SINCRONICO E DIACRONICO

Chiavi di interpretazione del progetto uomo nella dimensione tempo.

INTRODUZIONE
ACCORDO E MELODIA
NARRATIVA E METAFORA
L’ASPETTO PROGETTUALE
AFFRONTARE LA NECESSITÀ
APPENDICE: DISCORSI SINCRONICI O DIACRONICI?

INTRODUZIONE

Sincronico e diacronico sono due concetti impiegati originariamente da Ferdinand De Saussure[1] per descrivere il modo in cui si studia il linguaggio. Il prefisso dia- indica attraverso, mentre crono è il tempo: una visione dia-cronica implica degli oggetti in viaggio attraverso il tempo. Il prefisso sin- significa con/insieme, e ci dice che gli oggetti del discorso sin-cronico avvengono insieme nello stesso tempo; una visione sincronica prende in considerazione le posizioni reciproche degli oggetti in un certo momento, senza considerarne il movimento.[2]

Prima di De Saussure era predominante un’analisi del linguaggio di tipo diacronico, fondata sull’esame del divenire storico degli elementi della lingua. Con De Saussure diventa lecito anche un altro approccio che parte dall’ipotesi di trascurare il processo di formazione del linguaggio avvenuto nel passato, proponendosi di descrivere le strutture del linguaggio soltanto in base alle relazioni in atto in un tempo presente.[3]

Diacronico è il tempo che scorre come un film raccontandoci una storia. Sincronica è la realtà disegnata dall’intuito in un’unica immagine fissa come una fotografia.

ACCORDO E MELODIA

La piacevolezza dell’accordo di DO maggiore è legato ai rapporti fra le frequenze delle tre note che lo compongono: Do, Mi e Sol. Per riconoscerlo è sufficiente sentire la sovrapposizione di questi tre suoni per una frazione di secondo. Nel caso della melodia invece abbiamo a che fare con una successione di note riprodotte una dopo l’altra. Immaginiamoci una melodia che venga ripetuta per sei volte, ogni volta con una variazione minima. Nel momento in cui sta per iniziare la settima melodia, la mente non è per così dire vuota, ma ha in sé l’aspettativa di una sequenza somigliante alle prime sei. Poniamo che la settima sequenza abbia un inizio simile alle altre, ma uno sviluppo differente. L’intuizione tenterà di completare tale inizio sulla base del modello costituito dalle prime sei melodie, ma si creerà una differenza fra questo tentativo di completamento e l’andamento reale. La mente ascoltatrice se ne accorgerà e interpreterà lo scarto come un fatto stilisticamente significativo.
Se avessimo suonato fin dall’inizio la settima sequenza senza farla precedere dalle altre sei, nell’ascoltatore non si sarebbe prodotta nessuna sensazione di differenza stilistica, in quanto non ci sarebbe stata l’aspettativa indotta dalle prime sei sequenze rispetto alla quale notare lo scarto.

La piacevolezza dell’accordo ha una natura sincronica in quanto risiede nella sovrapposizione istantanea di note, indipendentemente da quanto le precede o le segue. Il modo in cui valutiamo una melodia musicale implica invece delle dinamiche diacroniche, in quanto è collegato ai percorsi temporali con cui gli oggetti musicali giungono all’attenzione della nostra mente. Non solo ogni nota della melodia è valutata sulla base di quella che la precede, ma c’è un ulteriore livello in cui interi gruppi di note assumono significati diversi in base alla loro somiglianza con i gruppi precedenti.

Nel giro degli accordi[4] abbiamo un esempio di struttura artistica basata tanto sulla dimensione sincronica (l’armonia fra le singole note all’interno di un accordo) che su quella diacronica (la progressione degli accordi), strettamente interconnesse fra di loro nell’ambito del sistema tonale.

NARRATIVA E METAFORA

Prendiamo in considerazione la narrativa con cui si costruisce un racconto. Il suo nocciolo operativo consiste nell’aggiungere elementi alla struttura dei personaggi, siano essi persone, concetti o ambienti, avendo cura che quanto viene aggiunto possa assumere una funzione preparatoria di ciò che accadrà in seguito. L’attività costruttiva del narratore gestisce i percorsi dei personaggi nel tempo, ed opera quindi in modo naturale in una dimensione diacronica.

Anche in una poesia possiamo ritrovare una struttura narrativa, ma spesso la poesia preferisce affidarsi alla dimensione metaforica. La metafora è una sovrapposizione di concetti diversi, è un invito alla mente ad effettuare una comparazione, riconoscendo in che modo la struttura e le sottoparti di due concetti diversi siano corrispondenti. La metafora è una struttura sincronica nel senso che il suo effetto è simile a quello di un accordo di concetti, mentre è piuttosto evidente che la narrativa degli eventi ha una struttura che possiamo considerare affine alla melodia, la quale potrebbe forse essere chiamata narrativa delle note.

