SEI GIORNI A XIAMEN, CINA
Ho preso d’urgenza un volo verso la Cina per fare assistenza tecnica presso un nostro cliente di Xiamen, una città situata sulla costa nella parte meridionale del paese. Xiamen ha vinto il premio di città più pulita della Cina ed è considerata una località turistica. Insieme a me c’è un ragazzo di venticinque anni, un simpatico bergamasco introverso di nome Roberto.[1] Nell’area del ritiro bagagli facciamo subito la prima conoscenza: Giuliana. Anche lei è bergamasca, e lavora qui per controllare le produzioni di un’azienda italiana di abbigliamento. Le chiediamo dove si trova l’ufficio cambi più vicino, ma in questo aereoporto non c’è: ci conviene andare alla Bank of China che si trova nello stesso edificio del nostro albergo, di fronte al palazzo dove abita lei. Nel dirci queste cose continua a camminare a passo svelto; noi le corriamo dietro e saliamo in taxi insieme a lei che litiga in cinese col tassista, il quale vorrebbe farle pagare 10 yuan[2] in più per mettere le valigie anche sul sedile anteriore; le spostiamo dunque nel bagagliaio. Facciamo un po’ di fatica, perché sono piene di pezzi di ricambio e pesano molto. Giuliana è una bella donna di poco sopra i trent’anni, le piace vestirsi in modo appariscente, ha studiato lingue a Venezia ed è venuta per la prima volta in Cina nel 2001, perché già allora si faceva fatica a trovare lavoro in Italia. Torna normalmente a casa ogni sei mesi, ma quello di adesso è un viaggio aggiuntivo fatto per portare dei campionari urgenti. Parla benissimo il cinese. Ha un carattere deciso, ed una volta ha fatto piangere un tassista del posto che ha cercato di raggirarla. Non esce molto per divertimento, ma ha la fissa della palestra e segue una dieta di proteine ricca di carne. I tratti del suo viso sono particolari e non viene quasi mai identificata come italiana; più facilmente come sudamericana.
Il viaggio dall’aereoporto all’albergo dura una ventina di minuti e ci da modo di prendere il primo contatto con la città. Ci sono alcune strutture molto moderne, rivestite in vetro, mescolate a molti palazzi visibilmente più datati; sono molti gli edifici in costruzione. La temperatura è alta, l’aria è umida, e le nuvole coprono il sole.
I facchini dell’albergo sono sorpresi dal peso delle valigie e per portarle dentro prendono un carrello. Al check in ci immobilizzano 500 euro sulla carta di credito; la spesa per cinque notti in stanza doppia sarà di 370 euro.[3] Ci troviamo in una zona centrale di Xiamen, e dopo aver sistemato le camicie mi viene voglia di uscire a far due passi. Il mio compagno di viaggio prova meno attrazione di me per l’esplorazione della società circostante, e rimane in stanza a dormire. Appena sono uscito vado in banca a cambiare 400 dollari in valuta locale,[4] per poi incamminarmi verso la passerella pedonale che scavalca la strada di fronte all’albergo, andando in direzione del palazzo dove abita Giuliana. Per terra c’è bagnato, e un pulviscolo umido sospeso nell’aria si colloca a metà strada fra la nebbia ed una pioggerella leggera. Nelle strade c’è gente, e si trovano diversi negozi aperti anche se è domenica. Di scritte in inglese ce ne sono davvero poche, praticamente solo i nomi delle aziende ed alcuni indirizzi internet.
Tornato in albergo trovo Roberto che si lamenta e vorrebbe già essere di ritorno. Siamo al diciottesimo piano e un lato della camera è occupato per tutta la larghezza da una finestra; ci sono alcune scritte cinesi incise nella pellicola oscurante che ricopre i vetri. Roberto è seduto sull’ampio davanzale interno e sta fumando nervosamente. Sul comodino c’è un gadget di cartoncino con una parte rotante simile al disco orario che si usa nei parcheggi; serve ad indicare le condizioni meteo previste per il giorno dopo. Sul tavolo c’è un piatto con tre frutti: una mela e una pera completamente senza sapore ed una banana dal gusto accettabile. Leggendo le istruzioni del televisore capisco che ci dovrebbero essere un paio di canali in inglese oltre a quelli in cinese, ma non ho voglia di cercarli. Nel bagno manca lo spazzolone del gabinetto, ma questo non è un problema, perché il livello dell’acqua è tenuto alto ed impedisce l’impatto fra la ceramica e qualsiasi oggetto che potrebbe sporcarla. Non mi sono portato l’asciugacapelli, ma ne trovo uno in un sacchetto di velluto nero col nome dell’albergo. Le prese elettriche sono adatte ai nostri apparecchi e non ci serve quindi nessun adattatore, il wifi è disponibile e c’è anche un collegamento internet via cavo. Youtube e Facebook sono inaccessibili, mentre Google funziona bene, come pure Skype, che nei giorni successivi sarà il principale mezzo di comunicazione con l’Italia.
