NOMI PER SALVARE IL PENSIERO EVANESCENTE

È quasi mezzanotte e il freddo ci punge aspettando Micaela. Tu sei tante cose, tu sei frizzante. Ti dondoli con le mani in tasca e c’è più stile nelle tue pose che in un musical famoso dei settanta. Vai snocciolando le novità dall’ultima volta dando un tono di voce diverso ad ogni episodio con una recitazione divertita. Dietro le tue parole variegate si intravede una sottile volontà che fa da regia alla giostra degli eventi per condurla in un luogo del futuro. Io, sospeso in questa moderata euforia invernale disegnata dal tuo comportamento, percepisco che la tua pelle è diventata dura per i graffi subiti e apprezzo la tua mente lucida nel sottolineare le proprie competenze e contemporaneamente i limiti.

Il tuo buonumore è sostenuto dalla consapevolezza delle cose accadute. Le decisioni nel gruppo di artisti, le idee concepite per un video, i libri letti, le possibilità di un lavoro. Ma col passare delle ore le cose accadute vanno lontanandosi dal presente scivolando nel passato. I meccanismi del tuo umore se ne accorgono e vanno ad ispezionare il nuovo passato prossimo che nel frattempo si è costituito. Prendono nota delle novità giunte dal mondo esterno e dei nuovi compimenti che hai saputo confezionare. Se non è stata consegnata alla mente abbastanza struttura, le agenzie di rating dell’umore decideranno per un declassamento. Devi essere laboriosa in silenzio per rispettare le consegne e guadagnare un’estensione del tempo felice, evitando il game over.

Non basta però mettere un freno agli spunti dispersivi e concentrarsi sulle strade intraprese. Ogni lavoro è simile ad una raccolta e prima di iniziare è necessario preparare un contenitore in cui salvare gli sforzi. Trattandosi di aspettative e di umore, che sono pezzi di spirito, il contenitore non può che essere un nome. Devi dare un nome ai tuoi lavori prima di cominciarli, così saprai quando li avrai finiti e li potrai poi mettere in esposizione sulle mensole nei corridoi del pensiero.

Non è facile prendere in mano la felicità senza farla morire. E di solito quando affrontiamo il problema ci rendiamo conto che dovevamo fare qualcosa prima. Bisogna giocare d’anticipo, dando più consapevolezza al nostro costruire. Non basta lavorare, bisogna preparare i nomi attorno ai quali fissare i flussi evanescenti del pensiero.

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LA MORTE DELL’AUTORE: NON SOLO LETTERATURA

RIFLESSIONI SULLO SCRITTO DI ROLAND BARTHES
[1]

LA CHIUSURA DELLE POSSIBILITA’

Roland Barthes

Roland Barthes

Il pensiero dell’individuo è aperto a molteplici possibilità che le parole scritte possono evocare o allontanare. Se immaginiamo il pensiero del lettore come la grande luce piena di un riflettore, allora ogni lettura è un foglio nero in cui sono aperti degli spazi, e dopo aver messo il foglio davanti alla luce, solo una parte dei pensieri rimane possibile. Cambiare lettura equivale a cambiare il foglio che mettiamo davanti alla luce. Scrivere un’interpretazione invece, significa mettere un secondo foglio in aggiunta al primo; i pensieri che rimarranno possibili saranno molti di meno, solo quelli che troveranno la coincidenza fra le aperture del primo foglio e quelle del secondo. È in questo modo che l’interpretazione di un’opera può chiuderne gli orizzonti, diminuendo le possibilità di intenderla. In questo senso, chiudere un testo non è in sé né male né bene. Se ci piacciono le possibilità rimaste aperte allora saremo felici di averle rese più evidenti, e viceversa.

Un funzionario del potere competente e dotato di una visione di lungo periodo si preoccuperà di favorire visioni del mondo coerenti con i propri interessi, scegliendo le interpretazioni compatibili con i pensieri amici. E il critico letterario sarà benvenuto presso le parti politiche di cui condivide il sistema di valori. Barthes, che non ha simpatia per “il sistema”, assume una posizione che contrasta con questo stato di cose.