L’ASPETTO PROGETTUALE

I CRUSCOTTI

Mi ricordo di un aneddoto letto non so dove: c’era un giovane ingegnere che si occupava di progettare l’interno delle automobili. Aveva iniziato da poco a lavorare e disegnava dei cruscotti belli da vedersi ma troppo articolati e pieni di sottosquadri, scontrandosi con le esigenze della produzione e con la difficoltà di realizzare stampi complessi e costosi. Si lasciava guidare da un’idea sincronica dell’armonia estetica fra le parti della plancia, e trascurava la riflessione sui processi di produzione per mezzo dei quali la sua idea avrebbe potuto diventare una realtà.

I BRONZI DI RIACE

Siete un artista molto creativo con la testa fra le nuvole. A breve vi trasferirete al decimo piano in un palazzo del centro e vi state immaginando come potreste arredare il soggiorno. Nel mezzo della parete di sinistra verrà messo uno specchio di grandi dimensioni, mentre in quella di destra sarà posizionato un orologio bianco con i caratteri neri. Nel mezzo ci sarà un tavolo di cristallo su cui troverà posto una pianta grassa in un vaso opaco. State frugando nella mente in cerca del personaggio principale: un oggetto protagonista in grado di dare un senso alla stanza; qualcosa di classico e inaspettato al tempo stesso. Eccolo! La riproduzione a grandezza naturale dei Bronzi di Riace. Coi riccioli eleganti e gli occhi azzurri[5] a coronamento di quella massa imponente. Con la posa plastica che rivela un’aristocratica consapevolezza del corpo. Con quel sapore di Antica Grecia che rimane sempre intimamente connesso ad una visione profonda del futuro. E non sarebbe bello ridipingere le pareti alla ricerca del migliore abbinamento con la tonalità del bronzo?

Nel lasciarvi guidare dalle necessità estetiche della stanza avete ragionato in modo sincronico, pensando il vostro soggiorno come un oggetto di cui ottimizzare la bellezza, manipolandone gli oggetti d’arredo. Ma forse i Bronzi di Riace sono troppo grandi e pesanti per passare sia dall’ascensore che dalla tromba delle scale. Non basta immaginarseli nella collocazione finale, bisogna anche farsi un film nella testa simulando tutte le fasi intermedie che collegano la situazione desiderata con quella di partenza, che sono le copie dei bronzi consegnate al piano terra, ancora imballate, lì sul marciapiede.

AFFRONTARE LA NECESSITÀ

Le necessità del mondo fisico e del sistema economico-produttivo richiedono che l’uomo raggiunga risultati concreti nel rispetto di vincoli stringenti. Nel confrontarsi con tale esigenza la mente umana opera sia in modo sincronico che diacronico.
Sincronicamente la mente si lascia dominare da grandi ispirazioni che definiscono sia la visione da seguire sia i concetti da impiegare per descrivere il mondo. L’uomo sembra costruito appositamente per appassionarsi a queste architetture di idee in cui ogni parte ha il suo ruolo nei confronti delle altre. La costruzione della visione armonica avviene solitamente tralasciando la riflessione su come la si possa trasformare in realtà. Tale riflessione avviene in una fase successiva, quando la visione sincronica (per il semplice fatto di esistere nella mente) inizia a confrontarsi con gli eventi del quotidiano. Avviene allora il passaggio da una fase creativa ad una più organizzativa, e prende avvio la valutazione delle modalità di realizzazione del progetto nella dimensione diacronica delle cause e degli effetti, annodati come fili sottili attraverso la massa tormentata del divenire.

Nel migliore dei casi il risultato è la forma più alta dello spirito, che ha qualcosa di simile al giro degli accordi, il quale è dotato di una coerenza sia diacronica che sincronica. Ciò a cui mi riferisco è un nocciolo spirituale che percepisca sincronicamente la mente ed il mondo come un tutto nella magia del Qui ed Ora, ma senza venire travolto dal divenire economico, in quanto capace di impiegare le categorie e le procedure diacronicamente giuste per soddisfare le richieste del corpo, della società e dei processi produttivi. Una struttura spirituale che faccia fronte alle necessità economiche riuscendo a mantenersi estetica e musicale.

Nel bosco del tempo
pianifica i sentieri
degli oggetti necessari
alla visione realizzata.

APPENDICE: DISCORSI SINCRONICI O DIACRONICI?