Verso le otto di sera scendiamo al piano terra per mangiare nel ristorante dell’albergo. Io voglio provare la cucina locale: ordino dei broccoli fritti ed un piatto che dalla foto assomiglia ad uno spezzatino di carne. Mi va male con entrambi; i broccoli sono lessati anziché fritti, e lo spezzatino è fatto di tofu, un’entità insapore tagliata in cubetti e con la consistenza di una gelatina leggermente soda, per di più piccante. Dopo tre pezzi di tofu alzo bandiera bianca e mi ritiro sul piatto di cavolfiori, che se non altro riesco a mangiare senza nausea. Il mio collega bergamasco invece se l’è cavata con un sandwich di cui mi ha offerto un pezzo. Seduto accanto a noi c’è un gruppo di cinesi. Dal loro tavolo sentiamo provenire dei risucchi e qualche rutto che in Italia potrebbero essere motivo d’imbarazzo, ma che loro inseriscono con naturalezza fra le parole.
Lunedì mattina viene a prenderci un’auto mandata dal cliente, e facciamo la conoscenza con Susan, il nostro contatto cinese. Non è molto alta, porta gli occhiali, i capelli sono neri, lisci, tagliati a caschetto. Naturalmente parla anche l’inglese, anche se non benissimo, ed è molto cordiale nei nostri confronti. La nostra destinazione non si trova nell’area cittadina di Xiamen, che è un’isola, ma nell’entroterra; per raggiungerla ci vuole mezz’ora. All’arrivo siamo sorpresi dall’edificio: è imponente ed ha l’aspetto di un moderno centro commerciale; ha otto piani e vi lavorano duemila persone, di cui soltanto una ventina circa non sono cinesi.
Dopo la mattinata di lavoro veniamo accompagnati in una mensa dedicata agli stranieri e alla dirigenza; ci sono cinque vassoi caldi con pietanze vicine ai gusti occidentali. La mia preferenza va ad un’insalata di pollo e ad uno spezzatino di carne bianca con sugo di pomodoro, metre Roberto prende un altro panino e delle patate fritte. Al nostro tavolo si siede un uomo anziano di origine canadese che deve essere informato della nostra presenza in azienda, perché ci fa domande mirate su alcune questioni tecniche. Poi ci presta il suo pass per andare a prendere due lattine di coca-cola al grande bancone della mensa dove si trovano i dipendenti cinesi. Quando il canadese esce dalla mensa abbiamo modo di scambiare due parole con alcuni ragazzi che nel frattempo si sono seduti nel tavolo accanto. Uno di loro si chiama Edward e ci da un caloroso benvenuto. I tratti del suo viso sono un po’ particolari, probabilmente per via della nazionalità dei suo genitori, uno tedesco e l’altro giapponese.
Il motivo del nostro viaggio comporta la presenza presso la sede del cliente nel corso del normale orario di lavoro, ma non sono previsti impegni serali. Attorno alle cinque del pomeriggio l’autobus aziendale ci riporta in albergo insieme ad alcuni stranieri dell’azienda. In questo modo ogni sera ci rimangono delle ore libere per visitare la città. Salutandoci coi nostri colleghi chiedo a Edward cosa c’è di interessante nei dintorni: non lontano da dove alloggiamo c’è un parco dove ogni sera fanno qualcosa.