Non saprei dire se le premesse storiche utilizzate da Barthes sono sufficienti a sostenere il suo ragionamento o se sono valide soltanto come un’introduzione, ma anche con questi dubbi riguardanti le radici della sua riflessione è possibile vederne chiaramente l’effetto: la morte dell’autore funziona come uno slogan per disconnettere il passato dell’autore dal tessuto del testo, al fine di contestare la critica e di favorire una lettura sincronica.[2]
La critica letteraria che Barthes prende di mira produce infatti delle interpretazioni di tipo diacronico[3]: essa riconduce il valore dell’opera letteraria alle dinamiche del passato che l’hanno generata, con un percorso a ritroso che risale dallo scritto fino alle presunte intenzioni dell’autore. Dunque, se il terreno su cui pascola il critico sono i percorsi del passato e la volontà dell’autore, ecco che Barthes costruisce uno scriptor dotato soltanto di un Qui ed Ora e privo di intenzioni, una sorta di nuda capacità procedurale. Facendo morire l’autore, Barthes rompe il giocattolo della critica.

UN’ATTITUDINE MENTALE

Al di là delle premesse e delle conseguenze della morte dell’autore, vale la pena compiere alcune osservazioni sul modo in cui essa si struttura. L’eliminazione dell’autore viene anzitutto articolata come rifiuto del tempo precedente alla scrittura durante il quale l’autore concepisce l’opera, e facendo coincidere l’esistenza dello scriptor con l’atto dello scrivere.

L’autore, quando gli si crede, è sempre concepito come il passato del suo libro: il libro e l’autore si posizionano automaticamente su di una singola linea divisa in un prima ed un dopo.[4]

In contrasto completo, il moderno scriptor nasce simultaneamente col testo, non è in alcun modo fornito di un essere che precede lo scritto o si estende oltre di esso, non è il soggetto con il libro come predicato; non c’è altro tempo di quello dell’enunciazione, ed ogni testo è eternamente scritto qui ed ora.[5]

Questa enfasi posta sul momento dello scrivere può anche produrre un certo entusiasmo nel lettore, il quale può proiettare sé stesso in una modalità scrivente che sfiora la dimensione del sacro, ma l’eccitazione è destinata a scemare quando vediamo Barthes ridurre le capacità dello scrittore ad una mera ricombinazione di un patrimonio di elementi preesistenti, privandolo esplicitamente di ogni emotività personale.

Il suo unico potere è di combinare le scritture, contrapponendo le une alle altre, in modo tale da non rilassarsi su nessuna di esse.[6]

Successore dell’autore, lo scriptor non porta più con sé passioni, umori, sentimenti, impressioni…[7]

Barthes è abile a prepararne l’entrata in scena, ma il concetto di scriptor è insostenibile là dove viene confrontato con la complessità storica dell’individuo reale che ha prodotto l’opera. Il rifiuto della durata temporale può attribuirsi (forzando un po’ la mano) al solo momento di definizione delle esatte parole che costituiscono il testo, ma non all’intero processo di creazione dell’opera, che tra l’altro vede l’autore divenire lettore di sé stesso al fine di compiere una validazione o un’autocritica. Nel processo di messa a punto del dispositivo letterario l’autore non può essere considerato indipendente dalla propria storia. L’unico modo di avere uno scriptor verosimile è intenderlo come una sottoparte dell’autore reale, come una sorta di microclima mentale caratteristico del momento dello scrivere.

La morte dell'autore

La morte dell’autore

ALLEGGERIMENTO E APERTURA DEL SOGGETTO

Leggendo l’articolo di Barthes si percepisce un’esigenza di maggiore impersonalità; questo termine può essere inteso come la sostituzione di un Io monolitico e ingombrante con una creatura molteplice e sfuggente. In conseguenza di ciò l’autore non entra più a gamba tesa nello scritto, ma con mano leggera si occupa di manovrare una varietà di meccanismi che daranno luogo alla bellezza del tessuto di parole, accompagnato dalla consapevolezza della propria specifica identità acquisita con l’esperienza.
Ma nello scritto di Barthes intravedo una versione perversa dell’impersonalità che ci chiede di gettare via la nostra storia, sia in qualità di scrittori che di lettori. Si tratta di una richiesta a cui difficilmente si può dare una risposta positiva.

