Gli effetti della regolazione emotiva su ansia e depressione

Quali sono le strategie migliori per tenere un equilibrio nella nostra vita emotiva? In questo post descriviamo il risultato di uno studio1 effettuato sugli adolescenti, i cui risultati ci appaiono interessanti anche da un punto di vista più generale.

Nel bambino da 1 a 2 anni la regolazione emotiva dipende essenzialmente dall’influenza esterna dei genitori, mentre durante l’età compresa fra 3 e 5 anni aumenta l’importanza dei processi interiori, che naturalmente si intrecciano con fattori sociali, culturali e interpersonali. Negli anni fra 6 e 12 si sviluppano le competenze esecutive (per esempio attenzione, inibizione, memoria, pianificazione), che si accompagnano ad una maggiore consapevolezza delle emozioni e ad una migliore capacità di gestirle. Queste competenze continuano a svilupparsi nel corso dell’adolescenza (dai 13 ai 18 anni), con la messa a punto di processi cognitivi sofisticati quali l’assunzione delle prospettive altrui,2 il pensiero astratto e il processo decisionale. Aumenta cosí l’abilità dei ragazzi di impiegare le strategie di regolazione emotiva in modo efficace.

Da un’analisi della letteratura è possibile individuare almeno sei strategie di regolazione emotiva. Tra di esse, quelle che hanno un effetto tendenzialmente positivo sulla salute mentale sono:

  • la reinterpretazione dei fatti che hanno dato origine all’episodio emotivo (questa è una strategia nota almeno fin dai tempi di Aristotele)

  • l’accettazione che le proprie reazioni si svolgano senza opporre nessuna resistenza (su questo punto, in particolare, torneremo più avanti).

  • il problem solving, inteso come attività volta ad appianare gli ostacoli e a cambiare le situazioni sfavorevoli

Le strategie tendenzialmente negative per la salute mentale sono invece:

  • l’evitamento degli stimoli e delle situazioni che producono esiti emotivi indesiderati (questo può funzionare nel breve periodo, ma alla lunga gli effetti negativi, per esempio l’ansiosità, prevalgono.)

  • la soppressione della sensazione emotiva e della sua espressione nel comportamento.

  • La ruminazione mentale, intesa come forma di riflessione ripetitiva e sterile su cause e conseguenze dell’esperienza emotiva corrente.

Strategie di regolazione emotiva

Lo studio a cui facciamo riferimento si occupa di verificare il legame fra queste sei strategie di regolazione emotiva e i sintomi di ansia e depressione negli adolescenti fra i 13 ed i 18 anni. Schäfer e colleghi hanno realizzato una meta-analisi in cui sono stati analizzati statisticamente i risultati di 35 studi realizzati fra il 1990 ed il 2015. I risultati della meta-analisi confermano quanto ci si aspettava dalle premesse: i soggetti che prediligono la ruminazione, l’evitamento e la soppressione sono più coinvolti nei fenomeni di ansia e depressione, mentre i soggetti che favoriscono le strategie di rielaborazione, il problem solving e l’accettazione sono meno coinvolti.3

Quanto detto finora riguarda il dato oggettivo messo in luce dai risultati sperimentali. È chiaro che questi risultati supportano l’accettazione delle emozioni in senso lato, nonché lo sviluppo delle capacità di problem solving e di rielaborazione. E sconsigliano la soppressione delle emozioni, l’evitamento e la ruminazione. Bisogna però tenere presente che questi dati rappresentano la media di molte situazioni personali qualitativamente disparate, e non vanno presi come regole definitive, bensì come una base per lo sviluppo di approcci teorici di più ampio respiro, nonché di soluzioni personalizzate in base alle situazioni specifiche delle persone coinvolte. A tal proposito vorremmo aggiungere al dato oggettivo un nostro commento personale.

Il valore dato all’accettazione richiama l’attenzione sulla necessità di scegliere interpretazioni culturali che sappiano incanalare i nostri istinti emotivi dando loro soddisfazione. Questo non significa però che dobbiamo farci star bene qualsiasi sviluppo emotivo spontaneo, perché non ci siamo solo noi, ci sono anche gli altri, e noi scegliamo una visione culturale nella quale prendersi cura degli altri è importante. Sia benvenuta dunque l’accettazione, ma intesa come proprietà generale di una comprensione profonda, di una visione culturale ampia che sappia anche porre un limite al libero corso delle emozioni. Tanto per capirci, quando siamo arrabbiati sarebbe disastroso accettare l’istinto di dare un pugno ad un amico. Sembra meglio sopprimere questo istinto sul momento, e poi tornare a discutere dell’episodio in un secondo momento, per giungere ad una comprensione condivisa che ci consenta, a quel punto sì, di trovare un sentimento di accettazione verso il nostro stato emotivo. Vediamo dunque che la soppressione è in determinati casi funzionale ad uno sviluppo positivo delle relazioni sociali. Quello che si può sconsigliare è piuttosto la soppressione reiterata ed abituale dell’esperienza emotiva.

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Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

La regolazione emotiva: Tre orientamenti

1Schäfer, Johanna Özlem, et al. “Emotion regulation strategies in depressive and anxiety symptoms in youth: A meta-analytic review.” Journal of youth and adolescence 46.2 (2017): 261-276.

2“Perspective taking” in inglese.

3La ruminazione e l’evitamento hanno una correlazione positiva medio-grande coi sintomi di ansia e depressione. La soppressione ha una correlazione positiva piccola. La rielaborazione e le capacità di problem solving hanno una correlazione negativa medio-piccola. L’accettazione ha una correlazione negativa medio-grande.

La differenza dell’effetto di queste strategie fra depressione e ansia è limitata. Segnaliamo che l’accettazione è più efficace contro la depressione, e che l’evitamento favorisce maggiormente la depressione. Per quanto riguarda le differenze di età, nel corso dello studio non si sono rilevati effetti statistici significativi.

“Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman: una sintesi (e qualche idea nuova).

In questo articolo riassumeremo i concetti fondamentali del famoso libro di Goleman, per poi accennare brevemente alla visione corrente delle neuroscienze affettive.

L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Il libro Intelligenza Emotiva, di Daniel Goleman

Il libro di Goleman sull’intelligenza emotiva è una sorta di passeggiata attraverso i temi della psicologia più rilevanti per la vita di tutti i giorni. L’intelligenza emotiva migliora la vita di coppia, l’ambiente di lavoro e l’educazione dei figli. Aiuta la salute del corpo, promuove il rendimento scolastico, previene i problemi con l’alcol il fumo e le droghe.

L’intelligenza emotiva implica anzitutto la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni comprendendone le cause. Sulla base di tale consapevolezza si sviluppa poi la capacità di influenzarne il corso. Le emozioni vissute in prima persona, da dentro, sono conosciute in modo diverso rispetto alle emozioni viste negli altri, dal di fuori. L’intelligenza emotiva è tanto più matura quanto più è in grado di riconciliare il sentimento delle nostre emozioni private con gli stati emotivi osservati nelle altre persone.

Una persona dotata di intelligenza emotiva riesce a intuire la condizione interiore dell’interlocutore, sa come parlargli, è pronta a cooperare e ad ascoltare. È in grado di assumere il punto di vista degli altri ed è predisposta a risolvere i conflitti. L’intelligenza emotiva si associa alla capacità di resistere agli stimoli immediati e al mantenimento di un livello di motivazione costante. L’equilibrio emotivo migliora la fiducia in sé stessi, facilita la gestione dell’ansia e la resistenza allo stress.

LO STUDIO DELLE EMOZIONI

All’inizio del libro Goleman dedica molto spazio alla descrizione del modo in cui la psicologia ha iniziato a interessarsi delle emozioni. La psicologia, infatti, non si è sempre interessata alla sfera emotiva. All’inizio del novecento era predominante la corrente del comportamentismo. Si desiderava impostare la psicologia come uno studio esatto del comportamento osservato dall’esterno, e il contenuto della mente era considerato inaccessibile dalla scienza. Poi, dagli anni settanta, si è affermata la corrente del cognitivismo. Il contenuto della mente veniva studiato come informazione, per mezzo della metafora del computer e del software, ma le emozioni non erano ancora oggetto di attenzione. Quando Goleman scrive, negli anni novanta, è soltanto da pochi anni che l’interesse della psicologia si è concentrato sulle emozioni, sospinto dallo sviluppo delle neuroscienze e dall’avvento delle tecnologie in grado di fornire immagini del cervello vivente.

Da un punto di vista evolutivo, il tronco cerebrale è la parte più antica del cervello, connessa al midollo spinale, e garantisce alcune funzioni fondamentali come il respiro o il metabolismo degli organi. Attorno al tronco cerebrale si sviluppa il sistema limbico, nel quale sono compresi i centri emozionali. Nel corso dell’evoluzione il sistema limbico ha sviluppato delle capacità di apprendimento e memoria, che hanno consentito una maggiore adattabilità del comportamento all’ambiente, sulla base dell’esperienza. Il passo successivo è stato lo sviluppo della corteccia cerebrale, che ha la proprietà di modulare gli impulsi emotivi generati nel sistema limbico, e rende possibile un repertorio più ampio di comportamenti.

