La Fenomenologia, il Gioco e la Frontiera di noi stessi

In un post precedente abbiamo impiegato due metafore (gli impressionisti e la radice) per avvicinarci all’essenza dello sguardo fenomenologico. La fenomenologia tende a cogliere le impressioni immediate del pensiero così come gli impressionisti tentavano di cogliere direttamente le sensazioni luminose, dipingendo con macchie di colore ed evitando i contorni. La fenomenologia tende a circoscrivere la sua fiducia a “ciò che appare” (questo è il significato della parola fenomeno), e a non lasciarsi coinvolgere nelle elaborazioni cognitive successive, inclusa l’idea che le cose esistano. È come se la fenomenologia tendesse a cogliere ciò che in ogni pensiero e in ogni parola è radice, sforzandosi di separarla dal corso delle abitudini convenzionali che ad ogni passo del pensiero elaborano tale radice trasformandola in qualcos’altro.

Dal mio personale punto di vista lo sguardo della fenomenologia è importante per lo sviluppo di una sensibilità, per definire uno stile di vita, un sistema di valori, e, con un po’ più di coraggio, anche una forma religiosa nuova. Non sono sicuro di poter svolgere tema in modo compiuto, ma vorrei provare ad impostare un esempio.

Nell’esperienza di vita di un bambino vi sono dei colori e delle vivacità che nell’adulto sono spesso perse. Nel corso dello sviluppo incontriamo momenti di qualità che poi ci sfuggono, e tendiamo a pensare che questi episodi di felicità non siano recuperabili. È come se vi fosse in ogni periodo della vita una frontiera dello sviluppo di sé stessi che continuamente trasla e si evolve. Ed è come se restando in prossimità di tale frontiera si potesse provare una forma di gioia che si confonde col gioco e con la percezione del proprio accrescimento. Pensiamo ad esempio a quando il bambino impara ad afferrare gli oggetti, ad usarli, ad indicarli. Oppure a quando impara a stare seduto in equilibrio, e poi a muoversi a gattoni e quindi a camminare. La frontiera di cui parlo è simile a ciò che Vygotskij chiamava zona di sviluppo prossimale.1

A mio avviso, la sensibilità esercitata nella pratica della fenomenologia ci aiuta a raggiungere la consapevolezza delle zone dell’essere che mutano nel corso dello sviluppo. E qui si aprono due possibilità. La prima è che questa accresciuta consapevolezza ci aiuti a comprendere dove si trovi la nostra frontiera attuale, in modo da frequentarla. Perché quella frontiera è la zona dove possiamo esperire la gioia di sentire che si sta crescendo, spesso sotto forma di gioco. La seconda possibilità, più ambiziosa, è lo sviluppo di un nuovo vocabolario e di un modo di fare parola tali da evitare le chiusure di progresso. Ciò che mi pare di intravedere è che ci sono dei concetti e dei modi di parlare che possono estendere a tutta la vita dell’individuo quella gioia che si prova quando si impara a camminare.

Allo slittamento continuo della frontiera di sviluppo corrisponde uno spostamento della zona di gioco, e stabilire le condizioni adeguate al verificarsi del gioco potrebbe essere l’obiettivo verso cui far convergere gli sforzi di uno sguardo fenomenologico. Da questo ragionamento segue, tra l’altro, il bisogno di sviluppare una comprensione più profonda del fenomeno del gioco, che rappresenta una delle sette emozioni fondamentali individuati nell’ambito delle neuroscienze affettive. Non a caso, chi scrive è al momento impegnato in una ricerca interdisciplinare sul gioco.

Gli argomenti di cui sto parlando non sono molto dissimili dall’idea di Marcuse di una convergenza fra la dimensione del gioco e del lavoro2, e volendo si può anche stabilire un collegamento con gli studi di Csikszentmihalyi sull’esperienza di Flow3 (flusso), la quale ha caratteristiche simili al gioco ed implica un bilanciamento fra la sfida a cui siamo chiamati e le competenze che siamo in grado di padroneggiare. Il bilanciamento fra sfida e competenze possedute può essere infatti concepito come un collocarsi in prossimità della frontiera di noi stessi.