Alle otto andiamo a cena in un ristorante a duecento metri dall’albergo; si chiama Tuscany, ed in teoria dovrebbe fare cucina italiana. In pratica la carne nell’hamburger sa terribilmente di aglio e la pizza è come quelle surgelate: insapore. La carbonara invece, sebbene un po’ troppo bagnata, ha un gusto compatibile col nome che porta. Uno dei camerieri, Marco, è un ragazzo di Padova, ha 25 anni, e normalmente si presenta ai Cinesi dicendo che è di Venezia, dove anche lui come Giuliana ha studiato lingue (ma non il cinese). Mentre parliamo ci scambiamo i numeri di telefono e provo a fargli un messaggio che mi costa un euro. Gli chiedo come si può fare per avere un numero cinese. Marco dice che qui in Cina la burocrazia è ridotta rispetto a quella che c’è in Italia; nelle vicinanze c’è un negozio della Telecom cinese dove si può facilmente avere un numero nuovo senza bisogno di documenti. Usciamo a fumare insieme una sigaretta (anche se non ci sarebbe un divieto rigoroso di fumare all’interno), mi racconta dei locali che conosce, e nel frattempo saluta alcuni passanti stranieri. È molto attratto dalla vita notturna di Xiamen, e vengo a sapere che qui ci sono dei party sulla spiaggia conosciuti in tutta la Cina. A parte l’impiego come cameriere, lui si occupa anche di importare vini dall’Europa e di esportare borse in Italia. Conosce Giuliana; dice che è un tipo che si fa rispettare. Prima di andare via dal ristorante, Marco mi porta una scheda telefonica cinese che mi ha fatto il favore di comprare senza che glielo chiedessi. Sono 60 yuan,[5] incluso del credito che sarà sufficiente per una ventina di SMS.
Marco mi ha confermato che il luogo indicatomi da Edward è interessante. Arrivo in zona che sono le undici di sera. Il parco sorge in prossimità del mare e la riva è costituita da una gradinata alta cinque metri. Provo a scendere avvicinandomi all’acqua, ma devo tornare indietro perché tutta la parte più bassa della gradinata è sporca di alghe, presumo per la marea che dev’essere decisamente maggiore rispetto a quella cui siamo abituati nel Mediterraneo. Lungo la parte superiore della gradinata sono disposti quattro locali che guardano verso il mare; tutti e quattro hanno le luci accese e fanno musica. Ci sono alcune persone che passeggiano e altre sedute ai tavoli esterni, ma all’interno dei locali non c’è nessuno e le sedie sono impilate, probabilmente perché è soltanto lunedi.
Dove finisce la gradinata si trovano un grande ristorante e altri tre locali più simili a discoteche. Provo ad entrare in quello che si chiama Key Club. Mi riconoscono subito come occidentale, una ragazza mi viene incontro e mi accompagna ad un tavolo. Dice che è la manager del posto, ma penso che semplicemente si occupi di public relations. Si chiama Rita, e ci scambiamo il numero di telefono. Ordino da bere un Black Russian e fumo un paio di sigarette. Non rimango a lungo, perché la musica è troppo soft e non è adatta a ballare. Inoltre vedo che il locale è pieno di tavoli e non c’è spazio per muoversi. Quando sono fuori chiedo l’orario di chiusura ad un buttafuori. Riesco a farmi capire a gesti, e dopo avermi mostrato la mano aperta per indicare le cinque del mattino, di sua iniziativa mi viene alle spalle e mi sistema il bavero della giacca. Sulla via del ritorno passo in un punto del parco che prima non avevo visto, camminando su alcune passerelle di pietra e cemento costruite in mezzo a un grande specchio d’acqua. È una vista piacevole. C’è anche un grande viale il cui pavimento è decorato con delle luci affogate nel cemento. Ogni tanto cerco di accendermi una sigaretta con i cerini presi dall’albergo, ma questi non vogliono saperne di accendersi.
Martedì dopo il lavoro mi separo da Roberto e vado in taxi al tempio buddista di Nanputuo. Purtroppo è già chiuso, ma riesco a vederne l’architettura esterna ed il giardino antistante. Sul prato ci sono un paio di anziani intenti a riprodurre con lentezza dei movimenti simili a quelli di un’arte marziale, mentre sulla riva di uno stagno poco distante tre monaci rotondi e sorridenti spezzano del pane che gettano in pasto ad un grosso pesce. Riconosco in lontananza il palazzo dell’Università di Xiamen che avevo visto in qualche immagine di Google prima di partire. Mi incammino in quella direzione, arrivo nella zona dove ci sono le aule e vedo che stanno facendo lezione anche se sono le otto di sera. Mi soffermo accanto ad alcuni finestroni per spiare all’interno: anche qua utilizzano sia lavagne col pennarello sia lavagne col gesso, oltre agli schermi per i proiettori. Ogni tanto ci sono delle scritte in inglese.