Da questa descrizione della struttura del cervello è chiaro che le emozioni non sono un evento secondario rispetto alla vita intellettuale. I centri emotivi erano già vecchi di milioni di anni quando si è sviluppata la corteccia cerebrale, l’organo della razionalità. I circuiti emotivi sono situati nelle radici biologiche più profonde della mente, e l’aspetto esclusivamente razionale non rende conto per intero dei fenomeni che emergono dalla vita della mente. È per questo motivo che uno strumento di indagine come la misurazione del quoziente intellettivo rispecchia soltanto una parte circoscritta delle capacità della mente. Goleman insiste molto su questo punto, ricordandoci che il QI è in grado di spiegare soltanto il 20% dei fattori di successo1, e che l’intelligenza emotiva è un fattore molto importante per la buona riuscita di un progetto di vita.

LA COLLERA

La collera è una delle emozioni fondamentali a cui Goleman dedica più spazio nel corso del libro. La collera è caratterizzata da una concatenazione di pensieri che tendono ad auto-amplificarsi. Ma mano che il monologo interiore rafforza la rabbia, la nostra capacità di giudizio diventa sempre più debole, e la collera diviene più difficile da controllare. La collera ha una natura energizzante, motivo per cui a volte si ritiene benefico darle sfogo, ma questo non rappresenta la soluzione ideale al controllo della rabbia, perché dopo essersi sfogati si può rimanere allo stesso livello di emotività da cui si era partiti, se non più elevato. Per contrastare la rabbia è fondamentale interrompere la catena dei pensieri che la alimenta fin dal suo primo presentarsi, quando lo sviluppo del sentimento è ancora all’inizio. Se questo non funziona, ciò che può aiutare è evitare di alimentare la ruminazione negativa ricorrendo a delle distrazioni. Alcune valide strategie di distrazione possono essere le tecniche di rilassamento, l’attività fisica, leggere qualcosa o guardare la televisione. Quando la collera si sarà calmata sarà allora possibile compiere una riflessione per reinterpretare quanto accaduto, cercando di comprendere il punto di vista della persona che ci ha fatto arrabbiare.

Per un approfondimento su questo tema si possono leggere i nostri articoli:
La Rabbia Repressa
Attacchi di rabbia (e scatti d’ira): come gestirli.
Sfogare la rabbia?
Regolazione emotiva: distrazione e reinterpretazione.

ANSIA E PAURA

Le immagini producono manifestazioni d’ansia più intense rispetto ai pensieri. Per questo le concatenazioni dei pensieri preoccupati possono avere l’effetto di alleviare il sentimento negativo degli stati ansiosi. La riflessione promossa dalla preoccupazione ha la funzione positiva di proporre delle soluzioni per risolvere i problemi da cui scaturisce la paura. Il problema si ha quando la preoccupazione assume forme ripetitive e sterili che non conducono a nessun cambio di situazione. Se il ciclo dei pensieri ansiosi persiste, può dare luogo ad una varietà di patologie quali fobie, ossessioni e attacchi di panico. Le tecniche di rilassamento possono essere d’aiuto per distrarci e spezzare il ciclo dei ragionamenti che producono ansia, così come pure l’uso dei farmaci2. Ciò che però è più importante per affrontare l’ansia in modo sistematico è abituarsi a riconoscere sul nascere i concatenamenti di pensieri ansiosi e ripetitivi, e metterli in discussione cercando visioni alternative.


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TRISTEZZA E DEPRESSIONE

Vi sono delle situazioni in cui l’effetto di una lieve sensazione di tristezza può anche rivelarsi positivo, interrompendo le attività in corso e favorendo un momento di riflessione. Quando però la propensione all’attività diviene patologicamente bassa, allora si parla di depressione. Vengono a mancare il senso del piacere e la speranza, non si riesce più a trovare il valore e il senso di nulla, e si instaura un profondo sconforto unito ad una sensazione di dolore. La depressione è un fenomeno che riguarda più le donne degli uomini. Come nel caso dei disturbi ansiosi, la depressione è caratterizzata dalla frequente esecuzione di pensieri sterili e ripetitivi che non portano a soluzioni concrete. Interrompere le catene di ragionamenti ripetitivi è un passo importante per affrontare la depressione. Questo può essere fatto ricorrendo a distrazioni quali la lettura, piuttosto che il cinema, il sonno, un puzzle o la programmazione di un viaggio immaginario. Le tecniche di rilassamento non sono molto efficaci nel caso della depressione, mentre possono essere utili i confronti verso il basso. Uno dei modi migliori di affrontare la depressione è quello di imparare a riconoscere e perseguire le attività che ci fanno stare meglio. La ricerca dei piaceri sensuali può essere d’aiuto, come pure la pratica dell’esercizio fisico e il raggiungimento di obiettivi che ci siamo prefissati. Molto importante può rivelarsi il prendersi cura di qualcuno, per esempio sotto forma di volontariato. Chi volesse approfondire questi aspetti può leggere il nostro testo “Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione”.

LA RELAZIONE DI COPPIA

La relazione di coppia è una situazione dove si manifestano dinamiche emotive molto importanti, che tendono a modellarsi sulla base delle differenze intrinseche fra uomo e donna. Le donne sono solitamente più empatiche degli uomini, i quali invece faticano a percepire il malessere della propria compagna, e spesso si creano un’immagine più rosea del rapporto rispetto alla situazione reale. Per le donne è molto importante l’intimità che si crea parlando della relazione, mentre gli uomini, “in linea di massima, non capiscono che cosa vadano cercando le loro mogli.” Uno degli atti più negativi che possono avvenire all’interno di una relazione di coppia è l’attacco personale, la critica aspra rivolta alla persona. Al posto di questo meccanismo distruttivo dovrebbero esserci dei rimproveri costruttivi, indirizzati all’azione esatta che ha creato il problema. La formula giusta per esprimere una critica dovrebbe essere del tipo “Quando hai fatto X, mi hai fatto sentire Y; avrei preferito che avessi fatto Z.” Ad esempio: “Quando sei arrivato in ritardo mi hai fatto sentire trascurata, avrei preferito che mi avvisassi in anticipo”.

Quando in una coppia si evidenziano dei problemi, l’approccio più tipico delle donne è quello di cercare un confronto approfondito ed intenso, mentre gli uomini spesso si trovano a disagio in tale situazione, alla quale spesso reagiscono rifugiandosi in comportamenti inespressivi. I problemi nascono quando questi meccanismi diventano sterili e ripetitivi, stratificandosi, e portando i membri della coppia a vivere due vite parallele “sentendosi soli all’interno del matrimonio”.

Gli argomenti tipici su cui la coppia va in disaccordo sono il sesso, l’educazione dei figli e i soldi. Le coppie che funzionano non sono quelle che hanno eliminato il disaccordo, ma quelle che hanno trovato il modo di parlarne, pur mantenendo opinioni differenti.

Vi sono una serie di consigli che si possono dare per migliorare il benessere emotivo della coppia. Gli uomini dovrebbero “guardarsi dal tagliar corto durante la discussione offrendo troppo spesso una soluzione pratica – solitamente, per la moglie, è più importante sentire che il marito ascolta le sue lamentele ed empatizza con i suoi sentimenti (anche se non deve essere necessariamente d’accordo con lei)”. Gli uomini dovrebbero interpretare le critiche come richieste d’attenzione, mentre le donne dovrebbero evitare accuratamente di porre le critiche nella forma di attacchi diretti alla persona.

Nelle discussioni bisognerebbe evitare le divagazioni e affrontare gli argomenti uno alla volta dando al partner la possibilità di esprimersi. Bisognerebbe esercitare empatia, chiedendosi cosa c’è dietro le parole pronunciate. Quando si ha torto si dovrebbe chiedere scusa, ed è utile trovare qualcosa di buono da apprezzare nel partner. Esercitarsi ad assumere il punto di vista dell’altro è una pratica fondamentale, ma non è così scontato riuscirci. Nelle terapie di coppia si suggerisce un metodo chiamato rispecchiamento: “quando un partner dà voce a una protesta, l’altro la ripete con le proprie parole, cercando di cogliere non solo il pensiero che la anima, ma anche i sentimenti che l’accompagnano”.

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L’AMBIENTE DI LAVORO

L’ambiente di lavoro è un’altra situazione tipica dove le dinamiche emozionali sono molto importanti. Quando nell’ambiente di lavoro gli equilibri emotivi sono gestiti in modo inadeguato si verificano dei fenomeni negativi quali una riduzione della produttività, un maggior numero di errori e di scadenze non rispettate, e un elevato numero di persone che scelgono di andarsene in cerca di possibilità migliori.

Un aspetto decisivo della vita emozionale dell’azienda riguarda la comunicazione delle informazioni sgradevoli. Come nel rapporto di coppia, le critiche che assumono il carattere di attacchi personali hanno effetti molto negativi. Le comunicazioni dovrebbero sempre essere specifiche, individuando in modo preciso ciò che va bene e ciò che non va bene. L’esercizio dell’empatia è consigliato per modulare in modo corretto la comunicazione dei problemi. L’indicazione di un problema dovrebbe essere accompagnata da suggerimenti su come è possibile fare meglio le cose. I momenti di comunicazione faccia a faccia e la trasmissione di un feedback frequente sono entrambi fattori che possono migliorare l’ambiente di lavoro.

