Pontevedra città senz’auto. Un diario di viaggio.

Pontevedra è la città spagnola famosa per aver messo al bando le auto nel centro storico. Io amo l’idea di una città senz’auto, e quest’estate sono andato a visitarla. Qui di seguito trovate il racconto di quello che ho visto.

Arrivato a Pontevedra sono pronto a fotografare tutto, anche le cose inutili, incluso il treno che riparte. Nell’uscire dalla stazione sono pervaso da una leggera ansia di rintracciare subito gli effetti benefici del vivere senz’auto, ma a dire il vero qui di auto ce ne sono molte. Però, inizio a notare con sollievo, sembra che l’andatura sia più lenta che altrove. E appena mi avvicino alle strisce pedonali, subito i veicoli rallentano in segno di rispetto.

Il centro si trova ad alcuni chilometri di distanza dalla stazione, e ci mettiamo in marcia per raggiungerlo. Dopo aver camminato per alcuni minuti troviamo delle strade col limite a 30 all’ora e la carreggiata molto stretta, delimitata da una serie di blocchi di pietra lunghi circa un metro, alternati regolarmente a degli spazi lunghi altrettanto. Questi blocchi di pietra sono piuttosto spigolosi, e fanno passare la voglia di andare veloci alle automobili, che infatti avanzano lentamente. Ai due lati della via ci sono dei marciapiedi molto ampi con alberi e panchine.

Pontevedra – Strada con il limite a 30 Km/h

Procedendo nel nostro cammino raggiungiamo la zona propriamente pedonale. É ricca di luoghi per sedersi, si vede in circolazione un certo numero di carrozzelle per gli anziani e, soprattutto, ci sono tanti passeggini e tanti bambini. Ci troviamo in una zona che onestamente non potremmo considerare turistica. Al contrario, i palazzi sono piuttosto anonimi, eppure le strade sono piene di persone, ed i negozi anche. Mentre camminiamo mi fermo continuamente a fare fotografie cercando gli scorci più interessanti per immortalare lo spirito della città senz’auto, ma Miss Timea mi ricorda che siamo in ritardo per l’appuntamento con la ragazza che ci ospita (abbiamo prenotato una stanza con AIRBNB).

Pontevedra – Persone che camminano nel centro pedonale

Luisa se ne era andata molto tempo fa da Pontevedra per andare a stare a Dublino, ed è tornata qui da poco più di un anno. Quando era più giovane voleva scappare dalla città natale, mentre adesso stare qua le piace. Dice che ci sono tante persone capaci con iniziative interessanti. Questa sera deve uscire per andare a una protesta contro la corrida.

Domenica mattina ho tempo di parlarle meglio. Luisa è contenta della politica pedonale, ma non è allergica all’auto come lo siamo noi. Lei l’auto ce l’ha, solo che per andare in centro non la usa, sia perché in centro non ci sono parcheggi, sia perché la rete dei sensi unici rende difficile (volutamente) raggiungere la meta precisa usando l’automobile. Le chiedo se in città tutti sono contenti di questa situazione di mobilità alternativa. Lei dice che c’è sempre qualcuno che non è contento. Per esempio, i corrieri che devono consegnare la merce ai negozi del centro devono farsi largo lentamente fra i pedoni, perdendo molto tempo (mentre la ascolto mi chiedo se non perderebbero anche più tempo in una città con molto traffico). Poi Luisa mi spiega che qua a Pontevedra i trasporti pubblici sono molto limitati. E se qualcuno deve andare da qualche parte fuori dal centro, deve usare per forza l’auto. Dice che qua le persone i trasporti pubblici non li usano, e nemmeno le biciclette. Noi alcune le abbiamo viste, ma effettivamente erano meno di quel che potevamo aspettarci. Dopo averle parlato per un quarto d’ora, mi perdo a contemplare il paesaggio fuori dalla finestra. Siamo in periferia, e sulla strada che osservo ci sono due lunghe file di auto parcheggiate da entrambi i lati.

Appena Miss Timea è pronta, usciamo per andare a vedere il centro storico. Molti degli edifici che incontriamo sono costruiti con quella pietra granitica che è tipica della Galizia. La stessa che già avevamo visto a Santiago. Ci sono strade, piazze e palazzi interessanti, ma non si può dire che Pontevedra sia una vera e propria città d’arte. Questo a noi interessa molto, perché significa che il modello pedonale può funzionare anche in situazioni “normali”. La città senz’auto non è circoscritta ai borghi medievali con le stradine strette e poco praticabili, oppure ai luoghi artistici con un’elevata qualità estetica delle architetture.

Pontevedra – Uno scorcio del palco montato nella piazza centrale

Qui a Pontevedra non si tratta semplicemente del fatto che qualche strada sia pedonale. È un intera grande area ad essere pedonale, e chi cammina sente di avere la precedenza rispetto alle poche auto che mantengono la possibilità di accedere al centro storico. Si potrebbero fare (e si fanno) molte riflessioni sul modo in cui la presenza delle automobili nello spazio cittadino influenza l’esperienza del vivere le strade. L’immagine chiave che le riassume tutte è quella dei bambini che giocano liberamente per strada. Non è un caso che una delle fonti di ispirazione del governo locale sia stato il libro “La città dei bambini”, scritto da Francesco Tonucci, un italiano che fa parte del CNR (il Consiglio Nazionale delle Ricerche). Il punto fondamentale è che costruendo una città accogliente per i bambini e per gli anziani si ottiene un ambiente più accogliente per tutti.

Pontevedra – Bambini che giocano in strada

La presenza nelle strade di giovani e bambini non è solo un’impressione. La popolazione di Pontevedra è passata da 74.000 abitanti nel 1998 a più di 82.000 nel 20171. Carlos Ferrás, un esperto dell’Università di Santiago de Compostela, sostiene che gli incentivi economici per le nascite si sono rivelati insufficienti allo scopo, e che il punto di partenza per promuovere le nascite è la pianificazione urbana, calibrata per favorire le famiglie che decidono di fare figli. Come è appunto il caso di Pontevedra.

Pontevedra era una città che mostrava segni di declino, ed era soffocata dal traffico automobilistico. Il cambiamento è cominciato nel 1999, promosso dal sindaco Miguel Lores (un medico, dettaglio non secondario). Il principio guida adottato è quello di ostacolare tutto il traffico di auto private che non fosse strettamente necessario alla vita urbana. Si è cosí ritenuto opportuno impedire alle auto di attraversare il centro da parte a parte, e di girare a vuoto in cerca di parcheggio. Questi obiettivi sono stati realizzati con una rete di sensi unici che rende sconveniente l’attraversamento del centro, e (misura fondamentale) rimpiazzando gli spazi dedicati ai parcheggi a raso con degli spazi dedicati al tempo libero e alla vita urbana. I parcheggi sotterranei nel centro sono stati mantenuti, e se ne sono realizzati di nuovi in periferia (gratuiti). In diverse strade vi è stato un approccio graduale con un progressivo allargamento dei marciapiedi fino alla creazione di uno spazio unico dove i marciapiedi non sono più differenziati dalla parte carrabile, e dove i pedoni hanno la precedenza sulle auto.2 La possibilità di accesso al centro è stata mantenuta per chi possiede un garage, per le emergenze, per i disabili e per le consegne (se ho capito bene, c’è la possibilità di soste brevi gratuite per questi impieghi degli automezzi).

Pontevedra, un negozio di cicli “speciali”

Insieme al numero di auto circolanti è calata notevolmente l’emissione di anidride carbonica, e Pontevedra è stata invitata a partecipare alla conferenza sul clima di Parigi del 2015. Questo è solo uno dei numerosi riconoscimenti ricevuti a livello internazionale dalla cittadina spagnola, i cui rappresentanti hanno anche sottoscritto un documento programmatico di Walk21. Walk21 é un associazione internazionale che promuove la mobilitá pedonale, cosa che mi ha incuriosito non poco. Sul sito dedicato si legge che Walk21 “coordina una rete globale di più di 5.000 persone e invita chi è ispirato dal movimento dei camminatori ad entrare in contatto e ad unirsi”. La ventesima conferenza di Walk21 si è appena chiusa a Rotterdam, il 10 ottobre 2019. C’è un video su Youtube che ne parla e porta questa sovrimpressione: “Perché camminare è salutare, alla moda, e per tutti. E contribuisce all’economia.” Ci ho subito messo il like.

Abbiamo provato a chiedere alle persone incontrate in città cosa pensano della situazione delle auto in Pontevedra. L’impiegata del museo dice che è contenta perché c’è una grande accessibilità. La cameriera della birreria dice che le piace camminare, ma forse vorrebbe più posti per parcheggiare. Il proprietario di un piccolo ristorante è contentissimo di camminare, e compra le forniture per la cucina a poca distanza, senza nessun problema.

A Pontevedra la serata della domenica è molto popolata, e per le vie del centro ci sono artisti di strada e gente che fa musica. Alcuni musicisti sono vestiti con abiti folcloristici e suonano anche la zampogna. Un altro gruppetto con gli ottoni e la batteria incalzante è organizzato fuori da un ristorante. Nella piazza centrale è montato un palco e c’è un concerto con un cantante famoso da queste parti.

Pontevedra – La lotteria nel parco di sera

In una zona diversa del centro è organizzata una specie di luna park estivo con le giostre e le bancarelle. Mi attira una grande postazione con tante luci e centinaia di pupazzi e giocattoli. Si possono vincere premi con una specie di lotteria. Per terra c’è uno stuolo di schedine usate, che coprono completamente il suolo. E c’è un uomo col microfono che ha sempre qualcosa da dire per invitare al gioco.

Ma non sono solo i bambini a cadere nelle trappole degli imbonitori. C’è un’altra postazione dove sono esposti, ben illuminati nella notte scura, decine e decine di prosciutti. E anche qui il terreno è coperto di biglietti e schedine. E anche qui c’è un uomo col microfono che incessantemente ripete in una litania i premi che si possono vincere (i prosciutti ed altri insaccati). C’è qualcosa di profondo ed ipnotizzante nella sua voce rauca e rovinata. Direi quasi sciamanico, se non fosse per la prosaicità dei prosciutti.

Lunedì nel tardo pomeriggio abbiamo il treno per Porto, in Portogallo. Dopo aver salutato Luisa usciamo di casa che è quasi mezzogiorno. Vogliamo cercare un posto per mangiare lungo il Rio Gafos, che è un piccolo corso d’acqua nella parte meridionale di Pontevedra. A partire dal punto in cui il Rio Gafos sbocca nell’oceano, lo risaliamo in direzione della stazione, percorrendo il sentiero che lo costeggia. Nell’acqua del piccolo fiume ci sono molti pesci, anatre, e alcuni uccelli strani che assomigliano a dei cigni, ma sono più grassi, hanno alcune piume di color marrone, e il becco di forma diversa. L’area attraversata dal sentiero è ben curata, con prati rasati, grandi alberi frondosi, piccoli ponti graziosi e panchine in abbondanza. Camminando incrociamo un po’ di persone col cane o col passeggino. C’è anche una famiglia che corre, col papà in tuta che tira la volata, i due bimbi che seguono lamentandosi, e la mamma un poco trafelata che prova a correre con la borsa sottobraccio e gli occhiali da sole. Li incrociamo prima in un senso e poi nell’altro, quando tornano indietro. Arrivati in prossimità della stazione troviamo un luogo che ci aveva segnalato Luisa. Si tratta di un terreno dove si può andare a coltivare la terra come passatempo, per conoscere altre persone. È come un grande orto, con alberi da frutto, tante varietà di verdura e qualche fiore colorato.