Chi è interessato all’argomento del gioco

potrebbe trovare interessante la lettura dei seguenti articoli:

L’assimilazione nel pensiero di Jean Piaget. In vista del gioco.

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Una pedagogia del gioco? Scelta, meraviglia e godimento

“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

1Lois Holzman, Zones of Proximal Development: Mundane and Magical, Chapter to appear in J. P. Lantolf, M. E. Poehner & M. Swain (Eds.), The Routledge Handbook of Sociocultural Theory and Second Language Development (Routledge Handbooks in Applied Linguistics), 2018.

2Marcuse, H. (1970) ‘The End of Utopia’, in H. Marcuse (ed.) Five Lectures: Psychoanalysis, Politics and Utopia, pp. 62–69. Boston, MA: Beacon Press.

3Nakamura J., Csikszentmihalyi M. (2014) The Concept of Flow. In: Flow and the Foundations of Positive Psychology. Springer, Dordrecht

Una pedagogia del gioco? Scelta, meraviglia e godimento

È da circa un anno che sono impegnato in una ricerca interdisciplinare sul gioco. Una parte degli articoli che ho letto riguardano l’impiego del gioco a diversi livelli del processo educativo. Dall’asilo nido fino all’istruzione universitaria, c’è una tematica che sembra essere ricorrente in questi lavori. Da un lato si vorrebbe arruolare il gioco tra i metodi d’insegnamento, per trarre vantaggio dal suo carico di affettività positiva e dalla sua capacità di promuovere il coinvolgimento. D’altra parte ci si trova, anche nel contesto educativo, a fronteggiare una tendenza diffusa a perseguire risultati “commerciabili”, precisi e misurabili, là dove invece i vantaggi ottenibili con le attività di gioco sono di carattere generale e non facilmente misurabile.

In questo post vorrei riportare il punto di vista di un bell’articolo1 che affronta la situazione in modo concreto. Si tratta di un documento prodotto da Project Zero (un centro di ricerca basato ad Harvard) in collaborazione con una scuola danese e la fondazione LEGO. L’obiettivo degli autori è quello di sviluppare alcune indicazioni pratiche adatte a definire la situazione di un apprendimento basato sul gioco. L’articolo si intitola, significativamente, “Verso una pedagogia del gioco”, e sottolinea l’importanza di raggiungere un punto di vista condiviso su come il gioco possa essere impiegato in ambito pedagogico. La tesi principale è che al fine di realizzare una situazione di apprendimento basato sul gioco si debbano soddisfare i tre criteri di Scelta, Meraviglia, Godimento2 (in inglese Choice, Wonder, Delight).

La dimensione della scelta implica che i partecipanti “decidano gli obiettivi, sviluppino e condividano idee, facciano e modifichino le regole, e negozino le sfide. Inoltre scelgono i collaboratori ed i ruoli, per quanto tempo lavorare o giocare, e quando muoversi.”

La dimensione della meraviglia “implica un’esperienza di curiosità, novità, sorpresa e sfida, che può coinvolgere ed affascinare colui che apprende. Dal punto di vista di un osservatore, un senso di meraviglia comporta improvvisazione o esplorazione, creazione od invenzione, simulazione o immaginazione, il prendersi dei rischi o l’imparare da prove ed errori.”

La dimensione del godimento (che potremmo anche tradurre come piacere, o diletto) “include eccitazione, gioia, soddisfazione, ispirazione, anticipazione, orgoglio e appartenenza.”

Come si nota dalla varietà dei termini citati, non siamo di fronte ad una definizione cristallina ed univoca, e questo riflette la difficoltà ampiamente riconosciuta di definire esattamente il fenomeno del gioco. Nondimeno si tratta di un approccio, in fase di sviluppo, che fornisce riferimenti concreti a chi si propone di impiegare il gioco in campo educativo.