Le persone che in ambito aziendale riescono meglio sono quelle che si costruiscono una rete di rapporti informali cui appoggiarsi. Queste reti informali possono essere suddivise in tre tipi: le persone con cui si parla, le persone competenti a cui si può chiedere un parere da esperti, e le persone di cui ci si fida. Chi sa costruirsi reti di questo tipo sarà molto più rapido nel raccogliere l’informazione necessaria per far fronte alle situazioni impreviste.

Una parte importante della vita aziendale si svolge in situazioni di gruppo. Ogni gruppo è dotato, per cosí dire, di un suo quoziente di intelligenza, il quale però non è determinato dalla media delle intelligenze di chi vi partecipa. L’intelligenza del gruppo dipende dall’armonia emotiva al suo interno, là dove la presenza di attriti impedisce al gruppo di mettere a frutto le capacità dei membri più capaci. Un buon livello di intelligenza emotiva dovrebbe evitare sia che alcune persone intervengano troppo ed assumano il controllo del gruppo, sia, all’opposto, che alcune persone non intervengano per nulla.

LE EMOZIONI E LA SALUTE

Goleman osserva che abbiamo a disposizione una quantità crescente di evidenze che mostrano come lo stato emotivo influisca in modo concreto sullo sviluppo di molte patologie fisiche. La collera, in particolare, ha un effetto negativo sulle cardiopatie. L’ansia e lo stress invece tendono a compromettere la funzionalità del sistema immunitario. Lo stress rappresenta la reazione alla percezione di un pericolo e rende l’organismo più pronto alla reazione di attacco e fuga (ad esempio alzando la pressione sanguigna). Questo è un vantaggio nel breve lasso di tempo in cui ci si trova di fronte ad un pericolo immediato, ma diventa controproducente quando porta ad uno stato di tensione permanente. L’effetto negativo della depressione sullo stato di salute fisico si manifesta soprattutto quando la depressione è presente insieme ad altre patologie fisiche. In tal caso la depressione è spesso associata a percentuali inferiori di decorso positivo. Un altro fattore molto importante che influenza in modo negativo il corso di una malattia è lo stato di isolamento. Non si tratta tanto di uno stato di solitudine fisica, quanto della mancanza percepita di legami sociali intimi (un approfondimento del legame fra solitudine e depressione si può leggere nel già citato libro sulla depressione).

Goleman suggerisce alcuni provvedimenti che si potrebbero prendere per migliorare l’approccio del sistema sanitario allo stato emotivo dei pazienti. Anzitutto si potrebbero inserire nel percorso di formazione dei medici alcuni momenti dedicati allo sviluppo delle capacità di ascolto ed empatia. L’insegnamento di tecniche di rilassamento ai pazienti può essere utile, soprattutto contro l’ansia e lo stress. I pazienti dovrebbero essere aiutati a porre le domande più efficaci ai dottori, i quali dovrebbero impegnarsi a rispondere in modo esauriente. I dottori dovrebbero anche descrivere con cura il corso della malattia e le condizioni tipiche del periodo di convalescenza. Un altro provvedimento interessante potrebbe essere l’organizzazione degli ospedali in modo da favorire la presenza dei familiari vicino ai pazienti.

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L’EDUCAZIONE

Il cervello umano si mantiene plastico per tutta la durata della nostra vita, ma la plasticità delle strutture cerebrali è particolarmente evidente nelle prime fasi di vita. “Mentre le aree sensoriali maturano nella prima infanzia, e il sistema limbico entro la pubertà, i lobi frontali – sede dell’autocontrollo emotivo, della comprensione e della reazione corticale perfezionata – continuano a svilupparsi fino alla fine dell’adolescenza”3. Nel corso del processo di maturazione le reti nervose del cervello sono più esposte alle influenze dell’esperienza. Ne risulta evidente l’importanza dell’educazione che i genitori impartiscono ai figli.

Goleman si sofferma a descrivere il caso dei bambini oggetto di trascuratezza e di maltrattamenti. Quando i genitori puniscono i bambini in modo arbitrario, questi tendono a sviluppare sentimenti di inutilità ed impotenza. I bambini percossi sono solitamente più problematici e divengono facilmente indifferenti al dolore degli altri. Uno dei problemi principali è la precocità con cui i bambini ripropongono il modello di violenza proposto dai genitori.

Al di là di questi casi più tristi, Goleman considera anche alcuni approcci alle emozioni che si verificano in situazioni più normali, ma che sarebbe meglio evitare. Il primo di questi approcci è quello dei genitori che considerano i problemi emotivi dei bambini come una cosa di secondaria importanza, aspettando che passi. Un secondo approccio è quello di considerare valida qualsiasi strategia per calmare le tempeste emotive, incluso lo scontro fisico piuttosto che mercanteggiare ricorrendo alle lusinghe. Il terzo approccio negativo individuato da Goleman è quello di reprimere con durezza le manifestazioni emotive dei bambini.

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L’approccio migliore sembra essere quello di dare importanza ai turbamenti emotivi del bambino, cercando di comprenderne l’origine, discutendone col bambino, cercando di suggerire delle soluzioni praticabili per calmarsi: “Invece di prenderlo a pugni, perché non trovi qualcosa con cui divertirti da solo finché non ti torna la voglia di giocare ancora con lui?”.

Un caso che richiede delle attenzioni particolari è quello dei bambini timidi. Un bambino su cinque è caratterizzato da una elevata timidezza che sembra avere origini biologiche ed i cui segni si manifestano fin dal primo anno di vita. Sono bambini tendenzialmente silenziosi, dall’atteggiamento reticente, hanno una paura pronunciata dei luoghi sconosciuti e degli estranei, sono predisposti ai sensi di colpa e ai rimorsi, e diventano facilmente ansiosi nelle situazioni sociali. Gli atteggiamenti che in questi casi sarebbe meglio evitare sono l’eccesso di protezione e l’indulgenza nello stabilire i limiti di fronte a potenziali fonti di pericolo. Ciò che funziona invece sono la fermezza nello stabilire i limiti e “una delicata pressione spingendoli a essere più estroversi”.

L’ambiente scolastico è per sua natura una situazione dove si possono intraprendere molte iniziative volte all’alfabetizzazione emotiva. Con i bambini più piccoli il focus cade sulle capacità di riconoscere le emozioni, dando loro un nome e ricollegandole alle proprie esperienze vissute. Si può lanciare il “cubo delle emozioni” e, se esce la tristezza, invitare i bambini a raccontare l’ultima situazione in cui si sono sentiti tristi. Quando si fa l’appello si può chiedere agli allievi di rispondere con un numero da uno a dieci che indica il livello dell’umore, e usare questa indicazione come punto di partenza per possibili approfondimenti. Una strategia generale da seguire è quella di soffermarsi sugli episodi emotivi che avvengono in classe e farne oggetto di discussione comune.

Vi sono alcune strategie semplici ma efficaci che si possono insegnare ai bambini per migliorare il controllo degli impulsi, e che possono essere impiegate per evitare di aggredire, di chiudersi nel broncio o di scoppiare in lacrime. Prima di tutto bisogna calmarsi e descrivere in parole la situazione che ha creato il problema, per poi valutare le alternative e pensare alle conseguenze. Con il progredire dello sviluppo intellettuale dei ragazzi, diventa sempre più importante promuovere la capacità di assumere la prospettiva degli altri.

Per chi fatica ad integrarsi nel gruppo può essere utile una forma di addestramento all’amicizia: “…vennero incoraggiati a pensare a soluzioni e a compromessi alternativi (invece di accapigliarsi), nel caso in cui sorgessero tra loro contrasti sulle regole del gioco; a ricordarsi di parlare con il compagno di giochi e di fargli domande; ad ascoltarlo e a osservarlo per vedere come agisce; a dire qualcosa di gentile quando l’altro bambino fa bene qualcosa; a sorridere e a offrire aiuto, suggerimenti o incoraggiamento.”4

Col passare degli anni i temi affrontati in classe si evolvono in base alle fasi di transizione verso l’età adulta, e l’oggetto della discussione si sposta dalle esclusioni dal gruppo e dalle prese in giro alle difficoltà dei primi appuntamenti, alla gelosia, all’incontro con il sesso, il fumo, l’alcol, le droghe.


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COMMENTO

Se volessi essere un poco critico, potrei dire che nel libro di Goleman la sensibilità poetica non è di casa, e ci si trova spesso immersi in un mare di parole che avrebbero bisogno di essere sintetizzate. D’altra parte, se tralasciamo il gusto letterario, bisogna dire che Goleman scrive chiaro, ha una visione ampia dei temi di cui parla, e dice tante cose che riguardano aspetti importanti della vita quotidiana. Rimane dunque un libro da consigliare, e magari anche da regalare.

Detto questo, da quando Goleman ha scritto, nel 1995, di acqua sotto i ponti ne è passata, e le neuroscienze hanno fatto passi avanti. Chi scrive ha per punto di riferimento la visione di Jaak Panksepp, il fondatore delle neuroscienze affettive. Il punto di vista di Panksepp si può trovare sintetizzato nel nostro libro divulgativo “Le emozioni di base secondo Panksepp”.