Pontevedra – L’orto pubblico

La politica dei corsi d’acqua scoperti è impiegata in molti luoghi per la riqualificazione delle aree urbane. Ad Oslo (un altro luogo dove si lavora per lo sviluppo di un modello di città senz’auto; ci vado fra un paio di settimane) hanno in programma di riaprire alcuni canali precedentemente interrati, ma loro sono al freddo e non hanno il problema delle zanzare. A Milano pianificano di riaprire il percorso dei Navigli, e dicono che eviteranno la formazione di zanzare tenendo sempre una velocità minima del flusso d’acqua. Qui a Pontevedra possiamo constatare che di zanzare non ce ne sono. Non saprei se per via del clima oceanico, se per il vento, per l’acqua salata o per le temperature moderate (oggi la massima è di 23 gradi, sulla costa dell’oceano l’estate è fresca).

A Pontevedra ho fatto molte fotografie in questi due giorni, e mentre aspettiamo il treno per Porto le ricontrollo per individuare quelle più significative. Esaminando le immagini mi nascono delle domande. Come si può portare altrove questo esempio di sviluppo sostenibile, questa esperienza di un centro storico senz’auto? Come è possibile estendere questo tipo di mobilitá alternativa ad un area più grande? Come la si può integrare meglio col trasporto pubblico? Come si fa a spiegarla a chi è troppo assuefatto al modello sbagliato di una città costruita per le auto private? Ed in un’ottica più ampia, come si fa a promuovere il passaggio da un capitalismo consumistico, centrato sulle auto, ad un capitalismo delle infrastrutture durevoli?

Per ora non ho la risposta a queste domande, forse capirò qualcosa in più dopo essere stato ad Oslo, che è un tipo di città molto diversa da Pontevedra per dimensione, livello di vita e situazione climatica. Intanto continuo a scorrere le immagini e mi rendo conto di quanto è difficile trovare quella giusta, perché la foto migliore non è altro che la normalità di un uomo che cammina. Nel fare questi pensieri mi torna però alla mente un ricordo. C’era un filosofo, forse Nietzsche, che parlava di come è cambiato il ruolo sociale della caccia col passare dei secoli. Da attività di vitale importanza è diventata un passatempo per i nobili. Ed oggi ha perso anche gran parte di quell’aura di prestigio che la avvolgeva. Ecco, questo esempio mi fa capire cosa voglio augurare all’automobile, soprattutto all’automobile privata. Io auguro all’automobile privata di perdere sia l’apparenza di bene necessario sia il prestigio sociale. Visto però che sono di animo buono, sono anche disposto a fare delle concessioni rispetto a questo mio augurio, forse un poco troppo severo, e non avrò allora obiezioni se i bambini vorranno ancora usare le auto come un gioco.

Pontevedra – Le auto giocattolo

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Per un progresso senz’auto. Alcuni spunti dal caso di Bergamo

 

1https://www.citylab.com/design/2018/11/car-free-pedestrianization-made-pontevedra-spain-kid-friendly/576268/

2Ecco alcuni risultati riportati su un documento diffuso dal governo locale: 81% di bambini che vanno a scuola camminando. 91% di veicoli che non entrano nel centro storico. Nessun morto a causa del traffico da quando è intervenuto il cambiamento. Limite di velocità massima di 30 Km/h esteso a tutta la città. Emissioni di CO2 diminuite del 66% dal 1999 al 2014.

Diario di viaggio a Santiago e Finisterre: Il Pellegrino e Il Mare

(…)

La cattedrale si staglia illuminata contro il buio della sera. Le torri barocche della facciata principale, ricche di decorazioni, si staccano dall’ampia base dell’edificio per svettare verso lo scuro del cielo. Dal lato opposto della piazza c’è un lungo porticato, e nella parte centrale del porticato ci sono alcuni ragazzi che fotografano la cattedrale. Più defilate, sui lati, ci sono un paio di persone che dormono nei sacchi a pelo. Sono sdraiate per terra, sistemate su un semplice telo steso sulla dura pietra del pavimento. Hanno lasciato il bastone appoggiato al muro. Non sono vagabondi, naturalmente, sono pellegrini che hanno fatto il cammino.

Miss Timea il cammino di Santiago l’ha fatto l’anno scorso, e per lei questo luogo ha un significato particolare. Si incanta alla vista dei pellegrini, e le vedo negli occhi i ricordi di quell’esperienza. Mentre io mi siedo sotto il porticato a meditare, lei si perde in giro a camminare nei vicoli illuminati dai lampioni. Ritorna dopo venti minuti ad avvertirmi che il tempo della mia meditazione è finito, e poi si siede per terra con me. E mi dice che per lei questo é il giorno più bello dell’ultimo anno.

Al mattino del giorno dopo torniamo alla cattedrale per visitare l’interno(…)

Santiago, la cattedrale sotto la pioggia. Vista laterale.

Nella zona centrale c’è un folto gruppo di persone, che non capiamo cosa stiano facendo. Noi preferiamo aggirare l’assembramento camminando lungo i muri perimetrali. Miss Timea mi spiega che le persone sono in coda per visitare la cripta coi resti del santo. Lei c’è entrata l’anno prima. Io riesco a confondermi con qualcuno che va e viene da un corridoio e mi infilo nella parte finale della coda. Non c’è solo l’urna da vedere, c’è anche la statua del santo da abbracciare. Santiago è San Giacomo, e più precisamente San Giacomo il Maggiore (uno degli apostoli). Alla statua del santo si accede attraverso una scaletta molto stretta che sale all’interno di un tabernacolo arricchito da colonne dorate ornate da forme vegetali. La statua del santo è più grande di una normale figura umana, e vi si arriva da dietro, all’altezza giusta per abbracciarlo mettendo le braccia sulla mantellina di metallo che ne copre le spalle. Su questa mantellina sono incastonate alcune pietre e vi sono fissate alcune decorazioni metalliche lucidate dagli abbracci dei pellegrini. Ma ho appena il tempo di notarlo, che già il mio turno è terminato.

(…)

Finisterre si chiama anche Finisterra, oppure Fisterra. Il nome viene dal latino finis terrae, che significa fine della terra. Ed infatti si tratta del lembo di terra che, nella spagna del nord, si estende più a Ovest nell’Oceano Atlantico.1 La penisola di Finisterre crea un insenatura protetta dove l’acqua è più calma, ed é da questo lato che si trova il centro abitato, incluso il nostro albergo. Una volta prese le chiavi della stanza e mangiato un kebap, siamo ancora in tempo per raggiungere l’altro lato della penisola dove si puó vedere il tramonto del sole nell’oceano.

Finisterre, onde nella baia

Le onde dell’oceano si fanno sentire a centinaia di metri di distanza. Per raggiungere la spiaggia percorriamo un sentiero costeggiato dai rovi con le more rosse e nere. Ci togliamo le scarpe e i sandali per camminare meglio nella sabbia. Le dune sono cosparse di vegetazione, e stiamo attenti a non calpestare le piante grasse. Gli scogli, in lontananza, sono avvolti da una nebbia sottile. Arrivati sul bagnasciuga ci mettiamo a camminare all’indietro, fotografando le nostre impronte cancellate dall’acqua. Dobbiamo alzare la voce per riuscire a sentirci. Le onde cominciano a fare la cresta molte decine di metri al largo, e quando arrivano a riva sono completamente bianche. Un bambino sta giocando a rincorrere l’acqua che si ritrae nel mare, per poi scappare indietro di fretta quando arrivano le nuove ondate. C’è un uomo che porta il cane a passeggio, e alcune ragazze sedute guardano il tramonto. Del sole rimangono solo alcune strisce arancio appoggiate all’orizzonte, mentre la luna nel cielo si fa più brillante contro il cielo che imbrunisce. Un paio di pescatori hanno piantato la canna nella sabbia, in un punto dove le onde non arrivano. Non vediamo dove si trova la lenza, e per non inciampare risaliamo verso l’entroterra. Il vento continua a soffiare forte, ed é ora di rientrare.

(…)

Vicino al pilastrino del chilometro zero c’è una fila di persone che vogliono farsi la fotografia, e a pochi metri c’è un ragazzo che suona la chitarra. Camminando attorno all’edificio del faro si raggiunge una zona da cui si vedono le onde e gli scogli a strapiombo, da grande altezza. Ci sediamo lì a goderci il sole. Le onde viste da lontano si muovono al rallentatore. Mi perdo a confrontare i movimenti dell’acqua e della schiuma da un punto all’altro della distesa liquida e mobile. Cerco di inseguire il percorso delle onde che si avvicinano, ma quando queste si mescolano al riflusso, non riesco più ad aver presente tutti i movimenti che si intrecciano. All’orizzonte un paio di piccole vele si confondono alla foschia della lontananza, e quando il gabbiano passa a mezza distanza tra noi e le acque posso cogliere appieno la grandezza dei volumi.

L’oceano a vista d’uccello è già una cartolina da ricordare. Ma c’è ancora un percorso ritorto e stretto tra un muro bianco e la ripida discesa del promontorio che ci conduce in un punto da cui si gode una vista privilegiata. L’ultimissimo pezzo di terra dopo il faro scende verso il mare con una pendenza più lieve, in un’alternanza di rocce, chiazze d’erba e sentieri percorribili. Decine di persone se ne stanno sparse nel paesaggio. Ci sono uomini soli che scrutano l’orizzonte e gruppi di amici che scherzano. Alcuni fanno fotografie, altri si siedono a guardare. Ci sono cani al guinzaglio e cani senza guinzaglio, bambini nel passeggino e bambini a spalle di nonni e genitori. È un affresco di umanitá che riempie lo sguardo. Sono persone arrivate qui, alla fine della terra, che giocano curiose col pensiero, chiedendosi cosa ci sia al di là del mare. Una ragazza soprattutto, molto lontana, sta in basso vicino alle onde, in piedi, con le braccia aperte su uno scoglio proteso a sbalzo contro il blu del dell’oceano. La osservo, e con la fantasia mi metto al suo posto.

Finisterre, vista dal faro

Questo post è un estratto del racconto completo.

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Racconto di un viaggio in Cina

Oslo, le auto, e gli elefanti bianchi

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1C’é un altro lembo di terra nelle vicinanze che si estende anche piú a ovest, ma tradizionalmente il punto estremo é considerato essere Finisterre.

“Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman: una sintesi (e qualche idea nuova).

In questo articolo riassumeremo i concetti fondamentali del famoso libro di Goleman, per poi accennare brevemente alla visione corrente delle neuroscienze affettive.

