Il mio cliente vuole un’illustrazione per un articolo. Dev’essere chiara ma senza cadere nel banale; non la trovo. L’articolo parla di bambini in un contesto di genitori separati, ed io sto collezionando bambini tristi e piangenti, illuminati o nella penombra, seduti da soli o strattonati dai genitori… Il foglio ed il pensiero si riempiono di immagini che sgomitano per un posto senza portarmi oltre. Le mie “creazioni” diventano una piccola folla che mi assedia col fastidio. Mi trovo incastrato fra la necessità di un’ispirazione e l’impossibilità di allungare la mano per prenderla. Più cerco di afferrarla e più lei mi sfugge.
Parlando dei suoi animali Konrad Lorenz faceva notare che il gioco può avvenire in situazioni in cui il pericolo è assente e la pancia è piena: quando non ci sono questioni importanti ed immediate da risolvere. Ma l’appuntamento con il mio acquirente è esattamente questo, e sembra impedire le condizioni del gioco creativo che esso stesso richiede.
È chiaro che l’accanimento sull’obiettivo non favorisce la nascita dell’immagine, ma nemmeno posso starmene a braccia incrociate a farmi prendere in giro da uno stupido orologio. Quale lavoro posso compiere per avvicinarmi all’ispirazione sotto vento, senza farla scappare? L’immagine buona sembra arrivare quando ne ha voglia lei, ma ci dev’essere nel retroscena dei pensieri una situazione favorevole alla sua nascita. Dev’esserci da qualche parte fra conscio ed inconscio un’idea della struttura che devo illustrare, che fornisca materia prima alla magia dei neuroni per potersi incamminare verso il punto G della creatività.
Dunque smetto di disegnare i bambini, e inizio a scrivere da dove sono venuti e dove andranno, dimenticandomi il loro aspetto. Lascio che si cancellino tutte le immagini che prima avevo collezionato, perché avevano assorbito il sudore dello sforzo con cui erano state concepite, e l’odore non era buono. Intervisto il soggetto dei miei quadri e ne racconto in parole il passato e il futuro, saltando di palo in frasca o scendendo nei dettagli che non finiscono mai, inventando di sana pianta oppure mescolando le mie esperienze alla fantasia. In questo modo posso dare sfogo alla tensione con un lavoro che mi avvicina al risultato. I nessi causali delle storie sedimentano in qualche luogo nascosto del pensiero, popolandolo di semi dai quali attendo un germoglio, in occasione del quale tornerò dal mondo delle parole a quello delle immagini.
Quando insistevo a cercare direttamente l’ispirazione nel campo delle immagini, le creazioni che funzionavano male[1] mi chiedevano aiuto perché io trovassi il guasto e le rendessi valide. Così ogni figura che non fosse quella giusta mi appesantiva e finiva per essere un danno. Adesso che mi sono spostato nel campo delle parole tutto ciò che costruisco non è nulla e non mi appesantisce, scivola via senza rimpianto perché non è quello che cerco.[2]
Ma in realtà questo flusso di parole non è soltanto un nulla, esso è anche la cura di qualcosa che io ancora non vedo; come c’è una danza per la pioggia ce n’è una per le immagini, e le parole sono le gocce per dimenticarle e poi ritrovarle.
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- [1]Tutte tranne l’ultima: quella buona che interrompe la ricerca.↩
- [2]Ovviamente la differenza tra la dinamica delle immagini e delle parole non è dovuta alla loro natura intrinseca, ma al fatto che le prime costituiscono il campo di destinazione finale, mentre le seconde costituiscono un campo intermedio.↩