Ci sono alcune differenze importanti fra la visione di Goleman e quella di Panksepp. In Goleman, ad esempio, passa l’idea che le emozioni siano degli istinti provenienti da un mondo preistorico in cui la vita era più difficile e violenta. Le emozioni sarebbero un residuo obsoleto che bisogna in qualche modo accomodare, se vogliamo vivere una vita di successo nel mondo civilizzato e tecnologico in cui ci troviamo.5 Questa visione è accompagnata da uno spazio argomentativo polarizzato sull’evitamento delle tre grandi emozioni a valenza negativa (rabbia, tristezza, paura) e da una riflessione meno incisiva sulle possibilità di vivere attivamente le affettività positive quali amore, felicità, sorpresa.

Nella visione di Panksepp, invece, le emozioni appaiono come una sorgente primordiale di vita a cui dobbiamo imparare ad attingere. La società non è resa possibile dalla ragione che addomestica degli istinti emotivi pericolosi ed irrazionali. La società è ricondotta invece precisamente all’azione delle emozioni, che ci spingono a cercare gli altri uomini e a costruire legami durevoli. Il ruolo della ragione non è anzitutto quello di dettare le regole che rendono possibile la società, il ruolo della ragione è quello di riconoscere e modulare queste fondamentali sorgenti di vita che sono le emozioni.

Le emozioni fondamentali secondo Goleman e secondo Panksepp

P.S. Per chi volesse leggere il libro originale di Goleman, si tenga presente che Goleman insiste davvero tanto sul ruolo centrale dell’amigdala come sorgente centrale delle emozioni, ma questa è una posizione che oggi non è più sostenibile. Panksepp al riguardo è molto esplicito.6

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1Il restante 80% include fattori di svariata natura, che possono andare dalla famiglia di origine alla fortuna, e includono anche l’intelligenza emotiva.

2Chi scrive preferisce le soluzioni che non ricorrono agli psicofarmaci

3Pagina 366

4Pagina 407, in riferimento ad un corso ideato da Steven Asher (“Helping Children Without Friends in Home and School Contexts”).

5Questo modo di vedere il ruolo delle emozioni è riflesso in modo evidente nel concetto di “sequestro emozionale”, che Goleman impiega molte volte nel suo libro. Questa impostazione alimenta l’idea che le emozioni siano un qualcosa di pericoloso da tenere a bada, e implicitamente le relega ad un ruolo secondario rispetto alla funzione di regia esercitata dalla ragione. In questo modo si ripresenta un dualismo netto fra ragione ed emozioni che lo stesso Goleman in alcuni passaggi denuncia.

6Si consideri il parere di Jaak Panksepp a riguardo del lavoro di Joseph Ledoux, che è uno dei riferimenti principali di Goleman: “Ma ha anche, purtroppo, condotto all’idea sbagliata che l’amigdala sia letteralmente il quartier generale – La Grande Stazione Centrale – per la produzione delle emozioni in generale. Non lo è.”

Jaak Panksepp e Lucy Biven. “The Archaeology of Mind. Neuroevolutionary origins of Human Emotions” (New York e Londra: 2012, Norton & Company) pagina 228.

Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

Le emozioni nascono da come percepiamo le situazioni in cui ci troviamo. Da ciò seguono due possibilità fondamentali di regolare l’emotività: possiamo intervenire sulla situazione materiale, oppure sul nostro modo di interpretarla.

Per intervenire sulla situazione possiamo decidere quali sono i luoghi ed i contesti sociali che vogliamo frequentare, oppure possiamo agire fisicamente per cambiare la situazione corrente. Per intervenire sull’interpretazione possiamo distogliere l’attenzione da ciò che ci dà più fastidio, oppure fare uno sforzo di re-interpretazione, ad esempio cercando di capire le ragioni di chi ci ha fatto arrabbiare. Un’altra possibilità è quella di modificare il comportamento che segue alla percezione di una certa emozione, per esempio dissimulando la rabbia anziché manifestarla.

Nel suo articolo sulla regolazione delle emozioni,1 James Gross si dilunga molto sulle possibilità di modellizzare questi aspetti. Da un punto di vista concreto mi pare che vi siano almeno un paio di indicazioni interessanti da riportare. La prima è che la soppressione delle emozioni negative (rabbia, ansia, paura) non è generalmente una strategia valida. La seconda è che la reinterpretazione della situazione non funziona bene quando l’emozione che si vorrebbe ridurre è intensa, là dove invece ciò che funziona bene è la distrazione. Il suggerimento di Gross è dunque quello di approcciare le situazioni che generano emozioni negative intense con una fase di distrazione seguita da una successiva reinterpretazione.

A questa indicazione di Gross vorrei aggiungere alcune osservazioni. Per distrarsi dal pensiero di un evento che ci ha fatto arrabbiare, la strategia più valida non è il rifiuto esplicito di pensarlo, quanto piuttosto lo spostamento dell’attenzione su un’alternativa nella quale coinvolgersi.2 Dovendo dunque scegliere un’alternativa, mi sembra logico scegliere di focalizzarsi su una forma di esperienza che abbia radici profonde e robuste nella nostra organizzazione psichica. Ad esempio, possiamo concentrarci su un’emozione fondamentale alternativa alla rabbia, quale è il prendersi cura di qualcuno (il prendersi cura è un’emozione fondamentale secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp).

Quando poi viene il momento di reinterpretare un evento che ci ha fatto arrabbiare, una strategia premiante è, come già accennato, cercare di capire le ragioni di chi ci ha fatto arrabbiare. Questa strategia però non è sempre semplice da attuare. Può allora essere d’aiuto se per un momento accettiamo di vestire i panni di Socrate e ci rendiamo conto di non sapere. Se noi pensiamo di aver capito già tutto di quella persona che ci ha fatto arrabbiare, allora non ci sarà spazio per la reinterpretazione. Dobbiamo prima riconoscere di non sapere i motivi esatti che la spingono ad agire. Solo così potremo attivare la curiosità (la curiosità è legata all’emozione della ricerca/voglia di fare, che rappresenta un’altra emozione fondamentale nell’ambito delle già citate neuroscienze affettive) ed assumere uno sguardo alternativo a quello della rabbia.

Riassumendo: quando ci prendiamo cura di una persona a noi cara ne riceviamo una gratificazione ed un significato profondo, il quale funziona bene come punto di ripartenza per staccarsi dal vissuto negativo che vogliamo lasciarci alle spalle. Quando poi torniamo a riflettere su tale vissuto, può essere utile richiamarsi alla formula socratica del sapere di non sapere. Questa favorisce la curiosità e una reinterpretazione efficace della situazione, non eccessivamente centrata su sé stessi.

POST SCRIPTUM: IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE RELAZIONALE

Credo opportuno soffermarsi anche su di un altro aspetto. Abbiamo già accennato al fatto che quando si cercano alternative robuste alla ruminazione sulle emozioni negative sarebbe meglio sintonizzarsi su dimensioni del vivere profondamente radicate nella nostra interiorità. Per questo ha senso praticare il prendersi cura di qualcuno, in quanto si tratta di un’emozione fondamentale (al pari di quelle negative che si vogliono contrastare), anziché imbarcarsi in una lunga razionalizzazione che rischia di alimentare la ruminazione negativa.

A questo va aggiunto che tipicamente le emozioni emergono da una situazione sociale, e che l’essere in situazione sociale è un tratto profondo della nostra esperienza di vita, ad esempio più dei concetti astratti e della razionalità, i quali arrivano nella nostra vita molto tempo dopo la predisposizione a cogliere la presenza degli altri individui. Non solo, la predisposizione alla relazione è anche indipendente dal sistema degli oggetti materiali, ai quali a volte diamo troppa importanza (creando i presupposti di conflitti che generano emozioni negative).

Quanto appena detto può essere scontato per qualcuno, ma non per tutti. A tal riguardo vale la pena ricordare che il bambino piccolo può sviluppare una comprensione adeguata degli oggetti materiali solo dopo che ha imparato ad afferrarli e ad osservare le conseguenze delle sue manipolazioni.3 Per quanto riguarda invece la predisposizione a polarizzare l’esperienza attorno agli altri individui, è dimostrato che il neonato sviluppa un’attenzione preferenziale alla forma del volto ancora prima della nascita.4 L’importanza della relazione con le altre persone non è costruita sul mondo materiale, bensì una radice indipendente del vivere.5 6 Credo che questo sia un aspetto importante da comprendere per chi vuol venire a capo della propria emotività senza lasciare fuori qualche pezzo troppo importante.

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1James J. Gross (2015) Emotion Regulation: Current Status and Future Prospects, Psychological Inquiry, 26:1, 1-26, DOI: 10.1080/1047840X.2014.940781

2Mann, T., de Ridder, D., & Fujita, K. (2013). Self-regulation of health behavior: Social psychological approaches to goal setting and goal striving. Health Psychology, 32(5), 487-498. http://dx.doi.org/10.1037/a0028533

In questo articolo gli autori notano che “Specificare cosa non fare sembra avere un effetto contrario, perché dà risalto alla tentazione, rendendola più desiderabile e più difficile da controllare” e “Poiché gli obiettivi di raggiungimento tendono ad essere più efficaci degli obiettivi di evitamento, una strategia di intervento potrebbe essere di riformulare gli obiettivi di evitamento in obiettivi di raggiungimento”

Il contesto non è quello della regolazione delle emozioni negative, ma si tratta comunque di evitare il coinvolgimento in una concatenazione di pensieri che tendono ad instaurarsi ma che preferiremmo evitare.