L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Il libro Intelligenza Emotiva, di Daniel Goleman

Il libro di Goleman sull’intelligenza emotiva è una sorta di passeggiata attraverso i temi della psicologia più rilevanti per la vita di tutti i giorni. L’intelligenza emotiva migliora la vita di coppia, l’ambiente di lavoro e l’educazione dei figli. Aiuta la salute del corpo, promuove il rendimento scolastico, previene i problemi con l’alcol il fumo e le droghe.

L’intelligenza emotiva implica anzitutto la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni comprendendone le cause. Sulla base di tale consapevolezza si sviluppa poi la capacità di influenzarne il corso. Le emozioni vissute in prima persona, da dentro, sono conosciute in modo diverso rispetto alle emozioni viste negli altri, dal di fuori. L’intelligenza emotiva è tanto più matura quanto più è in grado di riconciliare il sentimento delle nostre emozioni private con gli stati emotivi osservati nelle altre persone.

Una persona dotata di intelligenza emotiva riesce a intuire la condizione interiore dell’interlocutore, sa come parlargli, è pronta a cooperare e ad ascoltare. È in grado di assumere il punto di vista degli altri ed è predisposta a risolvere i conflitti. L’intelligenza emotiva si associa alla capacità di resistere agli stimoli immediati e al mantenimento di un livello di motivazione costante. L’equilibrio emotivo migliora la fiducia in sé stessi, facilita la gestione dell’ansia e la resistenza allo stress.

LO STUDIO DELLE EMOZIONI

All’inizio del libro Goleman dedica molto spazio alla descrizione del modo in cui la psicologia ha iniziato a interessarsi delle emozioni. La psicologia, infatti, non si è sempre interessata alla sfera emotiva. All’inizio del novecento era predominante la corrente del comportamentismo. Si desiderava impostare la psicologia come uno studio esatto del comportamento osservato dall’esterno, e il contenuto della mente era considerato inaccessibile dalla scienza. Poi, dagli anni settanta, si è affermata la corrente del cognitivismo. Il contenuto della mente veniva studiato come informazione, per mezzo della metafora del computer e del software, ma le emozioni non erano ancora oggetto di attenzione. Quando Goleman scrive, negli anni novanta, è soltanto da pochi anni che l’interesse della psicologia si è concentrato sulle emozioni, sospinto dallo sviluppo delle neuroscienze e dall’avvento delle tecnologie in grado di fornire immagini del cervello vivente.

Da un punto di vista evolutivo, il tronco cerebrale è la parte più antica del cervello, connessa al midollo spinale, e garantisce alcune funzioni fondamentali come il respiro o il metabolismo degli organi. Attorno al tronco cerebrale si sviluppa il sistema limbico, nel quale sono compresi i centri emozionali. Nel corso dell’evoluzione il sistema limbico ha sviluppato delle capacità di apprendimento e memoria, che hanno consentito una maggiore adattabilità del comportamento all’ambiente, sulla base dell’esperienza. Il passo successivo è stato lo sviluppo della corteccia cerebrale, che ha la proprietà di modulare gli impulsi emotivi generati nel sistema limbico, e rende possibile un repertorio più ampio di comportamenti.

Da questa descrizione della struttura del cervello è chiaro che le emozioni non sono un evento secondario rispetto alla vita intellettuale. I centri emotivi erano già vecchi di milioni di anni quando si è sviluppata la corteccia cerebrale, l’organo della razionalità. I circuiti emotivi sono situati nelle radici biologiche più profonde della mente, e l’aspetto esclusivamente razionale non rende conto per intero dei fenomeni che emergono dalla vita della mente. È per questo motivo che uno strumento di indagine come la misurazione del quoziente intellettivo rispecchia soltanto una parte circoscritta delle capacità della mente. Goleman insiste molto su questo punto, ricordandoci che il QI è in grado di spiegare soltanto il 20% dei fattori di successo1, e che l’intelligenza emotiva è un fattore molto importante per la buona riuscita di un progetto di vita.

LA COLLERA

La collera è una delle emozioni fondamentali a cui Goleman dedica più spazio nel corso del libro. La collera è caratterizzata da una concatenazione di pensieri che tendono ad auto-amplificarsi. Ma mano che il monologo interiore rafforza la rabbia, la nostra capacità di giudizio diventa sempre più debole, e la collera diviene più difficile da controllare. La collera ha una natura energizzante, motivo per cui a volte si ritiene benefico darle sfogo, ma questo non rappresenta la soluzione ideale al controllo della rabbia, perché dopo essersi sfogati si può rimanere allo stesso livello di emotività da cui si era partiti, se non più elevato. Per contrastare la rabbia è fondamentale interrompere la catena dei pensieri che la alimenta fin dal suo primo presentarsi, quando lo sviluppo del sentimento è ancora all’inizio. Se questo non funziona, ciò che può aiutare è evitare di alimentare la ruminazione negativa ricorrendo a delle distrazioni. Alcune valide strategie di distrazione possono essere le tecniche di rilassamento, l’attività fisica, leggere qualcosa o guardare la televisione. Quando la collera si sarà calmata sarà allora possibile compiere una riflessione per reinterpretare quanto accaduto, cercando di comprendere il punto di vista della persona che ci ha fatto arrabbiare.

Per un approfondimento su questo tema si possono leggere i nostri articoli:
La Rabbia Repressa
Attacchi di rabbia (e scatti d’ira): come gestirli.
Sfogare la rabbia?
Regolazione emotiva: distrazione e reinterpretazione.

ANSIA E PAURA

Le immagini producono manifestazioni d’ansia più intense rispetto ai pensieri. Per questo le concatenazioni dei pensieri preoccupati possono avere l’effetto di alleviare il sentimento negativo degli stati ansiosi. La riflessione promossa dalla preoccupazione ha la funzione positiva di proporre delle soluzioni per risolvere i problemi da cui scaturisce la paura. Il problema si ha quando la preoccupazione assume forme ripetitive e sterili che non conducono a nessun cambio di situazione. Se il ciclo dei pensieri ansiosi persiste, può dare luogo ad una varietà di patologie quali fobie, ossessioni e attacchi di panico. Le tecniche di rilassamento possono essere d’aiuto per distrarci e spezzare il ciclo dei ragionamenti che producono ansia, così come pure l’uso dei farmaci2. Ciò che però è più importante per affrontare l’ansia in modo sistematico è abituarsi a riconoscere sul nascere i concatenamenti di pensieri ansiosi e ripetitivi, e metterli in discussione cercando visioni alternative.


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TRISTEZZA E DEPRESSIONE

Vi sono delle situazioni in cui l’effetto di una lieve sensazione di tristezza può anche rivelarsi positivo, interrompendo le attività in corso e favorendo un momento di riflessione. Quando però la propensione all’attività diviene patologicamente bassa, allora si parla di depressione. Vengono a mancare il senso del piacere e la speranza, non si riesce più a trovare il valore e il senso di nulla, e si instaura un profondo sconforto unito ad una sensazione di dolore. La depressione è un fenomeno che riguarda più le donne degli uomini. Come nel caso dei disturbi ansiosi, la depressione è caratterizzata dalla frequente esecuzione di pensieri sterili e ripetitivi che non portano a soluzioni concrete. Interrompere le catene di ragionamenti ripetitivi è un passo importante per affrontare la depressione. Questo può essere fatto ricorrendo a distrazioni quali la lettura, piuttosto che il cinema, il sonno, un puzzle o la programmazione di un viaggio immaginario. Le tecniche di rilassamento non sono molto efficaci nel caso della depressione, mentre possono essere utili i confronti verso il basso. Uno dei modi migliori di affrontare la depressione è quello di imparare a riconoscere e perseguire le attività che ci fanno stare meglio. La ricerca dei piaceri sensuali può essere d’aiuto, come pure la pratica dell’esercizio fisico e il raggiungimento di obiettivi che ci siamo prefissati. Molto importante può rivelarsi il prendersi cura di qualcuno, per esempio sotto forma di volontariato. Chi volesse approfondire questi aspetti può leggere il nostro testo “Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione”.

LA RELAZIONE DI COPPIA

La relazione di coppia è una situazione dove si manifestano dinamiche emotive molto importanti, che tendono a modellarsi sulla base delle differenze intrinseche fra uomo e donna. Le donne sono solitamente più empatiche degli uomini, i quali invece faticano a percepire il malessere della propria compagna, e spesso si creano un’immagine più rosea del rapporto rispetto alla situazione reale. Per le donne è molto importante l’intimità che si crea parlando della relazione, mentre gli uomini, “in linea di massima, non capiscono che cosa vadano cercando le loro mogli.” Uno degli atti più negativi che possono avvenire all’interno di una relazione di coppia è l’attacco personale, la critica aspra rivolta alla persona. Al posto di questo meccanismo distruttivo dovrebbero esserci dei rimproveri costruttivi, indirizzati all’azione esatta che ha creato il problema. La formula giusta per esprimere una critica dovrebbe essere del tipo “Quando hai fatto X, mi hai fatto sentire Y; avrei preferito che avessi fatto Z.” Ad esempio: “Quando sei arrivato in ritardo mi hai fatto sentire trascurata, avrei preferito che mi avvisassi in anticipo”.

Quando in una coppia si evidenziano dei problemi, l’approccio più tipico delle donne è quello di cercare un confronto approfondito ed intenso, mentre gli uomini spesso si trovano a disagio in tale situazione, alla quale spesso reagiscono rifugiandosi in comportamenti inespressivi. I problemi nascono quando questi meccanismi diventano sterili e ripetitivi, stratificandosi, e portando i membri della coppia a vivere due vite parallele “sentendosi soli all’interno del matrimonio”.

Gli argomenti tipici su cui la coppia va in disaccordo sono il sesso, l’educazione dei figli e i soldi. Le coppie che funzionano non sono quelle che hanno eliminato il disaccordo, ma quelle che hanno trovato il modo di parlarne, pur mantenendo opinioni differenti.

Vi sono una serie di consigli che si possono dare per migliorare il benessere emotivo della coppia. Gli uomini dovrebbero “guardarsi dal tagliar corto durante la discussione offrendo troppo spesso una soluzione pratica – solitamente, per la moglie, è più importante sentire che il marito ascolta le sue lamentele ed empatizza con i suoi sentimenti (anche se non deve essere necessariamente d’accordo con lei)”. Gli uomini dovrebbero interpretare le critiche come richieste d’attenzione, mentre le donne dovrebbero evitare accuratamente di porre le critiche nella forma di attacchi diretti alla persona.

Nelle discussioni bisognerebbe evitare le divagazioni e affrontare gli argomenti uno alla volta dando al partner la possibilità di esprimersi. Bisognerebbe esercitare empatia, chiedendosi cosa c’è dietro le parole pronunciate. Quando si ha torto si dovrebbe chiedere scusa, ed è utile trovare qualcosa di buono da apprezzare nel partner. Esercitarsi ad assumere il punto di vista dell’altro è una pratica fondamentale, ma non è così scontato riuscirci. Nelle terapie di coppia si suggerisce un metodo chiamato rispecchiamento: “quando un partner dà voce a una protesta, l’altro la ripete con le proprie parole, cercando di cogliere non solo il pensiero che la anima, ma anche i sentimenti che l’accompagnano”.