Andando oltre quanto sostenuto nell’articolo in oggetto vorrei proporre alcune osservazioni utili a ricollegare i tre criteri sopra citati ad un modello più astratto e generale di cosa sia il gioco.

La dimensione del godimento e del diletto fa riferimento al fatto comunemente accettato che il gioco sia un’esperienza affettivamente positiva, ossia una forma di piacere. Questo non basta però a definire il gioco, come si può comprendere facilmente tenendo presente che esistono altre forme di piacere molto differenti dal gioco. Penso ad esempio alla soddisfazione della fame e della sete, oppure al piacere dell’esercizio fisico e all’erotismo.

Dal modo in cui sono descritte la dimensione della scelta e della meraviglia comprendiamo che il tipo di piacere con cui abbiamo a che fare è un piacere di natura cognitiva, che riguarda il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Dalla dimensione della meraviglia si nota anche in modo evidente come questo tipo di piacere sia sostenuto dalla novità. Nella dimensione della scelta riscontriamo invece l’impostazione autonoma di un obiettivo arbitrario. E vediamo che il piacere cognitivo si esercita nel coordinare i mezzi a disposizione verso il soddisfacimento di questo obiettivo.

Ci troviamo dunque a descrivere una forma di piacere di origine cognitiva, che è promossa dal senso di novità, e che si manifesta nel perseguimento di uno scopo scelto in autonomia. Messa così la descrizione può apparire piuttosto astratta, motivo per cui vorrei provare a ricondurla ad una situazione di gioco concreto, al di là del contesto educativo. Vygotskij, ad esempio, parla di due sorelle che un giorno decidono di giocare a fare le sorelle. In questo caso lo scopo (scelto perché se ne trae immediato piacere) è quello di rendere evidente l’essere sorelle, ed uno dei mezzi con cui viene perseguito é vestirsi e parlare in modo simile.3

Le osservazioni riportate in questo post sono preliminari ad un discorso più completo sul gioco che al momento è in fase di sviluppo. Chi scrive adotta una concezione del gioco sviluppata a partire dalla visione delle neuroscienze affettive, che intendono il gioco come una delle sette emozioni di base. Per altre considerazioni teoriche sul gioco si possono leggere questi post:

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

L’assimilazione nel pensiero di Jean Piaget. In vista del gioco.

“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

1Mardell, B., Wilson, D., Ryan, J., Krechevsky, M., Ertel, K., & Baker, M. (2016). Towards a Pedagogy of Play. Cambridge, MA: Harvard Graduate School of Education.

2La traduzione di Delight con Godimento non è priva di rischi. Ho scelto di impiegare la parola Godimento perché denota il senso di intima partecipazione tipico del gioco (Vedi anche la voce Godimento nel vocabolario Treccani: “Sentimento di soddisfazione e di intima contentezza, che si prova nel possesso, nella partecipazione o nella contemplazione di un bene fisico o spirituale, e più genericam. piacere, diletto”)

3La natura cognitiva del piacere di questo gioco sta nel fatto che la fonte di piacere è il rappresentasi come sorelle. L’episodio citato si trova menzionato in quest’articolo: Vygotsky, L. (1978). The Role of Play in Development (pp. 92-104). In Mind in Society. (Trans. M. Cole). Cambridge, MA: Harvard University Press.

L’assimilazione nel pensiero di Jean Piaget. In vista del gioco.

In questo post daremo anzitutto una descrizione dell’assimilazione e dell’accomodamento così come sono intesi da Piaget. Successivamente proporremo un’interpretazione dell’assimilazione come una forma di omeostasi. Tale interpretazione è finalizzata ad una ricerca sulla natura del gioco, e prende spunto dal fatto che Piaget interpreta il gioco come una forma di assimilazione.