3Larry Fenson & Robert E. Schell (1985) The origins of exploratory play, Early Child Development and Care, 19:1-2, 3-24, DOI: 10.1080/0300443850190102

4Vincent M. Reid, Kirsty Dunn, Robert J. Young, Johnson Amu, Tim Donovan, Nadja Reissland, The Human Fetus Preferentially Engages with Face-like Visual Stimuli, Current Biology, Volume 27, Issue 12, 2017, Pages 1825-1828.e3, https://doi.org/10.1016/j.cub.2017.05.044.

5Confronta: “Dunque, la teoria dell’attaccamento riflette uno stacco dalla teoria della dipendenza e degli istinti collegata ai bisogni fisiologici, in direzione di una teoria di risposte istintuali primarie che funzionano per promuovere l’interazione sociale, comparativamente indipendente dai bisogni fisiologici”

Victoria A. Fitton (2012) Attachment Theory: History, Research, and Practice, Psychoanalytic Social Work, 19:1-2, 121-143, DOI: 10.1080/15228878.2012.666491. Pagina 122.

6Per una visione filosofica centrata su questo primato della dimensione sociale si può fare riferimento all’idea del volto così come è espresso nella filosofia di Emmanuel Lévinas, ad esempio nel libro Totalità ed Infinito.

L’intelligenza emotiva, un fattore eterogeneo

Il concetto di intelligenza emotiva é diventato famoso col libro omonimo di Daniel Goleman, scritto nel 1995. Sul nostro sito é disponibile un articolo in cui proponiamo un riassunto sintetico dei concetti principali esposti nel libro di Goleman. In questo post invece,  cercheremo di capire il fondamento scientifico del concetto di intelligenza emotiva, appoggiandoci in particolare ad un lavoro di Adrian Furnham.2

UN CAMPO DI APPLICAZIONE DELL’INTELLIGENZA GENERALE

Per mettere a fuoco il nodo concettuale dell’intelligenza emotiva può essere utile costruirci un esempio. Se fin da piccoli siete sempre stati appassionati di automobili e avete colto tutte le occasioni per impararne qualcosa, probabilmente ora le conoscerete molto bene, e potremo dire che avete una grande intelligenza automobilistica. Non per questo però sarà lecito ritenere che l’intelligenza automobilistica sia una struttura profonda del pensiero, con una natura ben distinta da quella dell’intelligenza generale. Al contrario, sembrerà più opportuno concepire lo sviluppo della vostra intelligenza automobilistica come una conseguenza del vostro livello di intelligenza generale e della continua frequentazione del mondo delle automobili. Le cose stanno in modo simile per quanto riguarda il caso dell’intelligenza emotiva, che non sembra essere tanto un tipo specifico di intelligenza, quanto il risultato di un’intelligenza generale applicata al mondo delle dinamiche emotive.

Il concetto di intelligenza generale si sviluppa nella moderna psicologia a partire dall’osservazione di Charles Spearman per cui i risultati scolastici nelle differenti materie sono collegati fra di loro, nel senso che di solito gli studenti ottengono risultati di un livello simile in tutte le materie, piuttosto che risultati di livello molto differente da una materia all’altra. Da ciò nasce l’ipotesi che vi sia un fattore generale di intelligenza al quale sono collegate tutte le prestazioni cognitive nei diversi campi del sapere.

Ciò di cui stiamo parlando è il quoziente di intelligenza che si misura normalmente nei test psicometrici. La rilevazione statistica di questa intelligenza generale non implica che se ne conosca la natura biologica, non ci dice se essa dipenda per esempio dal numero di neuroni, da quanto gli assoni dei neuroni sono intrecciati o da quanto frequentemente si attivino.3 Ciò che viene misurato è un’abilità largamente a valle delle strutture biologiche fondamentali da cui si origina, e che nondimeno presenta un significativo carattere di generalità.

MISURARE L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Fra i campi di applicazione degli studi sull’intelligenza emotiva vi sono il mondo del lavoro, dell’educazione, della salute. L’obiettivo di molti studi è quello di stabilire una correlazione fra le misure di intelligenza emotiva ed i risultati raggiunti da lavoratori, dirigenti, studenti, insegnanti, medici, etc. Nel prendere in considerazione il modo in cui viene definita e misurata l’intelligenza emotiva notiamo che vi sono tanti autori che se ne occupano, molti dei quali propongono una descrizione differente. Il tratto comune alle varie definizioni è l’abilità di riconoscere e regolare le emozioni sia in sé stessi che nell’ambito delle relazioni interpersonali.

Al di lá del modo in cui si definisce l’intelligenza emotiva, le misurazioni che se ne possono fare sono di due tipi fondamentali, il primo dei quali consiste nell’utilizzo di report composti di domande che chiedono al soggetto di autovalutarsi. Il vantaggio di tali questionari è la possibilità di interrogare direttamente gli aspetti qualitativi del vissuto personale. Lo svantaggio è che i soggetti possono alterare deliberatamente o inconsciamente le risposte, ad esempio per dare una migliore immagine di sé.x

L’altro metodo per misurare l’intelligenza emotiva consiste nel sottoporre i soggetti a dei test di abilità che non implicano i problemi collegati all’autovalutazione. Ad esempio, si mostra ai soggetti un’espressione facciale e gli si chiede di indicare a che emozione corrisponde. Si può chiedere anche di connettere le emozioni più adeguate a certi dipinti, fotografie, registrazioni vocali o descrizioni di situazione. Un’altra possibilità è verificare la capacità di individuare come si trasforma un’emozione a seguito di un’intensificazione.4

Furnham ha sviluppato insieme a K.V. Petrides un questionario per la misurazione dell’intelligenza emotiva che prende il nome di TEIQue.5 Nel 2016 Annamaria di Fabio ha pubblicato un articolo che si occupava di esaminare la validità della versione italiana di tale questionario su di un campione di 1154 giovani adulti italiani.6 Nel corso di questa ricerca è emersa una buona corrispondenza fra il questionario TEIQue ed un altro questionario molto popolare, quello sviluppato da Reuven Bar-on. Risulta invece bassa la correlazione fra il questionario TEIQue ed il test di abilità di Mayer, Caruso e Salovey (uno dei più importanti), ad indicare che le due procedure misurano qualcosa di diverso. La correlazione del TEIQue con il modello dei cinque fattori è moderatamente positiva: l’intelligenza emotiva da esso misurata “si sovrappone ad alcuni aspetti della personalità, ma è configurata come un costrutto distinto.”

ALCUNE CONCLUSIONI

Nel 1983 Gardner propose l’ipotesi che vi fossero 7 tipi fondamentali di intelligenza distinti uno dall’altro.7 Tale ipotesi si poneva come alternativa al fatto che vi fosse un unico fattore generale di intelligenza, ma in seguito vi sono stati alcuni studi che hanno riaffermato la validitá interpretativa del fattore unico. Il caso dell’intelligenza emotiva è simile a quello delle intelligenze multiple individuate anzitutto da Gardner e successivamente da altri. L’intelligenza emotiva sembra interpretabile meglio come un’applicazione dell’intelligenza generale al campo socio-emotivo, e non come un tipo di intelligenza a sé stante.

Per quanto riguarda la possibilità di stabilire una misurazione sicura e utile dell’intelligenza emotiva, al di là dei problemi specifici dell’autovalutazione, sembra più opportuno attendere che venga accumulata una maggiore mole di dati su cui vengano poi effettuate della meta-analisi di spessore adeguato.

L’intelligenza emotiva si presenta come un fattore parzialmente sovrapposto a ciò che già in precedenza veniva chiamato intelligenza sociale e a ciò che Gardner, ad esempio, indicava come intelligenza interpersonale e intrapersonale. Ciò non toglie che il gruppo di abilità collegate all’intelligenza emotiva abbia una notevole importanza pratica, ed il rinnovato focus di interesse sulle emozioni è da vedere con occhio positivo, anche se al momento gli studi scientifici di questo settore sembrano trascurare la natura delle emozioni fondamentali.

Facendo una ricerca su Google Scholar con la parola chiave “intelligenza emotiva”, ho scaricato una ventina di articoli accademici di cui ho controllato l’abstract e alcune bibliografie. In ció che ho letto non ho trovato riferimento alle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp, che sono un ottimo punto di riferimento per chi vuole comprendere quali siano i sistemi emotivi fondamentali. Sembra che l’attenzione dei lavori sull’intelligenza emotiva si concentri sul problema della misurazione, ma non su quali siano le emozioni di base che andrebbero riconosciute e regolate dai soggetti coinvolti nei test. Si dà per scontato il riferimento alle emozioni tipiche degli studi sulle espressioni facciali, che peró sono differenti da quelle individuate dagli studi di Jaak Panksepp. Per approfondire questo tema si possono leggere questi due articoli: Le emozioni di base secondo Panksepp, oppure Paul Ekman e le emozioni di base.