Utilizzando i concetti di diacronico e sincronico si può avere la tentazione di chiedersi se un certo discorso sia diacronico oppure sincronico. Sono più propenso ad assumere un’attitudine differente, considerando la diacronia e la sincronia come due dimensioni che possono appartenere contemporaneamente ad uno stesso discorso, rendendolo più ricco. Le due domande corrispondenti a questi atteggiamenti differenti sono: “Questo discorso è sincronico o diacronico?” e “Quanto questo discorso è diacronico e quanto è sincronico?”.

Posizione del discorso fra il puro sincronico e il puro diacronico.

Fig. 1 Il modello geometrico sottinteso alla domanda: “Questo discorso è sincronico o diacronico?” Un eventuale aumento di argomentazione sincronica o diacronica provocherebbe uno spostamento a destra o rispettivamente a sinistra del cerchietto rosso che indica la posizione del discorso.

Il modello geometrico insito nella prima domanda è un segmento che ha per estremi il diacronico puro ed il sincronico puro. In questo modello l’aggiunta ad un discorso di elementi descrittivi diacronici o sincronici non porta ad un aumento visibile del valore del discorso, ma ad uno spostamento della posizione del discorso verso uno dei due estremi del segmento.

Area/Valore del discorso in base al contributo sincronico e diacronico.

Aumento di valore del discorso, per contributo di argomentazione sincronica.

Fig. 2-3 Il modello geometrico sottinteso alla domanda: “Quanto questo discorso è diacronico e quanto è sincronico?”. Nella seconda immagine è rappresentato l’aumento di valore del discorso conseguente ad un aumento di argomentazione di carattere sincronico.

Il modello implicito nella seconda domanda è invece un piano cartesiano le cui due dimensioni sono la sincronia e la diacronia. In questo caso l’aggiunta di nuovi elementi sincronici o diacronici all’analisi aumenta il corrispondente lato del rettangolo discorso e di conseguenza il suo valore, che considero equivalente alla sua area. In questo modo appare evidente l’opportunità di integrare in uno stesso discorso (cosa non semplice) sia elementi sincronici che elementi diacronici.
È del tutto ovvio che rappresentare in questo modo un discorso è una semplificazione che non rende giustizia della complessità intrinseca del linguaggio, ma quello che mi interessa è soltanto far notare come quella che può apparire una sfumatura da poco (la differenza fra le due domande che caratterizzano i modelli) può influenzare i giudizi di valore che presiedono allo sviluppo dei discorsi.

Se ti è piaciuto questo post, potresti trovare interessanti anche quelli dedicati al concetto di omeostasi e al concetto di fenomenologia.

_

Safe Creative #1207080641904

  1. [1]La sua opera più conosciuta, Corso di linguistica generale, è stata pubblicata postuma nel 1916.
  2. [2]Si tratta di concetti da utilizzare con una certa elasticità; ad esempio una visione sincronica si può concentrare sulle dinamiche che avvengono in una certa epoca storica trascurando il modo in cui essa si è originata dalle precedenti. In tal caso l’espressione “senza considerarne il movimento” si riferisce al movimento fra epoche storiche differenti, non al brusio dei fatti quotidiani che avviene all’interno di una singola epoca, e che può a pieno titolo rientrare in un discorso sincronico.
  3. [3]De Saussure ha introdotto una metafora nella quale paragona il linguaggio ad una partita a scacchi: ogni configurazione del linguaggio è come una configurazione della scacchiera, che può essere esaminata indipendentemente dalla sequenza di mosse che l’ha prodotta.
  4. [4]A titolo di curiosità, il giro degli accordi è stato messo a punto nel Seicento in Europa. “Mentre in una polifonia cinquecentesca l’organizzazione melodica era predominante nel senso che la sovrapposizione delle varie melodie doveva semplicemente aver cura che le armonie derivate fossero formate di accordi «legittimi» (cioè fondamentalmente di intervalli consonanti), nella nuova organizzazione tonale le sequenze dei giri armonici hanno invece un’importanza strutturale primaria e la melodia ne deve tener conto e deve adattarsi ad esse.” Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay 1988, Storia della musica, Torino, Einaudi, Piccola Biblioteca Einaudi 25, Nuova serie. Pag 149.
  5. [5]Nelle copie che mi sono immaginato gli occhi sono azzurri. Negli originali le cornee sono andate perse.

LA DANZA DEL QUI ED ORA: UN PARADISO TASCABILE

IL CONTESTO GRIGIO
LA ZONA DEL COLORE

IL CONTESTO GRIGIO

Il nostro pensiero è l’arte di organizzare quello che vediamo in funzione di un obiettivo, ma quello che noi vediamo è drammaticamente poco rispetto al brusio assordante del divenire che impazza dappertutto nel mondo, negli uffici e nelle menti, sugli schermi, nelle fabbriche e nelle atmosfere.