ASSIMILAZIONE E ACCOMODAMENTO 1 2

Il concetto di assimilazione, fondamentale nella teoria di Jean Piaget, è impiegato dal famoso psicologo svizzero per evidenziare l’aspetto sistemico degli organismi viventi. L’assimilazione viene contrapposta ad altri strumenti teorici quali la sequenza stimolo-risposta ed il concetto di associazione, coi quali spesso si isolano parti dei processi organici senza tenere conto adeguatamente della complessità interazionale propria dei viventi.

Al fine di concretizzare l’idea di assimilazione prendiamo come esempio il caso del cibo. L’assimilazione delle sostanze ingerite ha luogo grazie ai processi chimici che le trasformano rendendole assimilabili, appunto, da parte delle strutture organiche situate all’interno del corpo. Piaget considera l’assimilazione come un concetto valido sia per la dimensione organico-biologica sia per quella del comportamento. L’assimilazione è intesa come il processo per cui gli elementi esterni vengono ricondotti alle strutture già esistenti nell’organismo.

L’assimilazione assicura la continuità dell’organismo, ma non è un principio che agisce da solo. Se ci fosse solo assimilazione, l’organismo non sarebbe soggetto a sviluppo. L’assimilazione è accompagnata dal suo processo complementare, chiamato accomodamento. L’accomodamento è il processo per cui le strutture esistenti cambiano a causa dei nuovi elementi che vengono assimilati.

Piaget porta un esempio relativo al bambino che si succhia il pollice. In questo caso diciamo che il pollice è stato assimilato, incorporato, nel processo del succhiare, il quale originariamente avveniva solo col seno della madre. Nel contempo è avvenuto un accomodamento del processo del succhiare: l’articolazione dei movimenti del succhiare è cambiata adattandosi alla diversa conformazione del pollice rispetto al capezzolo della madre.

Va precisato che nella teoria di Piaget assimilazione ed accomodamento non sono due processi ben precisi, unicamente determinati e quindi fisicamente rintracciabili nell’organismo o nella psiche. Si tratta piuttosto di due categorie che funzionano bene per descrivere le strategie dell’organismo corporeo e psichico, e che possono venire utilizzate a diversi livelli di analisi.

ASSIMILAZIONE ED OMEOSTASI

Dopo aver esposto l’idea di assimilazione come è intesa da Piaget, proveremo ora a connetterla con l’idea di omeostasi. A tal fine abbiamo sintetizzato in un altro post il concetto di omeostasi, che consideriamo essere il mantenimento delle condizioni interne di un organismo vivente.

Ora, mi pare abbastanza evidente che in prima approssimazione l’assimilazione può essere concepita come un caso di omeostasi, nel senso che assimilando gli elementi esterni alle strutture esistenti si mantengono tali strutture.3 Siamo però subito indotti a fare alcune precisazioni.

Abbiamo visto in precedenza che il concetto di omeostasi, nato in riferimento agli organismi viventi, può essere esteso all’ambito ingegneristico, nel quale il mantenimento dello status quo si realizza attraverso la gestione di un piccolo numero di variabili numeriche, che esprimono ad esempio la temperatura di una stanza o l’acidità di un bagno chimico. Il caso dello schema senso-motorio del succhiare però, non è riducibile ad una situazione così semplificata.

D’altra parte, il mantenimento di uno schema di comportamento non è nemmeno identificabile al mantenimento di un fondo composto da un denso tessuto di relazioni chimico-fisiche4. Sembra piuttosto che si abbia a che fare con una struttura ben definita, là dove invece il concetto di omeostasi si origina come mantenimento di un mezzo (il milieu di cui parlava Claude Bernarde) che si pone come un ambiente da cui le strutture definite possono emergere. L’omeostasi vera e propria mantiene un mezzo, un apeiron, un fondo indifferenziato, un terreno. L’assimilazione invece (almeno nell’esempio citato) sembra riguardare più delle strutture ben precise e distinte, un sistema di cose specifiche, e non un fondo indistinto e generatore.5