1 Consiglio ad esempio quella che si trova sul sito tramedoro.eu

2 Adrian Furnham, Emotional Intelligence, (2012 INTECH Open Access Publisher). Ho scelto questo testo per via dell’autorevolezza dell’autore, perché ha contribuito a sviluppare uno dei test di riferimento per l’intelligenza emotiva, e perché tale testo è impostato come una meta-analisi che compara l’esito di approcci differenti al tema dell’intelligenza emotiva.

3 Si tratta di esempi di fantasia, non significativi.

3 Tale problema di misurazione viene meno là dove l’impiego di tali questionari si dimostra in grado di prevedere una variabile concreta quale il rendimento scolastico o la carriera in ambito professionale. Questa capacità previsionale è ciò che hanno di mira i ricercatori e si pone, per così dire, a valle di tutto. Se c’è quella, qualsiasi cosa possa essere accaduta nella mente di chi ha compilato i questionari non è più un’obiezione valida. Se infatti l’obiezione fosse stata valida, sarebbe stato impossibile riscontrare la capacità previsionale. Se c’è vento e devo tirare la freccia, si può giustamente dubitare della mia capacità di colpire il bersaglio. Ma la successiva osservazione di quante volte colpisco il bersaglio non vale di meno a causa di quei dubbi.

4 John D. Mayer, Peter Salovey and David R. Caruso, “Emotional Intelligence. New Ability or Eclectic Traits?,” American Psychologist Vol. 63, No. 6, (2008 September), 503–517. doi: 10.1037/0003-066X.63.6.503

5 Trait Emotional Intelligence Questionnaire. I quindici aspetti su cui si basa sono: adattabilità, assertività, espressione delle emozioni, gestione delle emozioni, percezione delle emozioni, regolazione delle emozioni, impulsività, abilità relazionale, autostima, automotivazione, competenza sociale, gestione dello stress, empatia, felicità, ottimismo.

6 Annamaria Di Fabio, Donald H. Saklofske and Paul F. Tremblay, “Psychometric properties of the Italian trait emotional intelligence questionnaire (I-TEIQue),” Personality and Individual Differences 96, (2016), 198–201. doi: http://dx.doi.org/10.1016/j.paid.2016.03.009.

7 Linguistico-verbale, logico-matematica, musicale, corporea, spaziale, interpersonale, intrapersonale.

Lo studio della personalità con i Big Five e le emozioni.

Quello che segue é un estratto dal libro Le emozioni di base secondo Panksepp, che ho pubblicato di recente.

“Lo studio dei sistemi emotivi condotto da Panksepp si pone in una prospettiva di continuità anche con la concezione dei cinque fattori, che costituisce un punto di riferimento tradizionale nell’ambito dello studio della personalità. Il modello dei cinque fattori trae origine dallo studio statistico degli aggettivi impiegati per descrivere la personalità, ed ha dimostrato di essere valido in contesti culturali differenti. I cinque fattori sono la stabilità emotiva, l’estroversione, l’apertura mentale, l’amicalità, la coscienziosità. Panksepp ha mostrato che si possono dare delle interpretazioni di questi tratti di personalità per mezzo dei sette sistemi emotivi da lui individuati: “la ricerca/voglia di fare è robustamente collegata all’apertura mentale, ed un forte sistema emotivo del gioco si accorda con un’elevata estroversione. Una cura elevata ed una rabbia limitata sono associate con un alto livello di amicalità. Alti punteggi per le emozioni negative nel loro complesso potrebbero essere all’origine dell’instabilità emotiva (con forti contributi provenienti dalla pena della solitudine e dalla paura).”1 Il modello dei cinque fattori riceve così un’interpretazione più profonda, e le sette emozioni di Panksepp dimostrano il loro potere esplicativo nell’ambito di un campo di studi consolidato (per chi volesse, il test di personalità basato sulle sette emozioni di Panksepp è facilmente recuperabile online2).”

1Christian Montag, Jaak Panksepp, “Primary emotional systems and personality: an evolutionary perspective,” Frontiers in Psychology 8:464 (2017), 9-10, doi:10.3389/fpsyg.2017.00464

2Il questionario, in inglese, si trova all’interno di questo articolo: Kenneth L. Davis, Jaak Panksepp, “The brain’s emotional foundations of human personality and the Affective Neuroscience Personality Scales,” Neuroscience and Biobehavioral Reviews 35 (2011), 1946–1958, doi: 10.1016/j.neubiorev.2011.04.004

L’articolo può essere scaricato liberamente dal sito researchgate.net.

Concepire le emozioni a partire da Tonino Griffero

Come le emozioni sono diventate interiori, passando da Achille ad Ulisse

Tonino Griffero è un filosofo italiano che si occupa di atmosfere a partire dal lavoro del tedesco Hermann Schmitz. Per indicare la natura specifica delle atmosfere Griffero impiega il termine quasi-cose, che ne sottolinea la diversità rispetto alle cose materiali. Griffero considera le emozioni1 come simili a delle atmosfere e le colloca nell’esteriorità anziché nell’interiorità, in un modo che come egli stesso riconosce è controintuitivo. Su youtube si trovano alcune sue conferenze molto interessanti su questo tema, una delle quali è indicata sul fondo di questo articolo.2 3

Io credo che valga la pena aggiungere alcune osservazioni a partire dalla sua posizione. Noi infatti poniamo naturalmente gli oggetti materiali là fuori, anche dopo aver capito che essi sono un prodotto del sistema di percezione che sta dentro di noi. E allora, perché consideriamo gli oggetti materiali come esteriori e le emozioni come interiori?

Griffero ci ricorda che per i personaggi dell’Iliade le emozioni stavano fuori. Per esempio Achille non “si arrabbiava”, Achille era “preso dalla rabbia”, che si trovava fuori di lui. Invece Ulisse nell’Odissea, posteriore all’Iliade, gestiva in modo furbo la propria emotività e quella degli altri, considerandola interiore. Mi pare che proprio nel confronto tra Achille ed Ulisse si possa trovare il punto chiave, al di là della realtà storica, utilizzandoli come figure esemplificative ai fini dell’argomentazione. Se considerassimo le emozioni poste fuori alla maniera di Achille, potremmo essere forse più autentici nei confronti del mondo, ma anche più vulnerabili di fronte ad un furbo Ulisse. Chi sa nascondere le proprie emozioni ha un vantaggio manipolativo e organizzativo sugli altri. Chi sa fare a meno delle emozioni ne ricava dei vantaggi, ma ci perde qualcosa, ci perde vividezza del mondo. Che fare dunque? Ci piace l’intensità del mood che era di Achille, ma non vogliamo immergerci in una ingenuità che ci renda disponibili facilmente ai raggiri.

Quello che è successo da Achille ad Ulisse è un’evoluzione. Il vantaggio selezionistico dell’accantonare le emozioni è stato premiato, ma si è portato dietro l’effetto collaterale di un mondo più grigio, più povero d’emozione. Ciò pare avvenuto per mezzo dell’idea che le emozioni siano un che di interiore. Infatti, se pensiamo che le emozioni stiano dentro di noi, con ciò si fa evidente la possibilità di nasconderle. Localizzandole all’interno inoltre, depriva le emozioni della solida natura di cose e ci aiuta a dismetterle nelle loro forme più intense.

Ma non è detto che il vantaggio competitivo del pensare tenendo a bada le emozioni sia necessariamente connesso all’idea che esse siano interiori. Pensando che siano interiori, noi abbiamo una chiave intuitiva per eseguire i comportamenti esteriori, visibili agli interlocutori, come disgiunti dalle emozioni. Ma questo è solo uno stratagemma. Pensare le emozioni come interiori ci aiuta ad assumere comportamenti indipendenti dalle emozioni, ma lo stesso risultato può essere concepito senza localizzare le emozioni all’interno.

Tornando alla nostra situazione quotidiana, noi non possiamo fare a meno di inibire il massimo dell’emotività nel relazionarci con gli altri, ma dovremmo cercare di farlo senza castrarle, senza chiuderle nello spazio di una testa. Dovremmo renderci conto che la collocazione dentro/fuori è una costruzione mentale, ed allenarci ad attribuire liberamente il fuori ed il dentro parimenti alle cose ed a quelle quasi-cose che sono le emozioni. Al di là della circostanza specifica della furbizia di Ulisse, è impossibile concepire una vita contemporanea senza saper assumere una posa razionale che si tenga indipendente dai moti emotivi. Una più profonda consapevolezza del fuori e del dentro può far parte di una cultura che ci consenta di articolare il nostro vissuto tra situazioni di riflessività composta e situazioni di emozioni che pervadono tutta l’atmosfera.

Per approfondire il tema delle emozioni puoi leggere l’anteprima del libro che ho scritto sulle sette emozioni fondamentali individuate da Jaak Panksepp.

1Nota che in questo articolo il termine “emozioni” è utilizzato riferendosi a tutti i possibili sviluppi cognitivi della dimensione emotiva, e non specificamente alle sette emozioni di base di cui ho scritto nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp.”