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L’AMBIENTE DI LAVORO

L’ambiente di lavoro è un’altra situazione tipica dove le dinamiche emozionali sono molto importanti. Quando nell’ambiente di lavoro gli equilibri emotivi sono gestiti in modo inadeguato si verificano dei fenomeni negativi quali una riduzione della produttività, un maggior numero di errori e di scadenze non rispettate, e un elevato numero di persone che scelgono di andarsene in cerca di possibilità migliori.

Un aspetto decisivo della vita emozionale dell’azienda riguarda la comunicazione delle informazioni sgradevoli. Come nel rapporto di coppia, le critiche che assumono il carattere di attacchi personali hanno effetti molto negativi. Le comunicazioni dovrebbero sempre essere specifiche, individuando in modo preciso ciò che va bene e ciò che non va bene. L’esercizio dell’empatia è consigliato per modulare in modo corretto la comunicazione dei problemi. L’indicazione di un problema dovrebbe essere accompagnata da suggerimenti su come è possibile fare meglio le cose. I momenti di comunicazione faccia a faccia e la trasmissione di un feedback frequente sono entrambi fattori che possono migliorare l’ambiente di lavoro.

Le persone che in ambito aziendale riescono meglio sono quelle che si costruiscono una rete di rapporti informali cui appoggiarsi. Queste reti informali possono essere suddivise in tre tipi: le persone con cui si parla, le persone competenti a cui si può chiedere un parere da esperti, e le persone di cui ci si fida. Chi sa costruirsi reti di questo tipo sarà molto più rapido nel raccogliere l’informazione necessaria per far fronte alle situazioni impreviste.

Una parte importante della vita aziendale si svolge in situazioni di gruppo. Ogni gruppo è dotato, per cosí dire, di un suo quoziente di intelligenza, il quale però non è determinato dalla media delle intelligenze di chi vi partecipa. L’intelligenza del gruppo dipende dall’armonia emotiva al suo interno, là dove la presenza di attriti impedisce al gruppo di mettere a frutto le capacità dei membri più capaci. Un buon livello di intelligenza emotiva dovrebbe evitare sia che alcune persone intervengano troppo ed assumano il controllo del gruppo, sia, all’opposto, che alcune persone non intervengano per nulla.

LE EMOZIONI E LA SALUTE

Goleman osserva che abbiamo a disposizione una quantità crescente di evidenze che mostrano come lo stato emotivo influisca in modo concreto sullo sviluppo di molte patologie fisiche. La collera, in particolare, ha un effetto negativo sulle cardiopatie. L’ansia e lo stress invece tendono a compromettere la funzionalità del sistema immunitario. Lo stress rappresenta la reazione alla percezione di un pericolo e rende l’organismo più pronto alla reazione di attacco e fuga (ad esempio alzando la pressione sanguigna). Questo è un vantaggio nel breve lasso di tempo in cui ci si trova di fronte ad un pericolo immediato, ma diventa controproducente quando porta ad uno stato di tensione permanente. L’effetto negativo della depressione sullo stato di salute fisico si manifesta soprattutto quando la depressione è presente insieme ad altre patologie fisiche. In tal caso la depressione è spesso associata a percentuali inferiori di decorso positivo. Un altro fattore molto importante che influenza in modo negativo il corso di una malattia è lo stato di isolamento. Non si tratta tanto di uno stato di solitudine fisica, quanto della mancanza percepita di legami sociali intimi (un approfondimento del legame fra solitudine e depressione si può leggere nel già citato libro sulla depressione).

Goleman suggerisce alcuni provvedimenti che si potrebbero prendere per migliorare l’approccio del sistema sanitario allo stato emotivo dei pazienti. Anzitutto si potrebbero inserire nel percorso di formazione dei medici alcuni momenti dedicati allo sviluppo delle capacità di ascolto ed empatia. L’insegnamento di tecniche di rilassamento ai pazienti può essere utile, soprattutto contro l’ansia e lo stress. I pazienti dovrebbero essere aiutati a porre le domande più efficaci ai dottori, i quali dovrebbero impegnarsi a rispondere in modo esauriente. I dottori dovrebbero anche descrivere con cura il corso della malattia e le condizioni tipiche del periodo di convalescenza. Un altro provvedimento interessante potrebbe essere l’organizzazione degli ospedali in modo da favorire la presenza dei familiari vicino ai pazienti.

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L’EDUCAZIONE

Il cervello umano si mantiene plastico per tutta la durata della nostra vita, ma la plasticità delle strutture cerebrali è particolarmente evidente nelle prime fasi di vita. “Mentre le aree sensoriali maturano nella prima infanzia, e il sistema limbico entro la pubertà, i lobi frontali – sede dell’autocontrollo emotivo, della comprensione e della reazione corticale perfezionata – continuano a svilupparsi fino alla fine dell’adolescenza”3. Nel corso del processo di maturazione le reti nervose del cervello sono più esposte alle influenze dell’esperienza. Ne risulta evidente l’importanza dell’educazione che i genitori impartiscono ai figli.

Goleman si sofferma a descrivere il caso dei bambini oggetto di trascuratezza e di maltrattamenti. Quando i genitori puniscono i bambini in modo arbitrario, questi tendono a sviluppare sentimenti di inutilità ed impotenza. I bambini percossi sono solitamente più problematici e divengono facilmente indifferenti al dolore degli altri. Uno dei problemi principali è la precocità con cui i bambini ripropongono il modello di violenza proposto dai genitori.

Al di là di questi casi più tristi, Goleman considera anche alcuni approcci alle emozioni che si verificano in situazioni più normali, ma che sarebbe meglio evitare. Il primo di questi approcci è quello dei genitori che considerano i problemi emotivi dei bambini come una cosa di secondaria importanza, aspettando che passi. Un secondo approccio è quello di considerare valida qualsiasi strategia per calmare le tempeste emotive, incluso lo scontro fisico piuttosto che mercanteggiare ricorrendo alle lusinghe. Il terzo approccio negativo individuato da Goleman è quello di reprimere con durezza le manifestazioni emotive dei bambini.

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L’approccio migliore sembra essere quello di dare importanza ai turbamenti emotivi del bambino, cercando di comprenderne l’origine, discutendone col bambino, cercando di suggerire delle soluzioni praticabili per calmarsi: “Invece di prenderlo a pugni, perché non trovi qualcosa con cui divertirti da solo finché non ti torna la voglia di giocare ancora con lui?”.

Un caso che richiede delle attenzioni particolari è quello dei bambini timidi. Un bambino su cinque è caratterizzato da una elevata timidezza che sembra avere origini biologiche ed i cui segni si manifestano fin dal primo anno di vita. Sono bambini tendenzialmente silenziosi, dall’atteggiamento reticente, hanno una paura pronunciata dei luoghi sconosciuti e degli estranei, sono predisposti ai sensi di colpa e ai rimorsi, e diventano facilmente ansiosi nelle situazioni sociali. Gli atteggiamenti che in questi casi sarebbe meglio evitare sono l’eccesso di protezione e l’indulgenza nello stabilire i limiti di fronte a potenziali fonti di pericolo. Ciò che funziona invece sono la fermezza nello stabilire i limiti e “una delicata pressione spingendoli a essere più estroversi”.

L’ambiente scolastico è per sua natura una situazione dove si possono intraprendere molte iniziative volte all’alfabetizzazione emotiva. Con i bambini più piccoli il focus cade sulle capacità di riconoscere le emozioni, dando loro un nome e ricollegandole alle proprie esperienze vissute. Si può lanciare il “cubo delle emozioni” e, se esce la tristezza, invitare i bambini a raccontare l’ultima situazione in cui si sono sentiti tristi. Quando si fa l’appello si può chiedere agli allievi di rispondere con un numero da uno a dieci che indica il livello dell’umore, e usare questa indicazione come punto di partenza per possibili approfondimenti. Una strategia generale da seguire è quella di soffermarsi sugli episodi emotivi che avvengono in classe e farne oggetto di discussione comune.

Vi sono alcune strategie semplici ma efficaci che si possono insegnare ai bambini per migliorare il controllo degli impulsi, e che possono essere impiegate per evitare di aggredire, di chiudersi nel broncio o di scoppiare in lacrime. Prima di tutto bisogna calmarsi e descrivere in parole la situazione che ha creato il problema, per poi valutare le alternative e pensare alle conseguenze. Con il progredire dello sviluppo intellettuale dei ragazzi, diventa sempre più importante promuovere la capacità di assumere la prospettiva degli altri.

Per chi fatica ad integrarsi nel gruppo può essere utile una forma di addestramento all’amicizia: “…vennero incoraggiati a pensare a soluzioni e a compromessi alternativi (invece di accapigliarsi), nel caso in cui sorgessero tra loro contrasti sulle regole del gioco; a ricordarsi di parlare con il compagno di giochi e di fargli domande; ad ascoltarlo e a osservarlo per vedere come agisce; a dire qualcosa di gentile quando l’altro bambino fa bene qualcosa; a sorridere e a offrire aiuto, suggerimenti o incoraggiamento.”4

Col passare degli anni i temi affrontati in classe si evolvono in base alle fasi di transizione verso l’età adulta, e l’oggetto della discussione si sposta dalle esclusioni dal gruppo e dalle prese in giro alle difficoltà dei primi appuntamenti, alla gelosia, all’incontro con il sesso, il fumo, l’alcol, le droghe.


PER APPROFONDIRE IL TEMA DELLE EMOZIONI NEI BAMBINI PICCOLI, LEGGI ANCHE: Edward Tronick, le emozioni nei bambini e il momento dell’incontro


COMMENTO

Se volessi essere un poco critico, potrei dire che nel libro di Goleman la sensibilità poetica non è di casa, e ci si trova spesso immersi in un mare di parole che avrebbero bisogno di essere sintetizzate. D’altra parte, se tralasciamo il gusto letterario, bisogna dire che Goleman scrive chiaro, ha una visione ampia dei temi di cui parla, e dice tante cose che riguardano aspetti importanti della vita quotidiana. Rimane dunque un libro da consigliare, e magari anche da regalare.

Detto questo, da quando Goleman ha scritto, nel 1995, di acqua sotto i ponti ne è passata, e le neuroscienze hanno fatto passi avanti. Chi scrive ha per punto di riferimento la visione di Jaak Panksepp, il fondatore delle neuroscienze affettive. Il punto di vista di Panksepp si può trovare sintetizzato nel nostro libro divulgativo “Le emozioni di base secondo Panksepp”.

Ci sono alcune differenze importanti fra la visione di Goleman e quella di Panksepp. In Goleman, ad esempio, passa l’idea che le emozioni siano degli istinti provenienti da un mondo preistorico in cui la vita era più difficile e violenta. Le emozioni sarebbero un residuo obsoleto che bisogna in qualche modo accomodare, se vogliamo vivere una vita di successo nel mondo civilizzato e tecnologico in cui ci troviamo.5 Questa visione è accompagnata da uno spazio argomentativo polarizzato sull’evitamento delle tre grandi emozioni a valenza negativa (rabbia, tristezza, paura) e da una riflessione meno incisiva sulle possibilità di vivere attivamente le affettività positive quali amore, felicità, sorpresa.