Uscendo dalla zona universitaria mi trovo davanti un piccolo centro commerciale addobbato con parecchie luci e con un pannello pubblicitario luminosissimo. Entro, alla ricerca di una maglietta da portare ad un’amica in Italia, ma trovo solo capi con scritte o loghi occidentali, non in cinese come speravo. Mi servirebbero poi un paio di magliette e di mutande per me, visto che mi sono reso conto che quelle portate dall’Italia non mi basteranno. Girando fra i reparti, delle mie magliette e delle mutande mi sono dimenticato presto, ma in compenso ho trovato un bellissimo paio di jeans di marca cinese. Sull’etichetta di cuoio dove passa la cintura c’è scritto: CHINA STREET PUNK STYLE – IDEAL LOVER DESIGN FACTORY. Sono etichettati a 220 yuan, ma la cassiera me li batte a 159.[6] Sono morbidi ed aderenti, come piace a me; li indosso subito uscendo dal negozio, ma poi li metto in valigia per l’Italia, perché penso che qui in Cina sia meglio passare per straniero.
Da queste parti il taxi costa poco; ad esempio il tempio dista quindici minuti dall’albergo e l’andata ed il ritorno costano insieme circa 40 yuan.[7] Quando si chiede lo scontrino il tassista alza il prezzo di due/tre yuan rispetto a quello che appare sul tassametro, e ci consegna insieme allo scontrino alcuni bigliettini su cui sono riportati un numero di serie e dei timbri.
Naturalmente i tassisti non sono assolutamente in grado di leggere l’inglese, e vedo che faticano anche con il cinese, non vi so dire se per loro incapacità o se perché è intrinseca alla scrittura cinese una maggiore lentezza nel riconoscimento visivo delle parole. Fatto sta che non li vedo mai leggere al volo l’indirizzo, devono sempre soffermarsi un momento prima di capirlo.
A parte questo i cinesi guidano male, tagliano la strada e hanno l’inversione facile. Il più pericoloso dei tassisti che abbiamo provato era un giovane con un tick: ogni tanto piegava all’improvviso la testa di lato mettendosi la mano sul collo. Ha rischiato più di una volta di investire dei passanti, evitandoli all’ultimo momento.
Per strada si vedono molte auto nuove e di grossa cilindrata, ma poche di marca europea. In mezzo al traffico normale si trovano facilmente dei mezzi molto vecchi e sovraccarichi; ci è capitato di incontrare anche un carrello elevatore (sarà stato un quindici quintali) che attraversava un incrocio in mezzo al traffico in pieno centro.
Ritrovo Roberto in albergo; mentre faceva le sue passeggiate cercando souvenir nei dintorni dell’albergo ha rivisto Giuliana, con la quale ha combinato una cena a tre per mercoledì sera. Forse è più sveglio di quello che sembra.
Verso le undici di sera esco per andare in una discoteca di nome Lomo che ha aperto da poco e si trova a due passi dal nostro alloggio. Anche qui nel riconoscermi come occidentale mi accompagnano gentilmente al bancone. Nel mezzo del locale c’è una passerella dove si svolge un piccolo spettacolo di ballerine, tutte dal volto occidentale. Il cantante è un uomo di colore. Al bancone ordino un cocktail di nome Lamborghini al prezzo di 80 yuan:[8] è uno dei più costosi, uno di quelli a cui danno fuoco. Solo che dopo avergli dato fuoco il barista mi mette in mano la cannuccia ed io la infilo distrattamente nel cocktail per bere mentre la fiamma è ancora accesa; mentre bevo mi pongo il dubbio se la cannuccia sia abbastanza resistente da sopportare le fiamme, e nel fare questo pensiero tiro due sorsi un po’ troppo abbondanti, poi tolgo la cannuccia dal fuoco e l’infilo rapidamente nel bicchiere di acqua che il barista mi ha messo accanto. Sento l’effetto dell’alcol, mi si fanno gli occhi rossi, rallento il respiro per non mettermi a tossire e mi giro dall’altro lato per non farmi vedere in difficoltà dal barista. Tornata la calma, riprendo ad osservare il locale e vedo che quando il cantante fa il ritornello alcune persone attorno a me lo accompagnano sistematicamente con la mano alzata, in particolare il barista ed alcune belle ragazze sedute al bancone. Immagino che siano pagate per fare coinvolgimento. Finito il cocktail mi metto a cercare lo spazio adatto per ballare; l’unico posto dove riesco a posizionarmi è un tratto della passerella. Ci resto per circa una mezz’ora fumando qualche sigaretta (anche stavolta me le devo fare accendere dai cinesi perché i cerini dell’albergo continuano a non funzionare). Poi mi stanco perché vedo che il coinvolgimento del pubblico nel ballo è limitato, e preferisco andarmene.