Il concetto di assimilazione ci interessa soprattutto in quanto Piaget interpreta il gioco come una predominanza dell’assimilazione.6 Ora, una manifestazione fondamentale del gioco negli uomini e negli animali è il gioco di lotta, che ha per proprietà l’alternanza fra momenti di attacco e di difesa (là dove vince sempre lo stesso individuo, il gioco tende a finire). A noi è parso che impiegando l’omeostasi per spiegare l’assimilazione si ottenesse la possibilità di impiegare il concetto di ciclo omeostatico (si veda l’articolo sull’omeostasi per comprendere meglio a cosa mi riferisco) per comprendere meglio l’alternanza di ruoli difensivi e d’attacco nel corso del gioco di lotta. Questa alternanza potrebbe essere un’esemplificazione della tendenza dell’organismo a a ripetere i propri cicli nello spazio delle fasi.7

Va ricordato che quella appena enunciata è soltanto una possibilità intravista, la situazione necessita di essere approfondita, e quanto qui proponiamo sono soltanto delle riflessioni preliminari. Che effettivamente il gioco sia interpretabile come assimilazione e come omeostasi, credo dipenda in ultima analisi da come si impostano questi concetti.

Da tutta questa riflessione nasce però una domanda che mi pare avere una natura più decisiva. Se il gioco è interpretabile come il mantenimento di un profilo mentale elevato rispetto allo strato percettivo, allora potremo chiederci: ciò che è mantenuto dal gioco ha più la natura di un fondo continuo o di una struttura definita e discreta?

Ricordo che questo post si inserisce in una ricerca sulla natura del gioco che prende lo spunto dal fatto che il gioco è una delle sette emozioni fondamentali identificate da Jaak Panksepp nell’ambito delle neuroscienze affettive.

Chi è interessato all’argomento del gioco potrebbe trovare interessante la lettura dei seguenti articoli:

“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

Una pedagogia del gioco? Scelta, meraviglia e godimento

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Assimilazione, omeostasi, gioco

1Piaget J. (1976) Piaget’s Theory. In: Inhelder B., Chipman H.H., Zwingmann C. (eds) Piaget and His School. Springer Study Edition. Springer, Berlin, Heidelberg

2Piaget J. (1972) La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia Editrice, Scandicci (FI). Titolo originale: La formation du symbole chez l’enfant. (1945). Traduzione di Elena Piazza.

3Anche l’insieme del processo di assimilazione e di accomodamento potrebbe essere considerato come un’omeostasi. Ovviamente in un caso e nell’altro cambierà la concretizzazione esatta di ciò che consideriamo essere il processo omeostatico.

Nota che mettere sullo stesso piano l’omeostasi e l’assimilazione implica che le strutture preservate dall’assimilazione siano assimilabili al mezzo preservato dall’omeostasi.

4Si potrebbe far notare che anche il microclima interno alle stanze della casa e la condizione fisica del bagno chimico non si risolvono in un piccolo numero di variabili, ma il punto è che la complessità concreta di tale microclima e del bagno chimico non partecipano al sistema di regolazione omeostatico ingegneristicamente realizzato. Ciò che vi partecipa sono solo il valore della temperatura e quello del Ph.

5Le strutture mantenute dall’assimilazione sembrano avere una natura intermedia tra quella di un fondo diffuso e quella di un piccolo numero di variabili ingegneristiche.

Certo le cose specifiche possono aver bisogno di emergere da un fondo, e forse sono un processo che fluisce con continuità da un fondo. Nondimeno penso che sia meglio tenere vicina l’idea di omeostasi al concetto di fissità del mezzo interiore. Volendo si potrebbe concepire uno spettro che si estende da ciò che è fondo indistinto e generatore a ciò che cataloghiamo come ente, come struttura ben definita e distinta (a tale scopo può essere utile immaginare un tessuto di molteplici strutture che finisca per essere assimilabile ad un mezzo. Così come tante strutture molecolari formano un fluido). Di conseguenza avremmo uno spettro dell’azione del mantenere che andrebbe dal mantenere un mezzo (l’omeostasi) al mantenere una struttura precisa (il che può coincidere con almeno alcuni casi di assimilazione).