Nella visione di Panksepp, invece, le emozioni appaiono come una sorgente primordiale di vita a cui dobbiamo imparare ad attingere. La società non è resa possibile dalla ragione che addomestica degli istinti emotivi pericolosi ed irrazionali. La società è ricondotta invece precisamente all’azione delle emozioni, che ci spingono a cercare gli altri uomini e a costruire legami durevoli. Il ruolo della ragione non è anzitutto quello di dettare le regole che rendono possibile la società, il ruolo della ragione è quello di riconoscere e modulare queste fondamentali sorgenti di vita che sono le emozioni.

Le emozioni fondamentali secondo Goleman e secondo Panksepp

P.S. Per chi volesse leggere il libro originale di Goleman, si tenga presente che Goleman insiste davvero tanto sul ruolo centrale dell’amigdala come sorgente centrale delle emozioni, ma questa è una posizione che oggi non è più sostenibile. Panksepp al riguardo è molto esplicito.6

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1Il restante 80% include fattori di svariata natura, che possono andare dalla famiglia di origine alla fortuna, e includono anche l’intelligenza emotiva.

2Chi scrive preferisce le soluzioni che non ricorrono agli psicofarmaci

3Pagina 366

4Pagina 407, in riferimento ad un corso ideato da Steven Asher (“Helping Children Without Friends in Home and School Contexts”).

5Questo modo di vedere il ruolo delle emozioni è riflesso in modo evidente nel concetto di “sequestro emozionale”, che Goleman impiega molte volte nel suo libro. Questa impostazione alimenta l’idea che le emozioni siano un qualcosa di pericoloso da tenere a bada, e implicitamente le relega ad un ruolo secondario rispetto alla funzione di regia esercitata dalla ragione. In questo modo si ripresenta un dualismo netto fra ragione ed emozioni che lo stesso Goleman in alcuni passaggi denuncia.

6Si consideri il parere di Jaak Panksepp a riguardo del lavoro di Joseph Ledoux, che è uno dei riferimenti principali di Goleman: “Ma ha anche, purtroppo, condotto all’idea sbagliata che l’amigdala sia letteralmente il quartier generale – La Grande Stazione Centrale – per la produzione delle emozioni in generale. Non lo è.”

Jaak Panksepp e Lucy Biven. “The Archaeology of Mind. Neuroevolutionary origins of Human Emotions” (New York e Londra: 2012, Norton & Company) pagina 228.

Diario di viaggio a Porto: Un giorno di mezza estate in Portogallo

Il treno spagnolo della Renfe ha una forma affusolata di un delicato color panna, mentre il treno portoghese, che sta sul binario accanto, assomiglia più ad una simpatica scatola da scarpe gialla, coi bordi arrotondati. Dopo aver trovato la posizione più comoda sul mio sedile, tiro fuori dallo zaino il sacchetto di arachidi salate comprate a Pontevedra, la città spagnola che abbiamo appena visitato. Il problema è che le noccioline hanno ancora la buccia, ed il sale lo hanno messo fuori. Poi quando inizio a sbucciarle capisco il trucco: il sale rimane sulle mani, e da lì passa sulle labbra e sulle noccioline. Geniale.

Il treno si inclina per una curva molto pronunciata, e osservo con curiosità l’angolo che si forma tra il vagone ed i pali della linea elettrica. Proprio mentre ne sto parlando con miss Tímea, sentiamo una botta provenire da dietro. Ci giriamo, e vediamo un uomo robusto, biondo, dall’aspetto anglosassone, che si gratta la testa con un espressione di dolore. E nel mezzo del corridoio c’è una valigia rosa. Anche gli altri passeggeri si girano per capire cosa è successo, e quando il padrone della valigia rosa capisce di essere il colpevole, si sente imbarazzato e cerca di scusarsi offrendo delle patatine all’uomo dal volto anglosassone, il quale cortesemente declina l’offerta.

L’autobus 306 ci porta dalla stazione dei treni di Porto fino a duecento metri dalla sistemazione che abbiamo trovato per la notte. Arrivati all’indirizzo esatto ci troviamo di fronte ad un edificio ricoperto di piccole piastrelle di colore verde, con la porta in ferro verniciata di rosso. Mentre cerchiamo il campanello sentiamo la voce di un uomo che sta camminando verso di noi. È il padrone di casa. Era seduto in un bar lì vicino e ci ha visto passare. Si chiama Celso.

Celso indossa un maglioncino leggero di colore azzurro e grigio. Porta gli occhiali, ha i capelli bianchi e si muove svelto. È gentile ed un poco svampito. Si guadagna da vivere vendendo cose in internet e affittando le stanze con booking.com. Tiene in bella vista la targa con la media delle recensioni ricevute nel 2018. Otto virgola sette.

La casa è accogliente, col pavimento in parquet. La finestra della nostra stanza si affaccia sulla strada, ed è protetta da una grata estensibile di ferro zincato. Per evitare che al mattino entri la luce c’è una grande tenda rossa fissata in alto con degli anelli metallici di color grigio sabbiato. La struttura del letto è realizzata con un tubolare che in parte è di colore ottone lucido ed in parte è verniciato di color panna.

Per andare in cucina si incontra un grosso quadro astratto di colore arancio appoggiato per terra, in fondo a un corridoio. In cucina c’è un tavolo a scomparsa, e si sta un poco alle strette. Oltrepassando la cucina c’è una veranda piena di cianfrusaglie, fra cui una calcolatrice coi tasti meccanici, un vecchio registratore della JVC, tre scatole di giochi da tavolo, due caschi per le biciclette, alcuni mobiletti in legno cesellato accatastati uno sull’altro, e soprattutto tanti libri. Di libri ce ne sono in tutti gli angoli della casa, ordinati in file orizzontali o impilati in colonne verticali. C’è la bibbia, ci sono alcuni libri sulla salute dell’anima, dei dizionari di portoghese, ricettari di cucina vegetariana, libri per bambini, e tante raccolte di autori portoghesi che non conosco.

Al mattino ci tiriamo dietro la porta e lasciamo le chiavi nella cassetta della posta. Le strade di Porto sono tutte un saliscendi, e molte case hanno l’aria un po’ cadente. I muri sono spesso rivestiti con piastrelle di colore tenue oppure intenso, in tinta unita o arabescate. Tipicissime sono alcune chiese costruite in pietra granitica e decorate con grandi disegni azzurri su piastrelle bianche, che a volte si estendono su tutta la parete della chiesa. Li chiamano azulejos.

Gli azulejos di Porto

La gente di Porto si mescola al traffico delle auto creando paesaggi mai banali, anche grazie ai dislivelli che creano continuamente nuove prospettive e scorci di profondità. Ma noi siamo appena stati a Pontevedra, la città famosa per avere un centro storico senza automobili. E allora, anche se qui a Porto il traffico mi sta quasi simpatico, mi pongo delle domande. Mi chiedo come sarebbero queste strade senza le automobili. Ed è mentre cammino compiendo questo esercizio di trasfigurazione che arriviamo nella zona del ponte.

Porto – Il ponte Dom Luís I sul fiume Duero

Porto sorge a cavallo della grande gola in cui scorre il fiume Duero, nel punto in cui il fiume raggiunge l’oceano Atlantico. La gola è profonda cinquanta metri, e le due parti della città che si trovano sui lati opposti del fiume sono collegate da un imponente ponte di ferro costruito a fine ottocento. Il ponte Dom Luís I fa parte della storia dell’architettura in ferro. È stato progettato da un architetto belga che ha collaborato con Gustave Eiffel. Nella parte inferiore del ponte passa il traffico automobilistico, mentre in alto, a 45 metri dal pelo dell’acqua, passano la metropolitana e i pedoni, incanalati in un corridoio largo meno di un metro. Ci andiamo anche noi, ed affacciati alla ringhiera ci lasciamo inebriare dalla sensazione di altezza. Lanciamo una monetina e ne seguiamo la caduta con lo sguardo. La monetina scivola leggera tagliando l’aria, gira su sé stessa lanciando rapidi riflessi, e dopo cinque secondi compare un piccolo schizzo bianco tra le onde scure.

Vicino al ponte c’è la cattedrale (Sé do Porto), che è uno dei monumenti principali di Porto…

(…)

Questo post è un estratto del racconto completo.

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Oslo, le auto, e gli elefanti bianchi

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Arrivo ad Oslo nelle prime ore del mattino. È agosto, fa fresco, si sta bene con la camicia. In aeroporto c’è un grande schermo con un’animazione promozionale. Le viste a volo d’uccello sui fiordi e sui boschi si alternano ai profili delle architetture più moderne. Lo slogan dice che Oslo cambia a vista d’occhio. Questo schermo con l’animazione è posizionato al centro di una grande parete rivestita di muschio finto. Quando però mi avvicino a controllare, vedo che non è finto, è muschio vero incollato su un fondo di sughero. Frugando con le dita se ne staccano dei pezzetti secchi.

La piazza di fronte alla stazione dei treni è circondata da palazzi d’epoca che si alternano a strutture moderne. Nel centro c’è una torre di vetro con il logo della RUTER, che è il gestore dei trasporti di Oslo. Tutt’intorno ci sono strade in leggera pendenza, scalinate, spiazzi, luoghi per sedersi e linee tranviarie che si incrociano. I tram sembrano piuttosto vecchi, mentre gli autobus sono nuovi. Di auto ce ne sono poche, e di queste poche la maggior parte sono dei taxi. Ci sono alcune serie di biciclette parcheggiate, e decine di monopattini elettrici appoggiati nei punti più diversi. E poi, a dare anima a questa varietà di mezzi di trasporto ed architetture, ci sono tantissime persone, che camminano in ogni direzione e che attraversano continuamente la strada.

Oslo, uscendo dalla stazione dei treni.

Avevo in mente di andare subito a vedere l’opera, ma mi lascio attirare dai cartelli che indicano il duomo. La facciata del duomo di Oslo è dominata da una grande torre a sezione quadrata, costruita in mattoni gialli. Nella parte superiore c’è una cupola con un pinnacolo di colore scuro, che arriva in alto e si vede da lontano. L’interno del duomo non è esattamente quello che mi aspettavo. Le pareti sono lisce e con un intonaco color panna, senza decorazioni particolari, a parte cornicioni e finestre. Colonne ed affreschi non ce ne sono, per intenderci. A colpo d’occhio sembra più l’interno di un palazzo sontuoso che non una chiesa. Il soffitto è interamente decorato in uno stile dall’aspetto naif. Ci sono alcune figure sacre realizzate in toni di azzurro, oppure di arancio, oppure di giallo.
L’esterno del duomo è circondato da un porticato con dei negozi e dei caffè, una specie di bazar delimitato da una serie di arcate. Posto nel punto di confluenza di molte vie importanti, è una vista tipica del centro di Oslo.