Noi pensiamo di sapere come andranno le cose e ce ne facciamo un’immagine nella testa. Ma il resto del mondo non si organizza per compiacere le nostre aspettative. C’è una natura intrinseca nelle cose che procede con le sue logiche indifferenti ai nostri programmi. E soprattutto ci sono le intenzioni degli altri uomini, contrapposte alle nostre.

Le maglie del ragionamento si allargano nel tentativo di avvolgere le conseguenze e le condizioni dei processi produttivi, ma non si può tenere conto di tutto. Basta aspettare, ed arriva sempre qualcosa che non era previsto e ci costringe a cambiare il pensiero per adeguarlo al mondo. Le nostre aspettative sono un cristallo che andrà in frantumi negli ingranaggi insensibili del divenire.

C’è qualcosa di perverso nel modo in cui l’uomo si innamora dei suoi progetti sul mondo, che nascono con tanto entusiasmo ma poi incastrano in sé stessi il medesimo uomo che li aveva amati, rendendo triste il suo ragionare. La società funziona per mezzo di questa perversione al cui meccanismo è difficile sfuggire.

Ma se il ragionamento sul mondo è divenuto triste, allora il pensiero ha bisogno di un luogo a parte dove dimenticarsi del mondo. Se la società è una foresta alta dove non penetra la luce, noi cerchiamo una radura che sfugge alle ombre per ritrovare il cielo. Noi ce ne andiamo dal futuro per restare nel presente, abbandoniamo il resto del mondo per guardare solo a queste case, ci distogliamo dalle parole delle persone ritraendoci nell’interno che non parla.

Aries Tottile diceva che se l’uomo è ragione, allora il bene dell’uomo è l’esercizio della ragione; ma l’uomo è anche e soprattutto corpo. Accantonare il ragionamento guasto per dare spazio al corpo può essere la strategia migliore per poi tornare ad un ragionare che prenda le mosse da ambienti del pensiero più puliti.

Spesso la volontà che organizza l’azione per raggiungere gli obiettivi finisce per creare una sorta di cortina fumogena tra noi ed i nostri movimenti, che vengono compiuti senza essere vissuti. Ma una volta che ci siamo lasciati alle spalle i ragionamenti andati a male, l’azione si può liberare dalla schiavitù dei risultati e le diviene accessibile quel tanto di sacro che è insito in ogni movimento.

Ecco, sto smettendo di alimentare i pensieri dei progetti e degli obblighi in società. Lascio che le immagini del lavoro, delle persone e delle notizie diventino sbiadite. Dopo aver parcheggiato l’attenzione nell’ascolto del respiro, osservo con la coda dell’occhio i pensieri del giorno che continuano a germogliare. Ma se io mi trattengo e non li guardo, se io non li raccolgo, loro ritornano sott’acqua come un delfino che dopo essere uscito nell’aria ricade. E anche se ci sono attorno a me delle persone, no, non è vero: quelle persone non ci sono, sono solo creature in periferia che non sono interessate a quello che sto facendo, e nemmeno possono vederlo.

Se prima la ragione inviava l’ordine di muoversi per mezzo di telegrammi, adesso ascolta quello che il corpo ha da dire. È il momento dell’aderenza, dell’attenzione che si diffonde nei volumi della carne, nei muscoli grandi delle braccia e delle gambe ma anche in quelli minuscoli i cui nomi sono conosciuti dai medici soltanto. È il momento per accogliere il suono ordinato in ritmi ed armonie di note sovrapposte: la musica, l’allenatrice del corpo e del pensiero.

LA ZONA DEL COLORE

Tra le foglie di una pianta lo sguardo dell’uomo indaga nella speranza di un frutto, e quando si trova di fronte ad un volto lo interpreta disponendolo attorno agli occhi. Allo stesso modo la mente desidera trovare i punti polari della struttura musicale, e quando pensa di averne trovato uno, lo mette alla prova afferrandolo con il capitano di tutti i gesti: il piede che incontra il pavimento.

Ogni volta che il gesto indovina il tempo, l’energia non cala per il lavoro compiuto ma aumenta con la solidità della sensazione musicale. E se le gambe giocano bene, poi l’anima dell’ispirazione prende possesso anche del tronco, delle braccia, e delle mani; fino alle articolazioni delle dita. La struttura corpo è messa al servizio della struttura musica, come fosse un burattino dalle molteplici possibilità, ed ai gesti semplici che battono i tempi forti seguono montaggi più articolati.