6“L’equilibrio progressivo tra l’assimilazione delle cose alla propria attività e l’accomodamento di quest’ultima rispetto a quelle sfocia infatti nella reversibilità caratteristica di quelle azioni interiorizzate che sono le operazioni della ragione, mentre il ruolo predominante dell’accomodamento caratterizza l’imitazione e l’immagine, e quello dell’assimilazione spiega il gioco ed il simbolo «incosciente»” Piaget 1972, p.7.

7Potremmo anche tentare di ricondurre parte di ciò che Piaget chiama accomodamento alla differenza, al rumore che caratterizza ogni ripetizione reale.

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Nel novembre 2017 ho pubblicato un libro divulgativo sulle sette emozioni di base secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp (1943 – 2017), una delle quali corrisponde appunto al gioco. Da lì ho deciso di intraprendere una ricerca interdisciplinare sul modo in cui viene teorizzato il gioco. Dopo aver letto una serie di articoli appartenenti ad aree di studio molto differenti fra loro, penso di poter dire che vi sono due poli principali attorno ai quali si muove la teorizzazione del gioco. Uno di questi due poli è il gioco di lotta, diffuso in molti mammiferi fra cui l’uomo, ed esemplificabile facilmente con i cuccioli dei cani che si rincorrono e lottano alternandosi nei ruoli di sottomissione e dominanza. È essenzialmente questo il gioco a cui si riferisce la teoria dei sistemi emotivi di Panksepp. L’altro polo fondamentale degli studi sul gioco è il cosiddetto gioco di fantasia (in inglese pretend play). Uno studioso importante di questo soggetto è il russo Lev Vygotskij (1896 – 1934). Nel solco della tradizione psicologica che ha in Vygotskij il proprio riferimento (1) troviamo Daniil Elkonin (1904 – 1984), il quale ha sviluppato una descrizione del gioco di fantasia basata su quattro distinti livelli. Due studiose di area russa (E.O. Smirnova e O.V. Gudareva) hanno pubblicato nel 2015 un articolo in cui si impiegava questa distinzione in quattro livelli per valutare il grado di sviluppo del gioco di fantasia nei bambini in età prescolare (2). Lo scopo dell’articolo era comparare tale grado di sviluppo fra i bambini di oggi e quelli di alcuni decenni addietro. Il risultato è che al giorno d’oggi il livello di gioco di questi bambini appare meno sviluppato che in passato: “Dunque, sulla base dei risultati dell’osservazione, possiamo affermare che il livello di sviluppo del gioco tra i bambini in età prescolare è oggi molto inferiore rispetto ai loro omologhi a metà del secolo scorso. Solo alcuni bambini raggiungono una forma di gioco sviluppato (livello 4), soprattutto dopo i sei anni di età, dunque verso la fine del periodo prescolare. Questi dati sono essenzialmente in linea col punto di vista degli insegnanti degli asili nido e conferma il declino nelle attività di gioco dei bambini” (2, p.13).

Qui di seguito riporto una breve descrizione dei livelli di gioco basata sull’articolo di Smirnova e Gudareva.

LIVELLO 1 – Si usano soltanto giocattoli realistici. Vi sono delle sequenze, ma sono prive di una struttura fissa. I ruoli non sono predeterminati ma derivano dagli oggetti impiegati o dall’azione intrapresa. I bambini giocano da soli o vicini, senza che si creino gruppi ben definiti.

LIVELLO 2 – Le sequenze riproducono quelle delle azioni della vita quotidiana. Vi sono parole che indicano i ruoli, ma questi non sono ancora oggetto di discussione esplicita. Non vi sono ancora regole esplicite. I giocattoli non sono ancora scelti in anticipo. Iniziano le interazioni che originano gruppi piccoli e di durata limitata.

