e bambini a spalle di nonni e genitori. È un affresco di umanitá che riempie lo sguardo. Sono persone arrivate qui, alla fine della terra, che giocano curiose col pensiero, chiedendosi cosa ci sia al di là del mare. Una ragazza soprattutto, molto lontana, sta in basso vicino alle onde, in piedi, con le braccia aperte su uno scoglio proteso a sbalzo contro il blu del dell’oceano. La osservo, e con la fantasia mi metto al suo posto.

Finisterre, vista dal faro

Questo post è un estratto del racconto completo.

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1C’é un altro lembo di terra nelle vicinanze che si estende anche piú a ovest, ma tradizionalmente il punto estremo é considerato essere Finisterre.