Nei film d’avventura ci sono delle mattonelle segrete, e quando qualcuno per sbaglio le calpesta scattano le trappole infernali e crollano i palazzi. In questo video-real-game invece c’è un punto G segreto del cemento che si muove sotto il pelo della superfice come i grandi vermi nelle sabbie di Dune, e quando tu riesci a seguirlo con i passi, il pavimento prende vita e diviene un animale da cavalcare. Quando ne perdi le tracce ti devi fermare, immobile come una statua silenziosa, in attesa che l’intuito ne ritrovi la posizione.

Ma non siamo in un laboratorio teatrale del novecento, e non è un atleta quello che sta ballando, preoccupato di muscoli più resistenti per balzi più potenti. È un cittadino del triste impero che di professione fa qualcos’altro, ed usa con affetto il corpo che ha a disposizione per suonare lo spartito, senza arrabbiarsi per i limiti del suo strumento. Non è l’intensità della prestazione fisica che comanda in questo gioco, ma la sintassi delle parole movimento di cui il regista interiore dispone. E là dove la fatica si fa sentire, il cittadino danzante interpone pause immobili o diminuisce oltremodo l’intensità di ogni gesto, fino a lasciarne solo un cenno del capo o dello sguardo. Ma non rinuncia mai ad infatuarsi per le lucciole che si accendono nel triangolo magico fra il corpo, la mente ed il suono organizzato.

Il manuale dell’uomo ci insegna una danza per costruire il regno del Qui ed Ora, dando così un senso all’impresa di affrontare l’altrove che ci viene contro nei giorni. Non è un ballo per piacere allo sguardo di una platea; è una forma di bellezza che non viene osservata da quelli che stanno fuori, ma da quell’unico[1] che sta dentro.

[fb_like]

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

  1. [1]Una precisazione: non ho utilizzato questa espressione per indicare la fede in un io monolitico, che al contrario percepisco come molteplice. Credo che la convenzione dell’io grammaticale unitario sia un metodo liberamente utilizzabile a seconda delle occasioni. In questo caso si può considerare tale unico come il punto mentale in cui sta per formarsi l’ispirazione, non comandata da un ordine ma invitata da un’attesa.

LA NASCITA DI UNA RELIGIONE: IL SAPERE, IL CONTESTO E LA TRASPARENZA

LA CONTABILITÀ, LA FILOSOFIA E GLI OROLOGI DI CRISTALLO

Antefatti contabili: l’ignoranza del contesto

Quando ho iniziato a lavorare nell’ufficio acquisti non conoscevo ancora nulla della contabilità. Mi limitavo a girare al commercialista le fatture acquisti con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza dell’IVA. Non avevo un’idea precisa dei percorsi in cui gli impiegati contabili incanalavano i documenti. Se si parlava di Dare e di Avere potevo seguire il ragionamento per un paio di frasi, ma poi non capivo più la direzione dei crediti e dei debiti. Sapevo che c’era una lista di tutti i conti che si chiamava appunto piano dei conti, ma ne conoscevo soltanto poche voci appartenenti alla sezione dei costi; più precisamente le righe che in tale sezione stanno più in alto, quelle relative agli acquisti delle materie prime che ero abituato a gestire. Già le suddivisioni fra i diversi tipi di servizi mi rendevano diffidente, e sapevo che andando più sotto c’erano cose strane come i costi indeducibili, gli oneri straordinari e le minusvalenze. Per non parlare dei ratei e dei risconti: non mi ricordavo mai quali riguardavano i ricavi oppure i costi.

Dopo un paio di anni dal mio ingresso in azienda è venuto il momento di portare all’interno la gestione della contabilità (prima, come ho già accennato, era tenuta dallo studio del commercialista). Ciò è successo in contemporanea all’acquisto di un server AS400, e sono stato io a gestire entrambe le novità, cogliendo l’occasione per fare pratica con i conti. Eravamo a metà degli anni ’90 e non c’era Google a darmi una mano; ho imparato la materia confrontandomi con il programmatore del software contabile e, ovviamente, col commercialista. Nel giro di alcune settimane ho iniziato a capire la differenza fra il Dare e l’Avere che avvengono nello Stato Patrimoniale piuttosto che nel Conto Economico, e in alcuni mesi mi sono abituato a muovermi fra le insidie del giro degli effetti e delle operazioni di fine anno. Adesso registro normalmente bolle doganali, buste paga di fine rapporto e fatture d’acquisto con gli assoggettamenti IVA più diversi. Diciamo che ne so abbastanza per valutare le competenze di un’impiegata contabile in un colloquio d’assunzione.