Dopo aver galleggiato tutto il mattino nelle strade del centro, lasciandomi affascinare dalla gente e dal paesaggio urbano, verso mezzogiorno raggiungo la Deichman bibliotek, che come dice il nome è una biblioteca. Salendo le scale raggiungo le sale di lettura. Le pareti sono alte e ricoperte di scaffali in legno piene di libri. I tavoli in legno massiccio sono lunghi e robusti, con molti posti liberi. Dopo aver messo il telefono sotto carica mi dedico alla lettura dell’opuscolo in inglese dove il governo locale di Oslo descrive il progetto per la mobilità cittadina. Sono una trentina di pagine. È da un mese che ce l’ho nello zaino, e adesso voglio finirlo. Di recente Oslo ha preso iniziative importanti per diminuire il numero di automobili nel centro storico, ed il tema di un possibile progresso senz’auto mi interessa molto. È per questo che sono qui.

Oslo, la libreria Deichman.

Il mantra-messaggio ripetuto cento volte nell’opuscolo è che bisogna costruire un ambiente urbano accogliente per i bambini e per le persone anziane. Il governo locale ha individuato un’area centrale di circa un chilometro quadrato in cui c’è un grandissimo flusso di persone a fronte di un minimo numero di residenti. In tale area sono stati eliminati centinaia di parcheggi comunali per disincentivare le persone a venire in centro con l’auto privata. Sono stati però aumentati i parcheggi disponibili per chi deve fare consegne, per i negozianti che lavorano nel centro, e per le persone disabili. Quello che si vede camminando nel centro è che le strade percorribili dalle auto ci sono ancora, e ci sono anche le auto, ma sono poche, e quelle poche procedono piano. E le aree dove prima c’erano i parcheggi sono diventate dei piccoli parchi e dei luoghi dove è possibile sedersi (ce ne sono davvero molti).

Dopo aver consumato il pranzo seduto su una panchina pubblica dalla forma inusuale, mi avvio verso la zona del lungomare dove si trova il Teatro dell’Opera di Oslo. Per parlare di quest’architettura abbiamo bisogno dello spunto offerto da un grande scrittore. Hemingway, per esempio, aveva scritto un racconto che si intitolava “colline come elefanti bianchi”. Quel che diceva quel racconto, veramente, non è cosí importante. Quello che è importante sono gli elefanti bianchi. Perché quando arrivi al Teatro dell’opera di Oslo te ne accorgi, lo senti. Sono nell’atmosfera. Gli elefanti bianchi sono nascosti dietro gli angoli delle pareti di marmo e di vetro, e proprio quando tu non stai guardando, loro escono dal nascondiglio e si lanciano in una corsa precipitosa, correndo lungo il pendio di granito bianco che scende a immergersi fra le onde. E se tu ti giri di scatto per coglierli sul fatto, loro sono già spariti, si sono già tuffati nelle acque e stanno ormai nuotando verso il largo, confondendosi tra i riflessi lucidi delle onde.

Il Teatro dell’opera di Oslo è costruito in marmi e graniti bianchi, come un palazzo dei ghiacci che sceglie a piacere le sue inclinazioni senza dover rendere conto a nessun angolo di novanta gradi. Nella sua fantasiosa imponenza sembra davvero un luogo dove gli elefanti bianchi possono giocare con leggerezza. È costruito con un grande piano inclinato che scende dal tetto dell’edificio fino al mare, inoltrandosi sotto le onde, formando un bagnasciuga di pietra lungo il quale si può camminare. E dopo aver meditato sulle onde che erodono il granito, si può anche risalire il piano inclinato arrivando fin sul tetto, là dove le silhouette degli uomini contrastano scure contro un cielo che invece è luminoso, come se le favole del nord fossero una cosa vera.

Oslo, sul tetto del teatro dell’opera.

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Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione

Per uscire dalla depressione serve una scelta intima e personale. Poi, per aiutare questa scelta a prendere forma, serve l’informazione giusta.

Come si origina il fenomeno depressivo? Le neuroscienze affettive ci suggeriscono che la depressione è dovuta ad un eccesso di solitudine e ad una mancanza di cura. È da tale suggerimento che nasce la ricerca alla base di questo libro.

Chi ha trovato in sé stesso la volontà di combattere la depressione, ha bisogno di comprendere quali siano i rimedi che funzionano davvero, ed é qui che ci viene in aiuto la scienza: nella letteratura scientifica corrente si trovano molte idee efficaci per affrontare la depressione senza fare uso di medicine.

Un importante passo da compiere é distinguere cosa é depressione da cosa non é depressione. Il malessere di natura depressiva, l’ansia e lo stress sono fenomeni fra loro differenti, che possono essere differenziati grazie ad alcuni sintomi specifici. Dopo avere descritto questi sintomi presenteremo in modo sintetico i principi della terapia cognitivo comportamentale, che è un approccio molto diffuso per la cura della depressione. Faremo quindi riferimento agli sviluppi più recenti delle terapie contro la depressione, come ad esempio l’esercizio fisico, il lavoro sulle abitudini e l’importanza di evitare la ruminazione mentale.

Nella seconda parte del testo ci riallacceremo al suggerimento delle neuroscienze affettive che colloca l’origine della condizione depressa nell’ambito relazionale. Andremo dunque oltre il dato esatto reso disponibile dalle statistiche oggettive e proporremo una visione complessiva che sceglie di vivere la dimensione sociale in maniera positiva, suggerendo un equilibrio tra i momenti di apertura e le situazioni in cui dobbiamo pensare a proteggerci. Parleremo della curiosità, dell’ascolto, della vulnerabilità e di quella occasione di affettività positiva che è il gioco. Introdurremo alcune metafore utili a visualizzare il tipo di lavoro necessario contro la depressione, nella prospettiva più ampia di promuovere una crescita personale di stampo umanista.

La depressione è un male che si può affrontare. Questo libro presenta le idee giuste per mettersi al lavoro, non soltanto per uscire dalla depressione, ma anche per entrare (e restare) nella zona del benessere.

PARTE I: IL CONTENUTO DELLA LETTERATURA SCIENTIFICA

I SINTOMI DELLA DEPRESSIONE

La depressione è un disturbo caratteristico dei nostri tempi. Coinvolge nel mondo circa 270 milioni di persone,1 con un’incidenza maggiore nelle donne rispetto agli uomini. La depressione si presenta spesso insieme all’ansia, ma si tratta di due patologie differenti, ed é dunque utile prendere in considerazione i sintomi che consentono di distinguerle. Va tenuto presente che tali sintomi sono funzionali alla classificazione dei fenomeni psicologici, ma non hanno la pretesa di riassumere in sé le sfumature uniche di ogni esperienza depressiva vissuta in prima persona.

Tra i sintomi tipici della depressione vi sono il sentirsi scoraggiato, il non vedere niente per cui sperare nel futuro, il sentire che la vita non ha significato, il sentire che la propria persona non ha valore, la mancanza di interesse in ogni cosa, l’incapacità di esperire sensazioni positive, la mancanza di iniziativa.

Vi sono poi altri sintomi che possono essere presenti nella depressione ma che sono comuni anche all’ansia e allo stress. Questi sono i disturbi dell’appetito, i disturbi del sonno, la stanchezza eccessiva, la mancanza di interesse per il sesso, la mancanza di concentrazione, l’indecisione, l’agitazione, l’irrequietezza, il senso di colpa, l’irritabilità, il pianto, i cambiamenti di umore.

Un terzo gruppo di sintomi è più specifico dell’ansia. Tra di essi, oltre al trovarsi in situazioni che ci danno ansia, vi sono la sensazione di accelerazione dei battiti del cuore, la sudorazione eccessiva, la secchezza in bocca, le difficoltà di respirazione e ad inghiottire, i tremori alle mani o la cedevolezza nelle gambe, il sentirsi spaventati e il sentirsi prossimi ad una situazione di panico.

LA TERAPIA COGNITIVA

La terapia cognitivo comportamentale, come dice il nome, imposta la cura della depressione agendo sul modo in cui pensiamo (parte cognitiva) e sulle attività che pratichiamo nel corso della giornata (parte comportamentale).

Le persone soggette a depressione hanno tendenzialmente una concezione di sé stesse, del mondo e del futuro eccessivamente negativa. Tale fenomeno costituisce il punto di partenza della terapia cognitiva, la quale si propone di intraprendere una considerazione ponderata delle circostanze reali, con l’intenzione di scoprire che la visione pessimistica del paziente non risponde a come stanno veramente le cose. Nell’ambito del trattamento cognitivo: “Il metodo più comune per valutare il pensiero disadattivo è l’impiego del domandare socratico. Si tratta di porre domande aperte che consentono al paziente di esaminare tutti i lati del proprio pensiero e di trarne conclusioni a riguardo dell’accuratezza ed utilità. Fare domande socratiche aiuta il processo di empirismo collaborativo, nel quale il terapista e il paziente, insieme, assumono un approccio scientifico per esaminare il pensiero del paziente e valutarlo sulla base dell’evidenza e dei dati collezionati.”2

L’approccio tipico della terapia cognitiva è quello di affrontare i meccanismi di pensiero più superficiali e visibili, per poi approfondirli fino a delineare gli schemi concettuali più generali impiegati dal soggetto in esame. Nell’ambito di questo processo terapeutico si possono evidenziare alcuni meccanismi specifici che andrebbero ristrutturati. Se ne ha un esempio quando l’attenzione si rivolge sempre agli stessi fenomeni, evitandone altri senza che ve ne sia un motivo giustificante, oppure quando il paziente impiega dei presupposti errati, oppure ancora quando il paziente ripete in automatico delle sequenze di ragionamento che si rivelano essere sbagliate se osservate con un minimo di riflessività. Tali ragionamenti fallaci possono porsi in una forma del tipo se-allora, come in questo esempio: “Se non ho l’approvazione di tutti, allora io non ho valore”

Oltre ad eseguire un appello ad esaminare l’evidenza, il terapista cognitivo può anche porre l’invito a sviluppare interpretazioni alternative, e a chiedere come la situazione corrente verrebbe giudicata da un amico o da una persona che stimiamo. Là dove però la visione del paziente corrisponde alla situazione reale (e non é solo il frutto di distorsioni introdotte da un modo di pensare pessimistico) allora si propone un lavoro sulle capacità di problem solving.

IL PROBLEM SOLVING

Il problem solving si organizza in alcuni temi fondamentali, uno dei quali è la gestione del sovraccarico cognitivo. Quando abbiamo troppe cose da fare e problemi da risolvere, i metodi che possono aiutare sono “…esternalizzare (disegnare, scrivere), visualizzare (chiarificare meglio il problema, immaginare soluzioni concrete) e semplificare (dividere i problemi in parti più piccole)…”

Ci sono due atteggiamenti che sarebbe bene evitare nel modo di porsi ai problemi. Il primo di questi è lo stile impulsivo, che tende a mettere in atto la prima soluzione che ci viene in mente anziché eseguire un confronto fra più alternative. Il secondo invece, é lo stile evitante, che rimanda il problema ad un momento successivo, oppure all’azione di qualcun altro.