2Tonino Griffero, Quasi-cose. Dalla situazione affettiva alle atmosfere. trópoς, I, numero speciale, 2008, pp. 75-92

3Tonino Griffero, Incontro con Tonino Griffero, youtube 02 Aprile 2016, Società Filosofica Feronia, https://www.youtube.com/watch?v=4hRb7dARc6c&t

Le emozioni di base secondo Panksepp

Le emozioni di base secondo Panksepp“Le sette emozioni di Panksepp non sono un punto di arrivo, ma il punto di partenza per un lavoro su se stessi. È come aver trovato i capi liberi che fuoriescono da un gomitolo aggrovigliato.”

Dalle neuroscienze affettive emerge un nuovo paradigma psicologico destinato a cambiare la concezione che abbiamo di noi stessi. Sette emozioni fondamentali sono state individuate nel sistema nervoso: paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, pena della solitudine, gioco e ricerca/voglia di fare. Queste emozioni sono la radice della coscienza ed il presupposto della nostra socialità. Offrono una nuova chiave di comprensione a fenomeni quali la depressione e la mania, la dipendenza da droghe, l’identità sessuale, il legame sociale.
La teoria dei sistemi emotivi trova una sistemazione organica grazie al lavoro di Jaak Panksepp (1943-2017), psicologo fisiologico emigrato dall’Estonia agli Stati Uniti. Il libro descrive in linguaggio divulgativo questa nuova visione della mente e i tratti fondamentali di ciascuna emozione di base. Segue una riflessione che ne mette in luce la rilevanza al fine della crescita personale e della ricerca di una sintesi sociale nuova.

SOMMARIO
INTRODUZIONE: IL MIO INCONTRO CON PANKSEPP
IL CERVELLO VISTO DA PANKSEPP
LE SETTE EMOZIONI
– LA RICERCA, O LA VOGLIA DI FARE
– LA PAURA
– LA RABBIA
– L’ECCITAZIONE SESSUALE
– L’IDENTITÀ SESSUALE
– LA CURA
– LA PENA DELLA SOLITUDINE
– IL GIOCO
PROSPETTIVE PER LA PSICOTERAPIA
RIFLESSIONI E CONNESSIONI FILOSOFICHE
BIBLIOGRAFIA

INTRODUZIONE: IL MIO INCONTRO CON PANKSEPP

Da molto tempo ero in cerca di un sapere scientifico sulla mente che fosse fruttuoso nell’ambito di un percorso di autocomprensione. Nel 2013 ero rimasto affascinato dalla teoria di Giulio Tononi, il quale prometteva una formula matematica in grado di catturare l’essenza della coscienza. Dopo avere studiato alcuni articoli dedicati alla cosidetta information integration theory però, mi sono reso conto che non si trattava di ciò che cercavo. I complessi calcoli statistici di cui è composta la teoria conducono infatti a dei parametri numerici simili alle “firme di un pensiero cosciente” di cui parla Stanislas Dehaene nel suo recente libro sul cervello, ma purtroppo non forniscono una visione illuminante per l’autopercezione di noi stessi.
Dopo l’immersione nella statistica ho cercato dunque un’interpretazione del cervello più prossima all’esperienza personale, ed è stato così che ho incontrato Jaak Panksepp, il quale non tenta di estrarre l’essenza della coscienza per mezzo di un’elaborazione delle combinazioni dei neuroni accesi e spenti, ma ci parla di sistemi emotivi che possiamo connettere al volo con il nostro vissuto personale. Tra le altre cose, Panksepp è noto per avere identificato nei ratti un’emissione vocale equivalente alla risata, caratterizzata da una frequenza di circa 50Khz, al di sopra quindi della gamma di suoni udibili dall’orecchio umano. Questa emissione vocale è tipicamente emessa nelle situazioni in cui i ratti praticano giochi di lotta e di inseguimento. Secondo l’impostazione di Panksepp i sistemi emotivi fondamentali sono gli stessi in tutti i mammiferi, e quindi dallo studio degli animali si possono ricavare dei dati impiegabili anche per gli esseri umani. Detto questo è d’obbligo puntualizzare che Panksepp non adotta un approccio riduzionista che porta a perdere le specificità più preziose dell’umano, ma ci dà una descrizione delle fondamenta su cui può elevarsi l’edificio spirituale. L’attitudine umana di Panksepp si riconosce nelle foto che lo ritraggono mentre sorride naso a naso coi roditori che così spesso si incontrano nei suoi studi.
Panksepp individua il proprio territorio d’indagine con l’espressione ‘neuroscienze affettive’, ed adotta un approccio triplice allo studio delle emozioni, costituito dall’osservazione del comportamento degli animali, dallo studio del funzionamento fisico-chimico del cervello, e dai resoconti introspettivi dei soggetti umani. Ad esempio nel caso della paura avremo un ratto con due elettrodi inseriti nelle corrispondenti zone sottocorticali del cervello. A seguito dell’applicazione di un livello minimo di corrente il ratto si immobilizza, mentre con un livello più elevato di corrente l’animale scappa. A questa osservazione dei comportamenti di immobilizzazione e fuga si associa il resoconto di uomini a cui viene praticata una stimolazione elettrica simile a quella applicata al ratto, resoconto nel quale i soggetti coinvolti dichiarano di essere spaventati.
I primi studi di questo genere risalgono alla metà del ventesimo secolo, ma è stato necessario molto tempo perché emergesse una visione complessiva dei sistemi emotivi come quella elaborata da Panksepp. Nelle pagine a seguire troverete un’introduzione ai suoi risultati basata sul libro L’archeologia della mente, un testo di lettura non facile per via della ricchezza dei dettagli chimici ed anatomici che vi vengono descritti. Nel comporre la sintesi che costituisce la prima parte del qui presente libro ho lasciato cadere quasi completamente tali dettagli, essendo io interessato ad un discorso non specialistico. Sulla base di tale sintesi segue una seconda parte del libro costituita da riflessioni di taglio filosofico sul modo in cui le idee di Panksepp possono essere connesse alla creazione di una sintesi sociale nuova.

IL CERVELLO VISTO DA PANKSEPP

All’inizio del suo discorso Panksepp fornisce una ricostruzione storica per giustificare il fatto che l’attenzione della ricerca scientifica sia arrivata a concentrarsi sulle emozioni soltanto negli ultimi anni.
Il desiderio di costruire un edificio del sapere che sia inattaccabile e che risponda in ogni sua parte ad un’infallibile criterio di verità può spingere a diffidare dei riferimenti alle profondità invisibili della soggettività umana. Questo è quanto purtroppo succede con la corrente di pensiero del comportamentismo, che domina l’ambito degli studi psicologici accademici fino agli anni sessanta del secolo scorso, e che si propone di studiare soltanto il comportamento osservabile, vietandosi di impiegare il dato dei resoconti introspettivi. È per questo che Panksepp individua nel comportamentismo uno dei fattori che sono d’ostacolo allo studio delle emozioni.
A partire dalla metà del ventesimo secolo però, la prassi dei calcolatori rende possibile concepire l’uomo come una macchina dotata di software, istituendo una metafora con cui si puó concepire in modo scientificamente accettabile il pensiero che sta invisibile dentro la testa. Tale concezione è influenzata dal fatto che il software è di fatto un’implementazione di quella parte di filosofia che è la logica formale, la quale si occupa delle regole di ragionamento equivalenti ad operazioni esatte sui segni. L’impiego della metafora del pensiero come software è il tratto distintivo della corrente di pensiero che in psicologia prende il nome di cognitivismo e che si sostituisce al comportamentismo come orientamento dominante a partire dagli anni settanta.
Abbiamo dunque in psicologia una tradizione comportamentista prima che vieta per principio di fare riferimento al vissuto personale, ed un cognitivismo poi, che accetta di parlare dei mondi invisibili della soggettività, ma soltanto per coglierne i tratti di razionalità riflessiva più affini al pensiero logico. Secondo Panksepp l’influenza del comportamentismo e del cognitivismo ha ritardato fino ad oggi uno studio scientifico e sistematico delle emozioni, e tale influenza è ancora viva in molti studiosi attivi nel campo delle neuroscienze.

Venendo a descrivere la situazione attuale degli studi sul cervello, Panksepp riscontra che è difficile capirsi fra aree specialistiche diverse, perché diverso è il modo in cui vengono utilizzati termini simili. Per questo motivo propone di fare chiarezza distinguendo le strutture biologiche del cervello in tre livelli: il livello primario (quello di cui si occupa Panksepp) che corrisponde alle risposte emotive grezze, il livello secondario che è composto dai meccanismi di memoria ed apprendimento, ed il livello terziario in cui troviamo le complessità cognitive della riflessione.
Per fissare le idee possiamo esemplificare il livello primario con il terrore immobilizzante o con la fuga che nascono trovandosi di fronte ad una tigre, il livello secondario con il ricordo dei segni, dei luoghi e degli odori del predatore, ed il livello terziario con la discussione di un progetto per catturare la tigre.