Mercoledì a pranzo facciamo un’altra conoscenza alla mensa degli stranieri: Enrico, di Milano, forse trentacinque anni. È alto, indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate che lasciano intravedere due grandi tatuaggi sulle braccia: princess da un lato, il suo nome dall’altro. Al collo un papillon nero decorato con degli swarovski. Si trova qui da tre anni e lavora all’ultimo piano, dove c’è il giardino. Mi spiega che il canadese che abbiamo conosciuto in mensa il primo giorno riveste un ruolo importante: è l’unico straniero di cui i padroni dell’azienda (cinesi) si fidano pienamente.
Enrico se ne era andato da Milano perché “gli andava stretta,” ma poi ha iniziato a percepire anche Xiamen come “una scatola” troppo piccola; i nuovi arrivati trovano una serie di cose interessanti da vedere, ma presto l’orizzonte mostra i suoi limiti, soprattutto agli occidentali, in quanto a Xiamen ci sono pochi stranieri. Per questo motivo Enrico è contento di passare metà del suo tempo in un’altra sede aziendale a Shanghai, città che trova molto più interessante.
Enrico dice che i cinesi hanno una propensione molto forte al business e rischiano facilmente i loro soldi in iniziative commerciali. La crisi di cui noi parliamo tanto qui non si sente, e non è difficile sentire la storia di qualche giovane intraprendente che “inizia con un chiosco e si trova dopo pochi anni con una catena di ristoranti.” La differenza culturale fra cinesi ed occidentali è grande e si fa sentire; prima o poi a tutti gli stranieri capita di avere dei giorni in cui si raggiunge il limite della sopportazione, anche se poi passa. Saltiamo da un argomento all’altro; mi colpisce sentir dire che a Xiamen gli impianti di riscaldamento sono abitualmente assenti, e che il grande numero di condizionatori che abbiamo visto installati in molti palazzi ha la sola funzione di raffreddamento. Di conseguenza durante l’inverno bisogna sopportare delle temperature non vicine allo zero ma comunque nettamente al di sotto dei diciotto gradi. Mi incuriosisce anche sapere che i cinesi non hanno rispetto per le code, e che non vanno in spiaggia a spogliarsi per prendere il sole.
Mentre chiacchiero con Enrico provo a mangiare alcune arance della mensa, ma sono improponibili: completamente asciutte. Anche qui però ci sono delle banane che si salvano.
Giuliana ha prenotato tre posti per la cena nel ristorante italiano di Giacomo, un bolognese di circa quarant’anni, in Cina da otto. Prima di questo locale Giacomo ne ha avuti altri tre: con il primo ha perso molti soldi, il secondo l’ha venduto bene, il terzo l’ha venduto male; adesso le cose vanno abbastanza bene. Mi parla di alcune delle problematiche con cui si è dovuto confrontare; la rucola ad esempio arrivava soltanto una volta al mese e non era mai uguale, e lo stesso accadeva con altri prodotti deperibili. Adesso invece arrivano tutti i giorni delle consegne a qualità costante. Quando gli chiedo se la frutta qui è tutta immangiabile come quella che è capitata a me, Giacomo mi fa notare che lui non la serve. Si potrebbe trovare qualcosa di buono, ma non è facile.
Quando parlo delle mie uscite serali e vengo a merito dell’atteggiamento di riverenza che hanno i cinesi nei confronti degli occidentali, lui mi dice che sono stato nei posti sbagliati e che ce ne sono parecchi decisamente migliori, frequentati anche da stranieri. Soffia un po’ di fumo e aggiunge che una volta per “fare serata” bastavano 50 euro, champagne incluso, mentre adesso ce ne vogliono 200. Seduta vicino a lui c’è una donna anziana: è sua madre, che gli da una mano a gestire la cucina.