Nell’ambito del problem solving si invita ad avere un’attitudine positiva nei confronti dei problemi, considerandoli come risolvibili, accettando la necessità di compiere uno sforzo per venirne a capo, e facendosi una ragione degli eventi negativi, i quali sono da re-interpretare come una fonte di informazione sul percorso da compiere.

LA TERAPIA COMPORTAMENTALE

La terapia comportamentale non si focalizza sul modo di pensare, bensì sulle attività nelle quali spediamo il nostro tempo. L’obiettivo è diminuire i comportamenti che rafforzano la depressione, e di favorire invece il coinvolgimento in una serie di attività con un valore “adattativo, che spesso sono quelle associate al provare piacere o al senso di padronanza”.

Per mettere in atto tale trasformazione del comportamento, che viene chiamata anche attivazione comportamentale, viene impiegata una strategia di auto-osservazione delle attività intraprese e dell’umore ad esse associato. Praticamente si tiene un diario per capire quali sono le attività che ci fanno stare meglio. Segue una fase in cui si pianificano le attività da compiere e si affrontano i problemi che ostacolano l’accesso alle attività positive, come ad esempio la tendenza all’evitamento.

(…)

L’ESERCIZIO FISICO

Nel 1979 è stato scritto un articolo che parlava della possibilità di usare la corsa come rimedio contro la depressione. Negli anni successivi si è sviluppata un’attenzione crescente alla possibilità di impiegare l’esercizio fisico come terapia per i disturbi di natura depressiva, e negli ultimi anni si sono resi disponibili un gran numero di esperimenti e di meta-analisi su questo argomento…

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1 Il testo che state leggendo nasce dall’analisi di piú di quaranta articoli accademici di recente pubblicazione. La bibliografia completa si trova nella pubblicazione disponibile su Amazon.

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Per un progresso senz’auto

Alcuni spunti dal caso di Bergamo

A me piace camminare come forma di esperienza fondamentale, e il mio stile di vita si posiziona al polo opposto di un mondo costruito in funzione dell’automobile privata. Amo i voli low cost, adoro studiare negli scompartimenti dei treni e mi piace soffriggere cipolle e carote nelle cucine degli ostelli. Credo in un uso parsimonioso degli spazi e delle risorse, nella cultura dello sharing, nell’incontro vero con le persone, nell’empatia attraverso la voce e i volti.

Io vivo a Szeged, in Ungheria, dove di auto ce ne sono meno che in Italia. I miei vecchi amici ed i parenti si trovano a Bergamo e a Brescia, e tutte le volte che torno a trovarli mi trovo a disagio per il traffico eccessivo a cui non sono più abituato. Sento di trovarmi in luoghi che non sono stati progettati per accogliere le persone, ma per accogliere le automobili. E non capisco come ciò sia possibile.

Di recente ho saputo del grande parcheggio che stanno costruendo sulle mura venete che circondano città alta, che sarebbe il centro storico e artistico della città di Bergamo. La mia fantasia politica mi ha spinto a scrivere il testo di un ipotetico volantino contro questo parcheggio. Tale testo è stato poi postato sul gruppo facebook noparkingfara, e lo ripropongo qui di seguito, perché mi pare che le idee esposte valgano in generale, non soltanto per il caso di Bergamo.

Lettera ai Bergamaschi, sul parcheggio in città alta.

Febbraio 2019

Io non sono Bergamasco, e vivo in Ungheria, ma vengo spesso a Bergamo per incontrare degli amici importanti. Volando frequentemente mi è molto chiara l’importanza dell’aeroporto di Orio al Serio. Questa struttura avvicina Bergamo all’Europa, con effetti benefici sull’anima dei viaggiatori e sulle tasche degli imprenditori. Purtroppo però, non tutte le ciambelle riescono col buco, e vi sono anche scelte politiche che allontanano Bergamo dai migliori modelli di progresso sostenibile.

Nella città ungherese dove vivo, Szeged, non ci sono molte auto, e questo mi rende un camminatore felice. Quando arrivo a Bergamo invece, ho sempre una reazione di rigetto per tutte queste auto che mi passano vicino. All’improvviso non posso più credere che le strade siano un luogo amico, e paradossalmente mi sento più straniero qui a Bergamo che in Ungheria. Detto questo, qualcuno potrebbe anche osservare che si tratta di un problema circoscritto alla mia personale sensibilità, ma ci sono alcune parole che vorrei spendere al riguardo.

Se qualcuno di voi che legge questo volantino è leghista, allora mi permetto di ricordargli che le radici spirituali di questo movimento stanno nel considerare la città come il principio organizzatore della vita politica. Era Cattaneo che lo diceva, facendone una caratteristica tipica dell’essere italiano. E allora la propria città uno la deve amare, ed amarla significa camminarci dentro andando a curiosare in ogni vicolo stretto. Non significa impermeabilizzarsi dentro una scatola di latta semovente. Non significa costruire strade che appartengono alle automobili. Chi ama una città le vuole stare vicino, non se ne vuole separare. E quel parcheggio là in città alta è un incredibile segno che qualcosa funziona storto nel nostro modo di amare la città.

Se poi qualcuno di voi che legge questo volantino è cattolico, vorrei ricordargli che la fede non può fiorire se l’anima appassisce. E se portate in giro l’anima con la scatola di latta semovente, è come mettere una pianta viva in un armadio. Le foglie si fanno tristi verso il basso, lo stelo dei fiori si incurva, e qualche macchia scura nasce a rovinare il verde che respira. Perché le manca il sole.

Se poi ancora qualcuno di voi che legge questo volantino è di sinistra, allora forse servirà a qualcosa osservare che una città dove lo standard è l’automobile esclude chi non ha i soldi per comprarla (o lo spinge a indebitarsi per averne una). Senza contare che si crea un ambiente dove le persone sono più separate e deboli. Io immagino una città destinata anzitutto ai camminatori, non alle scatole di latta semoventi. Queste riacquistano dignità solo grazie allo sharing, al servizio pubblico, all’assistenza dei disabili, e alle località isolate.

Se qualcuno di voi ha problemi di salute, probabilmente avrà anche un dottore, ed è con lui che deve parlarne. Ma vorrà anche sapere che le istituzioni più importanti raccomandano l’attività fisica per prevenire una serie di patologie, fra cui quelle cardiovascolari e la depressione. Camminare è una delle attività fisiche che si possono fare per questa prevenzione (oltre ad essere una gioia per chi lo vuol capire). La scatola di latta semovente invece, non è un attività fisica. Che sia scassata col logo dei poveri, o superlucida col nome importante, non fa differenza.

Se qualcuno di voi che legge questo volantino ha tanti soldi e pensa che il parcheggio in città alta sia un buon affare, forse si è dimenticato di considerare che di affari ce ne sono tanti, e andarsi a scegliere quello che rimane indifferente alle persone non paga. Non sarebbe più intelligente scegliere dei progetti un po’ più avanti, di cui potersi vantare di fronte ai propri concittadini, anziché nascondersi nel dirlo?

Viviamo in un un mondo che si muove. Viviamo in un mondo di mille città, dal Brasile all’India agli stati del Nord Europa. E queste mille città si guardano l’un altra per capire chi fa le scelte giuste. È questo il vero mercato su cui dobbiamo immaginarci. È qui che dobbiamo venderci. Ma come si fa a presentarsi in questo contesto di livello internazionale, se rimaniamo attaccati a un’idea così farlocca come un parcheggio per le auto in città alta? Da chi vogliamo farci ridere dietro?

Se poi qualcuno di voi pensa che tanto ormai il parcheggio lo stanno costruendo, allora non avete capito che la città delle auto è un errore del novecento. L’automobile personale ha segnato il novecento, ovvero il secolo scorso, ma ora non siamo più nel novecento. E abbiamo imparato quanto la scatola di latta semovente faccia male alle sorgenti dell’essere uomo, rendendolo una creatura separata. E se il parcheggio lo apriranno, io mi metterò a fare meditazione, desiderando per il futuro una giunta comunale all’altezza della città dei mille, che metta pressione sul parcheggio con tutti i provvedimenti legalmente possibili. Proponendo già da ieri la riconversione a progetti alternativi. E facendo pubblicità ai posti dove vivono meglio perché hanno capito che la città delle auto è un errore del novecento.

Manuel Cappello

Post Scriptum

Dopo aver scritto questo testo ho iniziato a cercare informazioni sulle città in cui si stanno facendo passi concreti per creare un contesto urbano finalizzato ai camminatori, anziché alle scatole di latta semoventi. Per esempio Oslo in Norvegia piuttosto che Pontevedra in Spagna. Ho anche comprato i biglietti aerei per andare a visitare queste due città nei prossimi mesi, e mi riprometto di scrivere un post per descrivere quello che vi troverò.

***

Post Post Scriptum

Questo è l’articolo dove puoi trovare descritta la mia esperienza a Pontevedra:

Pontevedra città senz’auto. Un diario di viaggio.

Diario di viaggio ad Atene: una lettera bruciata nei pressi degli dei

Per Natale avremmo dovuto essere in Senegal, ma all’inizio di dicembre Miss Timea ha iniziato a fare degli esami medici, ed il giorno 19 le hanno trovato nel sangue i marcatori del tumore. Nel giro di due giorni è stata operata d’urgenza. È stata l’ultima operazione che hanno fatto prima di chiudere la sala operatoria per le feste. Ricordo che dopo l’operazione Miss Timea era quasi orgogliosa del suo taglio verticale sul ventre, come i bambini con le sbucciature. Le hanno dato diciassette punti. Poi i primi giorni di gennaio sono arrivati i risultati delle analisi, e adesso sta facendo la chemioterapia. Nella disavventura c’é di buono che Miss Timea regge bene ai farmaci della chemio, e continua ad uscire di casa tutti i giorni. Cosí abbiamo deciso di non rinunciare al viaggio ad Atene.

(…)

All’atterraggio il tempo atmosferico è incerto tra il sole e la pioggia. La luce del tardo pomeriggio è intensa di colori. Tra lo scuro del cielo, il verde dell’erba e qualche campo dorato, Miss Timea è felice di scorgere il punto esatto dove comincia l’arcobaleno. Dai corridoi vetrati dell’aeroporto osserviamo la pista ancora bagnata che riflette gli aerei e il cielo.

Atene, riflessi in aeroporto.

Sull’autobus che ci porta in centro apro un sacchetto di noccioline. Nonostante le precauzioni, dopo venti minuti mi guardo tra i piedi e vedo quello che non dovrebbe esserci. Di fronte a me c’è una coppia di asiatici che stanno seduti in una posizione molto composta. Spero che non mi notino mentre mi piego in avanti e soffio con forza per disperdere le bucce delle noccioline. Poco dopo il misfatto, l’autobus si ferma in un punto non previsto, l’autista dice qualcosa in greco, e vediamo che molti passeggeri iniziano a scendere. Non sappiamo perché, ma l’autobus non proseguirà la corsa, e per arrivare a destinazione dobbiamo prendere la metro.