La consapevolezza del contesto e la natura del cristallo

C’è stato un tempo in cui prevaleva l’ignoranza e la contabilità era per me soltanto un fastidio, un indirizzo a cui mandare le richieste e da cui attendere le risposte. Vedevo quello che vi entrava e quello che ne usciva senza capire il collegamento tra input ed output. L’ignoranza della materia mi portava a volte a sottovalutarne la complessità o, al contrario, a temerne eccessivamente le conseguenze. Dietro a quella parola c’era nella mia mente un aggregato di punti di vista esterni, non una struttura di pensieri pertinente alla realtà che essa indicava.
Successivamente ha avuto luogo un’esperienza per mezzo della quale si è formata una solida consapevolezza del contesto, e oggi, di fronte alla pezza giustificativa dell’operazione di banca, non rimango più fermo a pensare: passo subito a registrarla in prima nota. Quando spuntando l’estratto conto trovo qualcosa che non quadra ho già in mente dove può essere l’origine del problema, e so come verificarlo. Se prima la contabilità era il nome di un bosco di cui non conoscevo i sentieri, oggi è un dominio al cui interno posso vedere come se fosse un orologio di cristallo nel quale distinguo i meccanismi in movimento.

Col passare dei mesi e degli anni ho preso dimestichezza anche con altri contesti all’interno dell’azienda, scoprendo orologi di cristallo nell’ufficio commerciale e in produzione, nella gestione delle risorse umane e nelle questioni più strettamente tecniche. Al di fuori dell’ambiente di lavoro ho trovato orologi di cristallo nei comportamenti delle donne, nei discorsi dei politici e naturalmente negli esami universitari.

La trasparenza come stile di vita

Con l’esperienza e lo studio la massa diviene trasparente; ogni lavoro è una coltivazione che evapora il terreno lasciando visibili le vene aurifere della conoscenza. La terra è soltanto temporanea. La vista degli occhi ci insegna le superfici opache, ma noi preferiamo cercare gli orologi di cristallo. La trasparenza diventa una religione, compatibile con il contesto produttivo e capace di condurci nelle province più colorate del Qui ed Ora.[1]

Certo, non basta sapere che i contesti sconosciuti possono essere imparati a farli diventare trasparenti, ma possiamo creare i presupposti perché ciò avvenga più facilmente, cambiando l’attitudine della mente con l’aspettativa di un mondo trasparente. La differenza sta nel renderci conto che ogni sostanza opaca è soltanto il punto di partenza per scoprire al suo posto una ragnatela impalpabile di relazioni. Cambia l’atteggiamento nei confronti della massa che smette di costituire una barriera allo svolgersi del pensiero, i cui sentieri si diramano in ogni direzione come le scale di Escher. Gli oggetti diventano reti di percorsi e il mondo si risolve nei movimenti di un pensiero luminoso e senza ombre.

[fb_like]

MyFreeCopyright.com Registered & Protected

  1. [1]La relazione fra la trasparenza e la godibilità dei Qui ed Ora è un tema da approfondire. Qui mi limito ad un esempio: nel momento in cui la conoscenza di un contesto è progredita a sufficienza è possibile vivere tale contesto localmente senza andare a verificare che i risultati siano adatti alle richieste del contesto globale, poiché si sa già che l’output soddisfa le aspettative. In soldoni: se impari a fare abbastanza bene i tuoi compiti, poi potrai appassionarti al tuo lavoro, perché saprai in anticipo che i risultati saranno buoni e non ci sarà nessuno che verrà a romperti i coglioni per i tuoi errori.

LA MORTE DELL’AUTORE: NON SOLO LETTERATURA

RIFLESSIONI SULLO SCRITTO DI ROLAND BARTHES
[1]

LA CHIUSURA DELLE POSSIBILITA’

Roland Barthes

Roland Barthes

Il pensiero dell’individuo è aperto a molteplici possibilità che le parole scritte possono evocare o allontanare. Se immaginiamo il pensiero del lettore come la grande luce piena di un riflettore, allora ogni lettura è un foglio nero in cui sono aperti degli spazi, e dopo aver messo il foglio davanti alla luce, solo una parte dei pensieri rimane possibile. Cambiare lettura equivale a cambiare il foglio che mettiamo davanti alla luce. Scrivere un’interpretazione invece, significa mettere un secondo foglio in aggiunta al primo; i pensieri che rimarranno possibili saranno molti di meno, solo quelli che troveranno la coincidenza fra le aperture del primo foglio e quelle del secondo. È in questo modo che l’interpretazione di un’opera può chiuderne gli orizzonti, diminuendo le possibilità di intenderla. In questo senso, chiudere un testo non è in sé né male né bene. Se ci piacciono le possibilità rimaste aperte allora saremo felici di averle rese più evidenti, e viceversa.