Nel ristorante c’è un filippino che suona dal vivo una chitarra accompagnato da basi registrate. Giacomo dice che guadagna più di lui e vorrebbe che si sforzasse di parlare coi clienti. Mi piace come suona, e gioco a seguire il suo ritmo articolando le dita della mano destra. Dumb dei Nirvana e Knockin’ on Heaven’s Door. Giuliana mi rimprovera perché non riconosco un pezzo dei Pink Floyd; o forse erano i Dire Straits. Mangio degli spaghetti ai frutti di mare che sono molto buoni;[9] prima di uscire faccio i complimenti a Giacomo per il suo locale.
Se non ho capito male, per determinare le tasse di un piccolo ristorante è sufficiente presentare un contratto di affitto, dichiarare la superficie ed il numero di coperti giornalieri. Non c’è obbligo di dichiarazione IVA e lo stato fornisce un certo numero di fatture in base al volume di affari. Le piccole realtà economiche lavorano con i propri soldi pagando in contanti o con assegni a vista. Non esiste nulla di simile al giro degli effetti basato sulle ricevute bancarie com’è in Italia.
Per quanto riguarda il permesso di soggiorno, averne uno permanente per motivi di lavoro è difficile, servono l’invito da parte di un’azienda locale, un curriculum, gli esami del sangue, il certificato di laurea ed altri documenti che non ricordo. Un’alternativa è quella di utilizzare dei permessi multientrata di sei mesi, facendo poi vedere che si esce dalla Cina una volta ogni due mesi, per esempio recandosi ad Hong Kong. Questo è compatibile con l’essere proprietari di un’attività, ma non con l’esserne dipendenti. Per inciso, io e Roberto abbiamo ottenuto il visto per motivi turistici.
Parlando con gli italiani che vivono da queste parti chiedo spesso informazioni a riguardo del reddito dei dipendenti cinesi e del costo della vita. Un operaio nell’entroterra può prendere circa 150 euro al mese, mentre per un cameriere della città una cifra più verosimile è di 250 euro (ma fino a pochi anni fa era meno della metà). Nelle grosse aziende lo stato interviene per impedire che gli stipendi si alzino troppo, perché altrimenti la Cina diventerebbe meno competitiva rispetto ad alcune nazioni limitrofe come il Vietnam. I costi da sostenere per mangiare ed abitare sono decisamente in crescita. Nell’area cittadina lo stato ha recentemente imposto un raddoppio degli affitti. Enrico vive in un appartamento di centoventi metri quadri che prima gli costava 200 euro e adesso è passato a 400. Per lui non è stato un grande problema, ma non si può dire lo stesso dei lavoratori cinesi, per i quali l’incidenza dell’affitto sulla busta paga è considerevole.
A causa di questa situazione stanno diventando più frequenti i casi in cui gli operai semplici preferiscono licenziarsi per tornare nelle campagne a praticare un’agricoltura di sussistenza. C’è stato un caso in cui, se è vero quello che mi hanno detto, si sarebbero licenziati in blocco settecento dipendenti proprio nell’azienda in cui ci troviamo. Con queste premesse la previsione che fanno tutti è quella di un costo del lavoro in aumento e di uno spostamento di alcune aziende verso le zone più interne e povere, all’inseguimento della manodopera a minor costo.
Si tenga presente, per comprendere meglio lo scenario descritto, che in Italia siamo abituati a immagini di cinesi ammassati nei laboratori clandestini e completamente dediti al lavoro, mentre qui non sono infrequenti le figure di cinesi che danno l’impressione di prendersela piuttosto comoda, sia nell’azienda del nostro cliente, sia nell’ambito di tanti piccoli ruoli di servizio che si possono osservare nel contesto cittadino (portieri, commessi, camerieri, guardie, etc.)
Chiudo questa parentesi economica aggiungendo che Xiamen è una città in cui i costi sono molto inferiori rispetto ad altri luoghi come Shanghai, dove possono essere anche il doppio rispetto a qui.
Siamo dunque arrivati a mercoledì sera verso mezzanotte. Al mio ritorno in albergo scrivo alcuni messaggi con Skype (in Italia sono le sei di sera e qualcuno lavora ancora), poi vado in bagno a lavare alcune delle mutande e delle magliette usate nei giorni precedenti; nel tentativo di asciugarle riesco a bruciare l’asciugacapelli dell’albergo. Spero che i cinesi non se accorgano.
