Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Nel novembre 2017 ho pubblicato un libro divulgativo sulle sette emozioni di base secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp (1943 – 2017), una delle quali corrisponde appunto al gioco. Da lì ho deciso di intraprendere una ricerca interdisciplinare sul modo in cui viene teorizzato il gioco. Dopo aver letto una serie di articoli appartenenti ad aree di studio molto differenti fra loro, penso di poter dire che vi sono due poli principali attorno ai quali si muove la teorizzazione del gioco. Uno di questi due poli è il gioco di lotta, diffuso in molti mammiferi fra cui l’uomo, ed esemplificabile facilmente con i cuccioli dei cani che si rincorrono e lottano alternandosi nei ruoli di sottomissione e dominanza. È essenzialmente questo il gioco a cui si riferisce la teoria dei sistemi emotivi di Panksepp. L’altro polo fondamentale degli studi sul gioco è il cosiddetto gioco di fantasia (in inglese pretend play). Uno studioso importante di questo soggetto è il russo Lev Vygotskij (1896 – 1934). Nel solco della tradizione psicologica che ha in Vygotskij il proprio riferimento (1) troviamo Daniil Elkonin (1904 – 1984), il quale ha sviluppato una descrizione del gioco di fantasia basata su quattro distinti livelli. Due studiose di area russa (E.O. Smirnova e O.V. Gudareva) hanno pubblicato nel 2015 un articolo in cui si impiegava questa distinzione in quattro livelli per valutare il grado di sviluppo del gioco di fantasia nei bambini in età prescolare (2). Lo scopo dell’articolo era comparare tale grado di sviluppo fra i bambini di oggi e quelli di alcuni decenni addietro. Il risultato è che al giorno d’oggi il livello di gioco di questi bambini appare meno sviluppato che in passato: “Dunque, sulla base dei risultati dell’osservazione, possiamo affermare che il livello di sviluppo del gioco tra i bambini in età prescolare è oggi molto inferiore rispetto ai loro omologhi a metà del secolo scorso. Solo alcuni bambini raggiungono una forma di gioco sviluppato (livello 4), soprattutto dopo i sei anni di età, dunque verso la fine del periodo prescolare. Questi dati sono essenzialmente in linea col punto di vista degli insegnanti degli asili nido e conferma il declino nelle attività di gioco dei bambini” (2, p.13).

Qui di seguito riporto una breve descrizione dei livelli di gioco basata sull’articolo di Smirnova e Gudareva.

LIVELLO 1 – Si usano soltanto giocattoli realistici. Vi sono delle sequenze, ma sono prive di una struttura fissa. I ruoli non sono predeterminati ma derivano dagli oggetti impiegati o dall’azione intrapresa. I bambini giocano da soli o vicini, senza che si creino gruppi ben definiti.

LIVELLO 2 – Le sequenze riproducono quelle delle azioni della vita quotidiana. Vi sono parole che indicano i ruoli, ma questi non sono ancora oggetto di discussione esplicita. Non vi sono ancora regole esplicite. I giocattoli non sono ancora scelti in anticipo. Iniziano le interazioni che originano gruppi piccoli e di durata limitata.

LIVELLO 3 – Il gioco consiste essenzialmente nel performare dei ruoli individuati già prima che il gioco cominci. I ruoli determinano le sequenze di comportamento, ed il bambino protesta se il comportamento non è conforme al ruolo. Emergono delle regole che vengono rispettate, anche rinunciando alla soddisfazione di altri desideri spontanei. I giochi sono scelti in anticipo. La narrativa si fa più complessa ed aumenta la durata del gioco.

LIVELLO 4 – Il focus del gioco si sposta sulle relazioni fra i ruoli, che sono definiti esplicitamente prima del gioco. Emerge una fase preparatoria. I gruppi divengono più durevoli.

P.S.

In Piaget si trovano dei riferimenti che potrebbero essere messi in connessione con questi 4 livelli del gioco. Si veda ad esempio questa osservazione: “Per quanto riguarda il simbolismo collettivo, limitiamoci a notare la maniera in cui J. ed L., continuando, a partire dai sette-otto anni, la loro collaborazione diventata sistematica (e non più episodica come al livello precedente) nei giochi di bambole e famiglia, sono giunte ad organizzare continuamente, per loro stesse e per T. (poi con T.), delle specie di “commedie” o rappresentazioni teatrali. All’inizio tutto era improvvisato e la commedia non consisteva che in un gioco simbolico collettivo con spettatori. Successivamente il soggetto veniva posto prima e discusso per grandi linee (a volte persino con preparazione dettagliata del principio), ma, una volta rappresentata la parte preparata, restava sempre un margine assai largo di sviluppi improvvisati. La fine, in particolare, non era mai prevista in una forma conclusiva.” (3)

 

(1) D.B. ELKONIN (2005) THE PSYCHOLOGY OF PLAY, Journal of Russian & East European Psychology, 43:1, 11-21, DOI: 10.1080/10610405.2005.11059245

(2) E.O. Smirnova & O.V. Gudareva (2015) Play and Intentionality Among Today’s Preschoolers, Journal of Russian & East European Psychology, 52:4, 1-20, DOI: 10.1080/10610405.2015.1184891

(3) Jean Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia, 1999, p. 204.

Panksepp ha voglia di giocare

Il libro di Panksepp non vale tant’oro quanto pesa. Di più. Molto spesso utilizza i dati scientifici di base per delle considerazioni su come affrontare i principali “malfunzionamenti” mentali dell’uomo, come depressione, rabbia e mancata felicità in genere. L’importanza di queste considerazioni non sta nella loro novità assoluta, ma nel fatto che sono fondate sulla conoscenza della struttura fisica del cervello che si è andata accumulando nelle ultime decine di anni. Non sono soltanto “valide impressioni”, ma punti di riferimento consolidati. Traduco qui l’ultimo spunto interessante che ho trovato:

“Come vedremo nel prossimo capitolo, la giocosità, che è la sorgente di uno dei più positivi sentimenti sociali-affettivi che la nostra mente possa generare, non è ancora sistematicamente o adeguatamente impiegata nei contesti psicoterapeutici. Ci sono sicuramente dei modi per rendere questo robusto affetto positivo un aspetto comune delle interazioni psicoterapeutiche. Dovremmo ricordarci la famosa idea di Norman Cousin’s (1983): che la risata potrebbe essere una delle nostre migliori medicine.”

Ma gli angeli giocosi, per essere tali, non dovranno prima imparare ad usare i coltelli contro i cani arrabbiati?

Testo originale in inglese:
“As we will see in the next chapter, playfulness, which is the source of one of the most positive social-affective feelings our brain can generate, is not yet systematically or well used in psychotherapeutic contexts. There are surely ways to make this robust positive affect a more common aspect of therapeutic intereaction. We may be wise to remember Norman Cousin’s famous idea: Laughter may be one of our best medicines.”

Da: The Archaeology of mind – Neuroevolutionary Origins of Human Emotions.
Jaak Panksepp e Lucy Biven