Un funzionario del potere competente e dotato di una visione di lungo periodo si preoccuperà di favorire visioni del mondo coerenti con i propri interessi, scegliendo le interpretazioni compatibili con i pensieri amici. E il critico letterario sarà benvenuto presso le parti politiche di cui condivide il sistema di valori. Barthes, che non ha simpatia per “il sistema”, assume una posizione che contrasta con questo stato di cose.

Non saprei dire se le premesse storiche utilizzate da Barthes sono sufficienti a sostenere il suo ragionamento o se sono valide soltanto come un’introduzione, ma anche con questi dubbi riguardanti le radici della sua riflessione è possibile vederne chiaramente l’effetto: la morte dell’autore funziona come uno slogan per disconnettere il passato dell’autore dal tessuto del testo, al fine di contestare la critica e di favorire una lettura sincronica.[2]
La critica letteraria che Barthes prende di mira produce infatti delle interpretazioni di tipo diacronico[3]: essa riconduce il valore dell’opera letteraria alle dinamiche del passato che l’hanno generata, con un percorso a ritroso che risale dallo scritto fino alle presunte intenzioni dell’autore. Dunque, se il terreno su cui pascola il critico sono i percorsi del passato e la volontà dell’autore, ecco che Barthes costruisce uno scriptor dotato soltanto di un Qui ed Ora e privo di intenzioni, una sorta di nuda capacità procedurale. Facendo morire l’autore, Barthes rompe il giocattolo della critica.

UN’ATTITUDINE MENTALE

Al di là delle premesse e delle conseguenze della morte dell’autore, vale la pena compiere alcune osservazioni sul modo in cui essa si struttura. L’eliminazione dell’autore viene anzitutto articolata come rifiuto del tempo precedente alla scrittura durante il quale l’autore concepisce l’opera, e facendo coincidere l’esistenza dello scriptor con l’atto dello scrivere.

L’autore, quando gli si crede, è sempre concepito come il passato del suo libro: il libro e l’autore si posizionano automaticamente su di una singola linea divisa in un prima ed un dopo.[4]

In contrasto completo, il moderno scriptor nasce simultaneamente col testo, non è in alcun modo fornito di un essere che precede lo scritto o si estende oltre di esso, non è il soggetto con il libro come predicato; non c’è altro tempo di quello dell’enunciazione, ed ogni testo è eternamente scritto qui ed ora.[5]

Questa enfasi posta sul momento dello scrivere può anche produrre un certo entusiasmo nel lettore, il quale può proiettare sé stesso in una modalità scrivente che sfiora la dimensione del sacro, ma l’eccitazione è destinata a scemare quando vediamo Barthes ridurre le capacità dello scrittore ad una mera ricombinazione di un patrimonio di elementi preesistenti, privandolo esplicitamente di ogni emotività personale.

Il suo unico potere è di combinare le scritture, contrapponendo le une alle altre, in modo tale da non rilassarsi su nessuna di esse.[6]

Successore dell’autore, lo scriptor non porta più con sé passioni, umori, sentimenti, impressioni…[7]

Barthes è abile a prepararne l’entrata in scena, ma il concetto di scriptor è insostenibile là dove viene confrontato con la complessità storica dell’individuo reale che ha prodotto l’opera. Il rifiuto della durata temporale può attribuirsi (forzando un po’ la mano) al solo momento di definizione delle esatte parole che costituiscono il testo, ma non all’intero processo di creazione dell’opera, che tra l’altro vede l’autore divenire lettore di sé stesso al fine di compiere una validazione o un’autocritica. Nel processo di messa a punto del dispositivo letterario l’autore non può essere considerato indipendente dalla propria storia. L’unico modo di avere uno scriptor verosimile è intenderlo come una sottoparte dell’autore reale, come una sorta di microclima mentale caratteristico del momento dello scrivere.

La morte dell'autore

La morte dell’autore

ALLEGGERIMENTO E APERTURA DEL SOGGETTO

Leggendo l’articolo di Barthes si percepisce un’esigenza di maggiore impersonalità; questo termine può essere inteso come la sostituzione di un Io monolitico e ingombrante con una creatura molteplice e sfuggente. In conseguenza di ciò l’autore non entra più a gamba tesa nello scritto, ma con mano leggera si occupa di manovrare una varietà di meccanismi che daranno luogo alla bellezza del tessuto di parole, accompagnato dalla consapevolezza della propria specifica identità acquisita con l’esperienza.
Ma nello scritto di Barthes intravedo una versione perversa dell’impersonalità che ci chiede di gettare via la nostra storia, sia in qualità di scrittori che di lettori. Si tratta di una richiesta a cui difficilmente si può dare una risposta positiva.