LIVELLO 3 – Il gioco consiste essenzialmente nel performare dei ruoli individuati già prima che il gioco cominci. I ruoli determinano le sequenze di comportamento, ed il bambino protesta se il comportamento non è conforme al ruolo. Emergono delle regole che vengono rispettate, anche rinunciando alla soddisfazione di altri desideri spontanei. I giochi sono scelti in anticipo. La narrativa si fa più complessa ed aumenta la durata del gioco.

LIVELLO 4 – Il focus del gioco si sposta sulle relazioni fra i ruoli, che sono definiti esplicitamente prima del gioco. Emerge una fase preparatoria. I gruppi divengono più durevoli.

P.S.

In Piaget si trovano dei riferimenti che potrebbero essere messi in connessione con questi 4 livelli del gioco. Si veda ad esempio questa osservazione: “Per quanto riguarda il simbolismo collettivo, limitiamoci a notare la maniera in cui J. ed L., continuando, a partire dai sette-otto anni, la loro collaborazione diventata sistematica (e non più episodica come al livello precedente) nei giochi di bambole e famiglia, sono giunte ad organizzare continuamente, per loro stesse e per T. (poi con T.), delle specie di “commedie” o rappresentazioni teatrali. All’inizio tutto era improvvisato e la commedia non consisteva che in un gioco simbolico collettivo con spettatori. Successivamente il soggetto veniva posto prima e discusso per grandi linee (a volte persino con preparazione dettagliata del principio), ma, una volta rappresentata la parte preparata, restava sempre un margine assai largo di sviluppi improvvisati. La fine, in particolare, non era mai prevista in una forma conclusiva.” (3)

 

(1) D.B. ELKONIN (2005) THE PSYCHOLOGY OF PLAY, Journal of Russian & East European Psychology, 43:1, 11-21, DOI: 10.1080/10610405.2005.11059245

(2) E.O. Smirnova & O.V. Gudareva (2015) Play and Intentionality Among Today’s Preschoolers, Journal of Russian & East European Psychology, 52:4, 1-20, DOI: 10.1080/10610405.2015.1184891

(3) Jean Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia, 1999, p. 204.

Panksepp ha voglia di giocare

Il libro di Panksepp non vale tant’oro quanto pesa. Di più. Molto spesso utilizza i dati scientifici di base per delle considerazioni su come affrontare i principali “malfunzionamenti” mentali dell’uomo, come depressione, rabbia e mancata felicità in genere. L’importanza di queste considerazioni non sta nella loro novità assoluta, ma nel fatto che sono fondate sulla conoscenza della struttura fisica del cervello che si è andata accumulando nelle ultime decine di anni. Non sono soltanto “valide impressioni”, ma punti di riferimento consolidati. Traduco qui l’ultimo spunto interessante che ho trovato:

“Come vedremo nel prossimo capitolo, la giocosità, che è la sorgente di uno dei più positivi sentimenti sociali-affettivi che la nostra mente possa generare, non è ancora sistematicamente o adeguatamente impiegata nei contesti psicoterapeutici. Ci sono sicuramente dei modi per rendere questo robusto affetto positivo un aspetto comune delle interazioni psicoterapeutiche. Dovremmo ricordarci la famosa idea di Norman Cousin’s (1983): che la risata potrebbe essere una delle nostre migliori medicine.”

Ma gli angeli giocosi, per essere tali, non dovranno prima imparare ad usare i coltelli contro i cani arrabbiati?

Testo originale in inglese:
“As we will see in the next chapter, playfulness, which is the source of one of the most positive social-affective feelings our brain can generate, is not yet systematically or well used in psychotherapeutic contexts. There are surely ways to make this robust positive affect a more common aspect of therapeutic intereaction. We may be wise to remember Norman Cousin’s famous idea: Laughter may be one of our best medicines.”

Da: The Archaeology of mind – Neuroevolutionary Origins of Human Emotions.
Jaak Panksepp e Lucy Biven