UN RESIDUO CHE NON SI PUO’ ELIMINARE

Esponendo il concetto di morte dell’autore, Barthes sostiene che le storie narrate sono altro dalle storie vissute dall’autore, e che la linea principale di narrazione non è aderente al vissuto dell’autore. Di conseguenza considera inconsistente la pratica con cui il critico letterario decifra la linea narrativa riconducendola a tale vissuto.
Ma anche se non c’è un trasferimento diretto delle storie dell’autore dentro il testo, deve comunque esserci una specificità dell’autore che passa nell’opera, altrimenti gli autori sarebbero banalmente uno uguale all’altro. Quindi, a rigore, sussiste sempre la possibilità di impostare un’interpretazione dello scritto che risalga ai tratti specifici delle sue origini.

DOVE STA IL PROGRESSO

Complessivamente la morte dell’autore mi appare come una questione controversa[8]. Come lettori, il migliore uso che possiamo fare di questa immagine è intenderla come un invito a mettere temporaneamente da parte le cause del passato, simboleggiate dall’autore. Così facendo si pongono le condizioni per perdersi nel presente, interpretando lo scritto in base alla relazione tra le parti, evitando di riferirsi ad un altrove. Questo modo di dare fiducia al testo favorisce la creatività nella misura in cui la riflessione opera su strutture di cui dispone pienamente, non interrotta dalla necessità di effettuare delle ricerche nelle tracce del passato per verificare le linee causali. Lo svantaggio, ovvio, è che si rinuncia a certificare ed arricchire l’analisi con il contenuto di informazione presente nel passato.
Per come la vedo io, il progresso consiste nel trovare i fattori qualitativi in grado di indicare quando è necessario interrompere l’analisi sincronica per passare ad una verifica diacronica. Desiderosi di compiere immersioni nelle varie località del Qui ed Ora, abbiamo bisogno di un metodo che ci indichi il momento giusto per tornare nel contesto globale della Storia.[9] [10]

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NOTA BIOGRAFICA

Roland Barthes

Roland Barthes

Roland Barthes nasce in Normandia, nel nord della Francia, il 12 Novembre 1915. Il padre muore in guerra l’anno successivo, e la madre Henriette lavora come rilegatrice di libri per mantenere la famiglia. Roland si laurea alla Sorbona in letteratura classica e poi in grammatica e filologia. Passa diversi anni in alcuni sanatori per via della tubercolosi. Nel 1953 pubblica “Il grado zero della scrittura” e nel 1967 “La morte dell’autore”. Nel 1970 pubblica “S/Z”, un’analisi di “Sarrasine”, una novella di Balzac. L’ultimo libro prima della morte è “La camera chiara”, sulla fotografia, del 1980. Roland Barthes era legatissimo alla figura della madre; era gay, protestante, interdisciplinare, contro il sistema.

 

  1. [1]Questo documento contiene le mie riflessioni a riguardo del testo di Roland Barthes: “The Death of the Author”, del 1967. Mi sono riferito alla versione in inglese di cui riporto i riferimenti: “Image, music, text” 1977 Pagg 142-148 editore: Fontana, Londra – ISBN/ISSN: 0006861350 – Traduzione in inglese di S. Heath. Il pdf si trova a questo indirizzo: http://smile.solent.ac.uk/digidocs/live/Furby/Text/Barthes.pdf. Le citazioni in italiano sono una mia traduzione dall’inglese.
  2. [2]Che esamina il presente senza fare ricorso agli avvenimenti del passato e quindi al divenire.
  3. [3]Estese nel tempo: che prendono in considerazione il presente in base a come si è creato a partire dal passato.
  4. [4]“The Author, when believed in, is always conceived of as the past of his own book: book and author stand automatically on a single line divided into a before and an after.”
  5. [5]“In complete contrast, the modern scriptor is born simultaneously with the text, is in no way equipped with a being preceding or exceeding the writing, is not the subject with the book as predicate; there is no other time than that of the enunciation and every text is eternally written here and now.”
  6. [6]“His only power is to mix writings, to counter the ones with the others, in such a way as never to rest on any one of them.”
  7. [7]“Succeeding the Author, the scriptor no longer bears within him passions, humours, feelings, impressions…”
  8. [8]Io ad esempio, in quanto autore, non sono molto disposto a suicidarmi.
  9. [9]È chiaro che il movimento fra la Storia e le località del Qui ed Ora si verifica molte volte, non si tratta di un singolo evento isolato.
  10. [10]Questo ragionamento è stato introdotto in riferimento al ruolo di lettore, ma non si esaurisce con esso.