Giovedì a pranzo abbiamo più tempo a disposizione perché dobbiamo aspettare il risultato di alcuni test chimici che verranno pronti nel primo pomeriggio. Ne approfittiamo per ispezionare l’outlet aziendale e arriviamo in mensa più tardi del solito. Quando gli altri si alzano per tornare al lavoro io sono ancora seduto a mangiare e ne approfitto per chiacchierare con Sarah, che come i giorni precedenti è arrivata per ultima. Roberto esce a fumare una sigaretta e dice che mi aspetta fuori. Mi perdo negli occhi neri e scintillanti di lei; le dico che mi piace il modo in cui sceglie i momenti in cui parlare e quelli in cui restare in silenzio. Lei viene da New York e le piace ballare. Ci scambiamo i numeri e ci diamo un appuntamento per la sera.
La rivedo sul solito autobus aziendale che di sera ci riporta a Xiamen. Mentre lei parla con qualcun’altro, ci scambiamo senza farci notare alcuni messaggi per definire l’orario ed il luogo. Ma poi lei nello scendere dall’autobus cambia idea e invita me e Roberto ad andare subito a cena insieme. Roberto dice che a lui non interessa e che ieri ci eravamo accordati per andare all’isola di Gulangyu per prendere i souvenir… Non mi va di lasciarlo solo, e a malincuore saluto la ragazza. Gulangyu è una piccola isola piena di negozietti che si raggiunge con il traghetto. Mentre sono sull’imbarcazione mi viene voglia di andare sul ponte superiore per avere un panorama migliore; mi fanno pagare uno yuan in più e mi danno un biglietto numerato con dei timbri, simile a quello dei tassisti. Immagino che si tratti di una forma di tassa statale.
A Gulangyu ci si muove soltanto a piedi; auto e biciclette sono bandite. Secondo Roberto l’atmosfera è come quella di Gardaland. Dovrebbe esserci un museo del piano, ma non abbiamo il tempo di cercarlo. Dopo aver esplorato alcuni negozi Roberto è contento perché ha trovato quello che cercava: delle decorazioni calamitate con il nome di Xiamen. Io resto concentrato sul mio telefono, con cui armeggio facendo SMS fino a che non ricostruisco l’appuntamento con Sarah. Ritorno anch’io ad essere di buonumore, e sulla strada del ritorno canto le canzoni dei cartoni animati.
Incontro Sarah verso le dieci, e andiamo a bere qualcosa nei locali lungo la gradinata in riva al mare. Dopo molto parlare ci incamminiamo verso il Key Club dove stavolta c’è qualcuno che balla fra i tavoli. Quando ci mettiamo a ballare anche noi, uno dei ragazzi del locale ci tira subito sul piano rialzato di fronte al palco del DJ, in parte perché siamo abbastanza ispirati nei movimenti, ma soprattutto perché siamo occidentali. Il ricordo di questa serata mi ha ispirato una canzone:
THE GIRL FROM NEW YORK
I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.
She has been the hint
for my mind to fly.
The flight went too far
and stretched the mind.
The mind fell apart
like a mirror that tries
to follow who leaves
going out of the room.
I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.
So tears on my face
this night in Xiamen;
only saved me the glue
i was told by Cobain.
I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.
Quando rientro in stanza trovo Roberto ancora sveglio; mentre era da solo la connessione internet ha smesso di funzionare interrompendo il suo dialogo con gli affetti familiari. Allora si è arrabbiato e ha chiamato la reception; la cinese che ha risposto parlava inglese meno di lui, però gliene ha dette quattro ed è riuscito a fare venire dei tecnici che hanno sistemato il problema.