Pensando al cervello di solito ci immaginiamo quelle pieghe grigie che formano la corteccia cerebrale, mentre il lavoro di Panksepp riguarda soprattutto ciò che vi sta sotto. Un principio empirico a cui spesso Panksepp fa riferimento è quello che collega la posizione dei componenti del cervello con la loro età evolutiva. Quelli più vicini alla colonna vertebrale sono i più antichi, mentre quelli in posizione più lontana sono i più recenti. Fra questi vi è la corteccia cerebrale, che possiamo concepire come un mantello venuto ad avvolgere infrastrutture preesistenti.
La localizzazione dei circuiti emotivi avviene inserendo degli elettrodi nel cervello per produrre una stimolazione elettrica in punti specifici. Fondamentale per i sistemi emotivi è il ruolo della zona sottocorticale denominata grigio periacqueduttale (GPA), con le emozioni a valenza negativa che tendono ad essere collocate sul dorso di essa, ed altre a valenza positiva situate sul lato opposto.

Panksepp circoscrive il proprio oggetto di studio individuando i tratti formali dei sistemi emotivi. Ognuno di essi può rispondere inizialmente ad alcuni semplici stimoli innati e successivamente può imparare ad attivarsi a seguito di molteplici oggetti e situazioni che si incontrano nell’ambiente. Ogni sistema emotivo è inoltre caratterizzato dalla capacità di elaborare contemporaneamente più stimoli in ingresso. Per quanto riguarda invece l’output, ciascun sistema emotivo produce un particolare tipo di risposta sotto forma di un comportamento che non riguarda oggetti predefiniti, come si nota ad esempio con la tendenza distruttiva della rabbia, che può trovare sfogo su oggetti diversi. Un terzo punto è che i sistemi emotivi non rispondono alle influenze dell’ambiente in modo immediato: al contrario della lampadina che si accende e si spegne istantaneamente premendo l’interruttore, i sistemi emotivi si comportano come delle ruote che una volta messe in movimento vanno avanti a girare per inerzia e hanno bisogno di tempo per fermarsi. Altra caratteristica importante è che i sistemi emotivi sono soggetti a regolazione da parte delle zone riflessive del cervello, e a loro volta hanno una profonda influenza sul funzionamento di tali zone. Infine è rilevante il fatto che noi percepiamo direttamente la qualità affettiva e distintiva di ciascuna emozione, il suo particolare sapore mentale.

Le emozioni fondamentali descritte da Panksepp sono sette, ed a ciascuna di esse abbiamo dedicato un capitoletto nelle pagine seguenti. Alcune di queste emozioni rientrano nel novero di quelle normalmente impiegate nel discorso psicologico, mentre altre vi appariranno insolite. Tutte ricevono un significato particolare dall’essere state individuate come una parte fisica del cervello. Esse sono la ricerca/voglia di fare, la paura, la rabbia, l’eccitazione sessuale, la cura, la pena della solitudine, il gioco. La loro elaborazione cognitiva nei processi secondari e terziari può dare luogo ad una molteplicità di manifestazioni più variegate quali ad esempio coraggio, invidia, colpa, gelosia, orgoglio, vergogna, disdegno.

I sistemi emotivi non esauriscono l’intero spettro affettivo, che si completa prendendo in considerazione anche gli affetti di natura sensoriale e quelli…

Quello che avete appena letto è l’inizio del libro “Le emozioni di base secondo Panksepp”. Il libro può essere acquistato sui principali store online.

 

BIBLIOGRAFIA

Zygmunt Bauman, Modernità liquida, (Roma-Bari: Laterza, 2002). Titolo originale: Liquid Modernity, 2000. Traduzione di Sergio Minucci.

Gordon M. Burghardt, “The Comparative Reach of Play and Brain. Perspective, Evidence, and Implications,” American Journal of Play, (Winter 2010 Edition), 338-356.

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La doppia natura della depressione, fisica e razionale

Ció che va messo a fuoco della depressione é che si tratta di un malessere fisico e che quindi non puó essere messo a posto con un ragionamento, cosí come una gamba rotta non puó essere aggiustata con la riflessione. Allo stesso tempo peró la depressione é il risultato della stratificazione di abitudini di comportamento e di ragionamento sbagliate. Per questo motivo la depressione puó essere affrontata con la ragionevolezza, ma non con quella ragionevolezza che mostra nulle i giudizi neri della persona depressa, bensí con una ragionevolezza che ci dica quali abitudini cambiare per eliminare le condizioni sistematiche che hanno provocato la depressione. Nel dire abitudini, ripetiamolo, ci si riferisce sia ai comportamenti fisici che al tipo di concetti che usiamo per interpretare il mondo.
Per quanto detto la depressione appare caratterizzata da una doppia natura. Da un lato si tratta di un problema concreto, molto piú solido dei ragionamenti fatti di parole, dall’altro é possibile attaccare la riflessione assumendo una adeguata visione del mondo e mantenendola a lungo, in modo che abbia modo di propagare i suoi effetti stratificandoli pian piano in tutte le regioni del nostro vissuto.

Per approfondire il tema della depressione potresti leggere i seguenti articoli:

Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione

 Depressione ed attacchi di panico: una radice in comune?

JAAK PANKSEPP E L’ARCHEOLOGIA DELLA MENTE: ALCUNE PREMESSE STORICHE

Nel libro L’Archeologia della mente Panksepp prende le mosse da una ricostruzione storica del modo in cui le emozioni sono state escluse per lungo tempo dall’indagine scientifica. Secondo Panksepp la corrente di pensiero del comportamentismo, i cui fondatori sono John B. Watson e B.F. Skinner, é uno dei principali responsabili del mancato studio delle emozioni nel corso del ventesimo secolo. L’impostazione positivista del movimento comportamentista é stata di eccessiva chiusura nei confronti del contenuto mentale non direttamente osservabile, ritardando cosí il progresso dello studio delle emozioni, il quale avrebbe potuto essere condotto senza aspettare le tecnologie di laboratorio a noi contemporanee, come dimostrano i lavori di diversi studiosi del passato. Sia Charles Darwin che William James ebbero visioni dell’emotivitá piuttosto avanzate, pur senza il contributo delle moderne tecniche neuroscientifiche. Pavlov riconobbe l’importanza delle emozioni nei suoi famosi lavori sui riflessi nei cani. Nel lavoro di Freud la dimensione emotiva é irrinunciabile e riceve una principale concettualizzazione in termini di un polo positivo e di uno negativo fra loro contrapposti. Edward Thorndike formuló la famosa “Law of Effect” utilizzando le parole satisfaction e discomfort, che chiaramente suggerivano stati mentali e tonalitá emotive, ma i comportamentisti preferirono usare termini piú oggettivi ed osservabili quali reward and punishment. In generale, a seguito dell’influenza del comportamentismo furono eliminati tutti i riferimenti a stati affettivi e motivazionali, e si accettarono solo descrizioni oggettive in terza persona. Studiare gli stati mentali e le emozioni era difficile, nel passato, per mancanza di evidenze empiriche, ma la possibilitá di affrontare piú approfonditamente l’argomento a livello sistemico ci sarebbe stata.

La rivoluzione cognitiva degli anni settanta del novecento ha dato enfasi alle parti del cervello che funzionano in modo piú simile al software di un computer, ovverosia al lavoro di processazione delle informazioni. Con ció si é riportata l’attenzione sulla mente intesa come attivitá riflessiva invisibile, ma é rimasto il pregiudizio che trascura le emozioni. Quando il cognitivismo guarda ad esse, tende a considerarle come un sottoinsieme dei processi cognitivi, ma questi sono tipici della corteccia cerebrale, che é la parte piú recente del cervello, mentre le emozioni risiedono in strutture evolutivamente piú antiche, e giá in ció rivelano una natura intimamente diversa.

Al giorno d’oggi, ci dice Panksepp, ci troviamo in una situazione in cui esistono i mezzi tecnici per lo studio dell’esperienza emotiva, ma permane l’abitudine anacronistica di trascurarla, non piú motivata dall’assenza di metodi di indagine rigorosi. Questo é connesso col fatto che molti studiosi delle neuroscienze hanno una formazione di stampo comportamentista oppure cognitivista.

Panksepp propone una ricostruzione storica in cui é centrale il ruolo di quello che poi fu chiamato Berlin Biophysics Club, sotto l’influsso del quale fu ufficialmente dismessa nell’ottocento la teoria dei quattro fluidi risalente ad Ippocrate.

LE EMOZIONI NON SONO UN’INTERPRETAZIONE RIFLESSIVA

Sul finire dell’ottocento William James e Carle Lange svilupparono indipendentemente una teoria di tipo read-out secondo cui le emozioni sarebbero una sorta di interpretazione riflessiva di un comportamento che funziona in modo automatico e indipendente da esse. Walter Cannon nel 1927 notava che questo non poteva essere vero, in quanto non ci sono i tempi tecnici perché la mente possa generare un’emozione costantemente al passo con un comportamento da essa separato. Le emozioni non potevano essere una sorta di interpretazione a posteriori, ma dovevano originarsi in modo integrato col comportamento. Paul MacLean sviluppó questo concetto estesamente arrivando a definire un sistema limbico inteso come un antico strato del cervello comune a tutti i mammiferi, ma le sue teorie furono accantonate a causa di alcuni errori secondari. Panksepp considera il proprio approccio convergente con quello di MacLean e si ritiene un follower di Cannon e Darwin nel loro riconoscere le emozioni come dirette manifestazioni di attivitá specifiche del cervello.