LA BATTAGLIA DELLE APPARENZE

In quei giorni il Rispettabile Saggio era di cattivo umore, e gli capitò di contestare il Creativo con queste parole: “Tu cerchi sempre di essere originale, non rispetti la convenzione, e con la tua presunzione rovini il nostro vivere in società.”

Il Creativo, che per sua fortuna era anche un poco intelligente[1], così gli rispose: “Io non vado cercando l’originalità con la lanterna: io cerco me stesso. Sei tu che guardandomi da fuori usi questa parola per nominarmi e criticarmi, ma io mi guardo dal dentro.

Inoltre io non sono presuntuoso, io sono lo schiavo della viva bellezza, e sono umile al suo cospetto. Per questo mio padrone ho un rispetto molto più serio di quello che tu hai per la tua convenzione. La viva bellezza infatti è penetrante, non è una maschera dietro la quale nascondere qualsiasi vita, e se non hai capito di cosa sto parlando, sappi che essa è il pensiero che si muove, è quando un significato conquista e riordina l’intero regno del conscio e parte dell’inconscio, trasfigurandoli. È l’idea formatasi da poco, che diventa occasione per i mille nomi che stanno nella mente di mettersi in una configurazione nuova, proiettandosi in file lungo i raggi che vengono da tale idea, o disponendosi a corona intorno ad essa.

Nei miei quadri il completo elegante siede accanto alle povere vesti e alle tute sportive. L’uomo che ride accompagna l’uomo che piange, il triste conversa con l’euforico, e il distratto trova un accordo con l’uomo d’azione. Questo perché la mia regola non è l’uguaglianza dei comportamenti; è qualcos’altro. Tu invece pensi che io non abbia regole solo perchè rompo le apparenze uniformi. Ma per fortuna io non ho bisogno delle apparenze diverse per cercare me stesso, e non ho bisogno neppure di confrontarmi col tuo pensiero, che già conosco. Per cui su questo semplicemente te la do vinta, o Rispettabile Saggio, e domani mi vestirò tono su tono, e risponderò loro con un sorriso di maniera, senza farli aspettare. Perché non è la battaglia delle apparenze quella che io voglio condurre.”

  1. [1]Altrimenti il Rispettabile Saggio sarebbe riuscito a rovinargli l’ispirazione.

IL RITRATTO DELL’ISPIRAZIONE E LA FILOSOFIA IN TUTA BLU

Sto leggendo filosofia: “Che cos’è metafisica” di Heidegger[1]. Ho segnato le ispirazioni a margine dello stampato per poi sistemarle in frasi e paragrafi dotati di un capo e di una coda. Ma ho sbagliato: ho salvato solo le sei, sette, o tredici parole che bastano appena a identificare l’idea intravista. Avrei dovuto scendere nelle gallerie da dove il pensiero creativo era venuto, prima che queste tornassero a chiudersi.
Gli appunti delle idee nuove vanno presi in forma compiuta quando si è prossimi alla sorgente dell’ispirazione ancora calda e se ne possono rintracciare le storie retrostanti. L’ispirazione è effimera, e il suo ritratto non va rimandato.
Compreso il da farsi per salvare l’intuizione, eccomi a percorrere al contrario le radici del pensiero, nei corridoi di questo labirinto mobile e misterioso che si concede per poco alla mia vista. Camminando in queste grotte mi accorgo che le parole non sono più dentro di me e scelte da me, ma mi vengono incontro portate da un vecchio carrello del carbone su di un binario in una galleria, come in un film di Indiana Jones o in un libro di Jules Verne. Ma dove sono finito? Forse queste stanze sotterranee sono i reparti dove incontrerò la filosofia in tuta blu, indaffarata nel tentativo di mettere in moto la metafisica?[2]
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  1. [1]Heidegger, “Segnavia”, Biblioteca Filosofica, Adelphi 1987, a cura di Franco Volpi, Friedrich-Wilhelm von Herrmann . Pagg. 59-77
  2. [2]Cfr. Heidegger: “Ciò che noi chiamiamo filosofia non è che il mettere in moto la metafisica, attraverso la quale la filosofia giunge a sé stessa e ai suoi compiti espliciti.” Nell’opera in oggetto a pagina 77.