UN RESIDUO CHE NON SI PUO’ ELIMINARE

Esponendo il concetto di morte dell’autore, Barthes sostiene che le storie narrate sono altro dalle storie vissute dall’autore, e che la linea principale di narrazione non è aderente al vissuto dell’autore. Di conseguenza considera inconsistente la pratica con cui il critico letterario decifra la linea narrativa riconducendola a tale vissuto.
Ma anche se non c’è un trasferimento diretto delle storie dell’autore dentro il testo, deve comunque esserci una specificità dell’autore che passa nell’opera, altrimenti gli autori sarebbero banalmente uno uguale all’altro. Quindi, a rigore, sussiste sempre la possibilità di impostare un’interpretazione dello scritto che risalga ai tratti specifici delle sue origini.

DOVE STA IL PROGRESSO

Complessivamente la morte dell’autore mi appare come una questione controversa[8]. Come lettori, il migliore uso che possiamo fare di questa immagine è intenderla come un invito a mettere temporaneamente da parte le cause del passato, simboleggiate dall’autore. Così facendo si pongono le condizioni per perdersi nel presente, interpretando lo scritto in base alla relazione tra le parti, evitando di riferirsi ad un altrove. Questo modo di dare fiducia al testo favorisce la creatività nella misura in cui la riflessione opera su strutture di cui dispone pienamente, non interrotta dalla necessità di effettuare delle ricerche nelle tracce del passato per verificare le linee causali. Lo svantaggio, ovvio, è che si rinuncia a certificare ed arricchire l’analisi con il contenuto di informazione presente nel passato.
Per come la vedo io, il progresso consiste nel trovare i fattori qualitativi in grado di indicare quando è necessario interrompere l’analisi sincronica per passare ad una verifica diacronica. Desiderosi di compiere immersioni nelle varie località del Qui ed Ora, abbiamo bisogno di un metodo che ci indichi il momento giusto per tornare nel contesto globale della Storia.[9] [10]

[fb_like]

NOTA BIOGRAFICA

Roland Barthes

Roland Barthes

Roland Barthes nasce in Normandia, nel nord della Francia, il 12 Novembre 1915. Il padre muore in guerra l’anno successivo, e la madre Henriette lavora come rilegatrice di libri per mantenere la famiglia. Roland si laurea alla Sorbona in letteratura classica e poi in grammatica e filologia. Passa diversi anni in alcuni sanatori per via della tubercolosi. Nel 1953 pubblica “Il grado zero della scrittura” e nel 1967 “La morte dell’autore”. Nel 1970 pubblica “S/Z”, un’analisi di “Sarrasine”, una novella di Balzac. L’ultimo libro prima della morte è “La camera chiara”, sulla fotografia, del 1980. Roland Barthes era legatissimo alla figura della madre; era gay, protestante, interdisciplinare, contro il sistema.

 

  1. [1]Questo documento contiene le mie riflessioni a riguardo del testo di Roland Barthes: “The Death of the Author”, del 1967. Mi sono riferito alla versione in inglese di cui riporto i riferimenti: “Image, music, text” 1977 Pagg 142-148 editore: Fontana, Londra – ISBN/ISSN: 0006861350 – Traduzione in inglese di S. Heath. Il pdf si trova a questo indirizzo: http://smile.solent.ac.uk/digidocs/live/Furby/Text/Barthes.pdf. Le citazioni in italiano sono una mia traduzione dall’inglese.
  2. [2]Che esamina il presente senza fare ricorso agli avvenimenti del passato e quindi al divenire.
  3. [3]Estese nel tempo: che prendono in considerazione il presente in base a come si è creato a partire dal passato.
  4. [4]“The Author, when believed in, is always conceived of as the past of his own book: book and author stand automatically on a single line divided into a before and an after.”
  5. [5]“In complete contrast, the modern scriptor is born simultaneously with the text, is in no way equipped with a being preceding or exceeding the writing, is not the subject with the book as predicate; there is no other time than that of the enunciation and every text is eternally written here and now.”
  6. [6]“His only power is to mix writings, to counter the ones with the others, in such a way as never to rest on any one of them.”
  7. [7]“Succeeding the Author, the scriptor no longer bears within him passions, humours, feelings, impressions…”
  8. [8]Io ad esempio, in quanto autore, non sono molto disposto a suicidarmi.
  9. [9]È chiaro che il movimento fra la Storia e le località del Qui ed Ora si verifica molte volte, non si tratta di un singolo evento isolato.
  10. [10]Questo ragionamento è stato introdotto in riferimento al ruolo di lettore, ma non si esaurisce con esso.