Venerdì non dobbiamo andare nell’azienda del cliente e ne approfittiamo per visitare il parco botanico di Xiamen; è piu ampio di quel che pensavo, e servono alcune ore per vederlo tutto. All’interno c’è un colle alto dai fianchi ripidi che offre degli scorci paesaggistici molto interessanti. A Roberto piacciono queste cose. Nell’approssimarci ad una cresta laterale del colle iniziamo a sentire dei vocalizzi che riempiono l’atmosfera. Ci immaginiamo che per ottenere un simile effetto sonoro debba esserci un coro di molti monaci, ma non è così. Proseguendo nel cammino ci si apre davanti una piccola valle nella quale osserviamo il complesso architettonico di un tempio immerso nella vegetazione. Continuando il nostro percorso fra i sentieri del bosco che ricopre il colle incontriamo un accesso laterale ai locali del tempio; si sente il canto ma non si vede nessuno. Entro con circospezione, mentre Roberto mi aspetta fuori a riposare. Mi guardo in giro controllando se c’è qualche persona o qualche cartello di divieto, ma è tutto scritto in cinese. Mi trovo in uno spiazzo da cui vedo gli alloggi dei monaci. Esce un uomo in ciabatte che mi osserva brevemente e poi si dedica al suo cellulare e borbotta qualcosa a qualcuno che non riesco a vedere. Visto che non mi dicono nulla proseguo verso la direzione da cui sento provenire il canto. Salgo alcune scale e arrivo dove ci sono i monaci con la tunica arancio che stanno celebrando la cerimonia. Sono quattro o cinque e stanno usando un microfono. Sono inginocchiati, mi danno le spalle e davanti a loro c’è una serie di statue del Buddha. Dietro di loro alcune altre persone in abiti normali partecipano al rito. Nessuno sembra notare la mia presenza.
Uscendo dal parco facciamo due passi senza una meta precisa, ed incontriamo una decina di imponenti soldati di bronzo che corrono all’assalto, sventolando una grande bandiera rossa con una stella gialla. Poco dopo troviamo un bowling a sei piste dove facciamo una partita; è tutto simile ai bowling che ci sono in Italia, dalle scarpe agli schermi dei punteggi alle poltroncine dei giocatori. Però costa quattro volte di meno. Il nostro punteggio non è un granché, ma un paio di strike riusciamo a farli.
Prima di prendere la strada dell’aroporto passiamo in un grande parco pieno di gente che passeggia e gioca a carte all’ombra degli alberi. Notiamo un gruppo di trenta o quaranta persone che fanno un esercizio buffo: stanno tutte piegate in avanti battendosi le mani sulle gambe, producendo un rumore simile ad un applauso.
Arrivati in aeroporto, l’attesa dell’imbarco è l’occasione per fare un bilancio di quello che abbiamo visto. A parte le questioni lavorative, che in questo racconto ho volutamente evitato di esporre, a parte la mail di Sarah, il pettine e lo spazzolino col marchio dell’albergo, i jeans elasticizzati e le foto che Roberto mi deve ancora girare, a parte questo, cosa mi lascia questo viaggio?
Tutti gli interlocutori con cui mi sono confrontato dicono che la crisi qua in Cina non si sente e che il calo della domanda estera non crea grossi problemi per via della crescita del mercato interno. L’azienda presso la quale stiamo facendo assistenza, ad esempio, ha come mercato principale quello cinese seguito dal Nord America, mentre in Europa vende poco. Quando gli ho chiesto cosa dicono i cinesi dell’Europa, Enrico si è fatto una risata; scherzando, ma non troppo, ha detto che la danno per morta. Poi ha aggiunto che sulle televisioni cinesi c’è una forte propaganda in favore della Cina, e che loro (i cinesi) hanno ancora questo modo di sentirsi come “un grande esercito”.
Penso all’Italia e alle strade delle nostre città che non ci appartengono più, in parte per problemi di micro-criminalità, in parte per colpa nostra che amiamo stare separati nelle nostre case e nelle nostre stanze. In Cina ho visto qualcosa di diverso. I cinesi non passano molto tempo in casa; non so quanto sia per via del clima caldo, quanto per la miseria della maggior parte delle abitazioni, e quanto per i fattori culturali, fatto sta che loro vivono lo spazio comune della strada in modo più intenso rispetto a noi. Inoltre, se a Brescia di sera una ragazza ha paura a camminare da sola, a Xiamen il problema non si pone nemmeno a notte inoltrata; c’è un senso di confidenza con il luogo pubblico che da noi è assente.
Alcuni frammenti di questa città cinese mi hanno regalato una sensazione sociale particolare e mi hanno ispirato quella sfumatura delicata del pensiero che guarda le persone cercando di farne un coro anziché un’indifferenza, ed è questo il souvenir della psiche che vorrei conservare salutando Xiamen.
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