La prima vista che ci offre Atene é uno scorcio in lontananza dei muri dell’acropoli, illuminati nella sera, sui quali si erge la sagoma di un tempio che non saprei riconoscere. La pioggia scende leggera. Dopo un minuto di contemplazione tiriamo fuori l’ombrello e iniziamo a camminare. Considerando che siamo in una zona centrale, gli edifici che ci circondano hanno un’aspetto piuttosto anonimo. Entrati nel primo supermercato che troviamo sulla strada, mi viene la curiositá di controllare i prezzi. Non mi sembrano molto economici. Un barattolo di fagioli rossi costa un euro e quarantaquattro.

A settembre dell’anno scorso abbiamo iniziato ad usare couchsurfing, e subito ce ne siamo innamorati. É un modo splendido per viaggiare incontrando le persone, ma per questa volta siamo tornati a scegliere un ostello. Gli incontri di couchsurfing sono preziosi, ma anche impegnativi, e con la chemio di Timea non abbiano tanta energia a disposizione. L’ascensore del palazzo dove siamo alloggiati è privo della porta interna, e mentre saliamo si vedono scorrere le pareti dei piani che attraversiamo. Sembrerebbe pericoloso. Alla reception ci accoglie Panos, che è un poco incerto e distaccato quando gli stringiamo la mano nel presentarci, ma poi sorride e diventa simpatico.

Miss Timea ha iniziato a fare meditazione con il metodo Silva alcuni anni fa, e da quando è entrata in chemioterapia la usa come metodo di guarigione. Per quanto riguarda me, ho iniziato a meditare solo da una ventina di giorni, da quando mi è successo di vedere alcuni video di Marco Guzzi. Marco Guzzi è un poeta filosofo di area cattolica, che riesce a presentare la meditazione come uno sviluppo spirituale completamente calato nella situazione storica contemporanea.

Su una parete della nostra stanza è dipinto un vaso di fiori coi petali arancio ed i pistilli neri. Questi ultimi si rivelano essere un punto adatto su cui fissare lo sguardo durante la meditazione. Mentre medito, all’immagine dei fiori si aggiungono delle voci che provengono dall’esterno. Mi piace concentrarmi su queste parole che non capisco, e provo ad intuirci la radice fonetica della bellezza unica della lingua ellenica. Poi dopo, scopro che sono le voci di quattro uomini curdi che stavano preparando la cena.

Finita la meditazione ci facciamo vedere un paio di volte in cucina, e quando i curdi ci lasciano campo libero, ci mettiamo a cucinare. Le manopole della piastra elettrica, piuttosto vecchia, hanno delle indicazioni ambigue, e dobbiamo fare alcune prove prima di capire come funzionano. Magari stando attenti a non scottarsi. Con un coltello che taglia a fatica affettiamo le carote e le cipolle, nonché la barbabietola e l’aglio in funzione anti-tumore, e completiamo l’imbanditura della tavola con la birra al limone e una candela.

Sabato mattina le insegne scritte con le lettere greche ci danno la strana impressione che tutti i negozi siano delle farmacie. La pioggia fine ci consiglia di andare in un luogo coperto, come per esempio il centro culturale Stavros Niarchos, ma prima ci fermiamo a fare una passeggiata nei dintorni dell’acropoli. Camminiamo tra pendii molto lievi, in un bel viale circondato da una macchia di olivi e conifere, tra i quali si intravedono numerosi sentieri. Sulla destra abbiamo l’acropoli e sulla sinistra alcune ambasciate, ma anche qualche palazzo con l’aria cadente col portone di legno scrostato. Sotto le nuvole grigie un uomo col violino suona la melodia di bella ciao, e la moneta da un euro cade volentieri nella custodia aperta sul selciato.

Il centro Stavros Niarchos sta in riva al mare, e per raggiungerlo dobbiamo prendere un filobus. Su Google non ci sono gli orari aggiornati, e alla fermata non c’è l’indicazione dei prossimi arrivi, ma ci rassicura il fatto che un altro uomo stia lí ad aspettare insieme a noi. Arrivati nei pressi del centro culturale vediamo da lontano una grande vela rettangolare che copre una moderna architettura di vetro posta in cima ad un colle. Il sentiero che percorriamo sale attraversando un giardino ben ordinato di arbusti ed olivi, e passo dopo passo siamo sempre più esposti al vento. Arrivati in cima ci voltiamo indietro per goderci la visione comprensiva della conca in cui sorge Atene. Il brulicare bianco degli edifici riempie tutta la pianura disponibile e si espande abbarbicandosi sui fianchi delle montagne che circondano la conca. Dallo spazio della pianura emergono diverse colline, fra cui, nel centro, quella inconfondibile dell’acropoli.

Atene, la salita al centro Stavros Niarchos.

Sull’altro lato del colle il panorama abbraccia un’ampia porzione della costa, lungo la quale lunghe file di barche stanno agli ormeggi. Fissata al parapetto c’è una piastra metallica su cui è disegnato il profilo dell’orizzonte col nome dei luoghi. Tra il mare e la foschia provo a riconoscere la sagoma di Salamina e le propaggini del Peloponneso.

Guardandoci in giro ci rendiamo conto che il pendio su cui siamo saliti è in realtá il tetto dell’edificio che ospita il centro culturale. È molto più grande di quanto pensavamo, e al piano terra c’è pure la pista di pattinaggio. La copertura a vela che abbiamo raggiunto è solo una piccola parte dell’imponente complesso architettonico.

Entrati all’interno raggiungiamo la zona della biblioteca, che è distribuita su più piani, in una composizione di legni chiari, pareti bianche e molteplici punti luce. Distribuite nello spazio ci sono delle bellissime poltrone squadrate realizzate in una gomma morbida e colorata. Me ne innamoro al volo. Praticamente sono come un grande cubo nel quale è stato scavato uno spazio in cui ci si può sedere. I braccioli costituiscono un grande piano di lavoro su cui appoggiare astucci, libri, telefoni o netbook. Lo spazio per la seduta è abbastanza accogliente perché ci si possa stare anche a gambe incrociate.

Atene, le poltrone cubiche dentro la biblioteca.

(…)

Domenica mattina notiamo lungo la strada un locale dove fanno le scommesse. È tappezzato di specchi da tutti lati (cosí sembra piú grande), e ci sono dei tavoli disposti in file ordinate su cui sono appoggiati dei supporti con schede e penne per giocare. Alle pareti sono fissati degli schermi con le tabelle dei numeri e gli schemi di gioco. Qualche uomo di mezza età si aggira negli spazi tenendo d’occhio la situazione. Ci piacerebbe provare a giocare con pochi euro, ma non ne abbiamo il tempo.

Oggi è il giorno dell’acropoli. L’abbiamo guardata dal viale sottostante, dal centro Niarchos, e dal monte Licabetto, e ora l’aspettativa è molto alta. A raffreddare il mio entusiasmo ci pensa il cartello con le tariffe d’ingresso. La prima cosa che vedo è un prezzo di trenta euro a persona. Poi leggo i dettagli e capisco che quella è la cifra per avere accesso a tutte le aree e a tutti i musei. Inoltre ci sono riduzioni per gli studenti, e poi d’inverno i prezzi sono più bassi. Il cassiere, rintanato nel suo gabbiotto, porta gli occhiali da sole anche se del sole non c’è traccia. E fa il sostenuto come se fosse Ray Charles nel film dei Blues Brothers. Poi però fa entrare Miss Timea gratis (con la tessera studenti) ed io me la cavo con dieci euro.

Salendo lungo il sentiero si sentono voci che parlano le lingue di molte nazioni del mondo, e anche di molte regioni d’Italia. All’ingresso dell’acropoli ci stanno le imponenti strutture dei propilei, da cui lo sguardo si volge verso il basso abbracciando tutta la zona dell’agorà sottostante, incluso il tempio di Efesto. Una volta giunti sulla sommitá camminiamo lungo il parapetto in senso antiorario, osservando a destra la città sottostante e a sinistra le facce del Partenone, dentro cui si trova una vecchia gru per la movimentazione dei massi. Proseguendo troviamo alcune panchine parzialmente riparate dal vento, dove mi siedo a fare la mia meditazione quotidiana fissando un capitello spezzato del Partenone, in cima ad una colonna d’angolo, così che ne posso contemplare i volumi sullo sfondo del cielo e delle nuvole. Mentre io me ne sto lì immobile Miss Timea mangia del pane con la crema d’olive e una spezia mista ungherese che si è portata appresso. I piccioni sentono il profumo del pane, e più di una volta passano da parte a parte il campo visivo del mio meditare. Quando suona l’allarme dei venti minuti, faccio fatica a sentire con le dita la vibrazione del telefono, perché il freddo mi ha intorpidito le mani.

Lì vicino, ad un’estremità dell’acropoli, c’è una terrazza rotonda con una grande bandiera della Grecia. Bianca ed azzurra, è alta almeno quattro metri, ma il vento è forte e non ha problemi a tenerla distesa. Il sole litiga con le nuvole per lanciare chiazze di luce su qualche quartiere della città sottostante, mentre sull’acropoli i raggi del nobile astro ci fanno soltanto uno scherzo di pochi secondi. Porgiamo cosí il nostro saluto alle cariatidi dell’Eretteo (sono quelle sei statue di donna usate come colonne che si vedono spesso sulle cartoline), e poi é tempo di scendere a cercare un posto dove sedersi al caldo.

Atene, l’acropoli vista dall’Areopago

Giunti ai piedi dell’acropoli notiamo una grande roccia che si alza di alcuni metri sul territorio circostante. È l’Areopago. Ci arrampichiamo sui gradini scolpiti nella pietra, e una volta sopra ci giriamo a guardare l’acropoli. Finalmente ci troviamo davanti quello che aspettavamo. È la visione perfetta. Il bosco verde che copre le pendici dell’acropoli costituisce il fondo da cui si elevano i muri di sostegno dei propilei ed i propilei stessi, coi loro volumi e con le colonne ordinate. Sulla destra, prossimo allo strapiombo, sta il piccolo tempio di Atena Nike, che si staglia contro le nuvole bianche e il cielo grigio-azzurro. Sembra un luogo da cui si può parlare agli dei. E sembra che quelle architetture siano state pensate per essere guardate proprio dal punto dove ci troviamo. Ora questo viaggio ha un cuore.

(…)

Quello che hai letto è un estratto del racconto completo.

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IN SPAGNA, A SANTIAGO E FINISTERRE: IL PELLEGRINO E IL MARE

Le onde dell’oceano si fanno sentire a centinaia di metri di distanza. Per raggiungere la spiaggia percorriamo un sentiero costeggiato dai rovi con le more rosse e nere. Ci togliamo le scarpe e i sandali per camminare meglio nella sabbia. Le dune sono cosparse di vegetazione, e stiamo attenti a non calpestare le piante grasse. Gli scogli, in lontananza, sono avvolti da una nebbia sottile. Arrivati sul bagnasciuga ci mettiamo a camminare all’indietro, fotografando le nostre impronte cancellate dall’acqua. Dobbiamo alzare la voce per riuscire a sentirci… leggi il racconto di questo viaggio

Finisterre, vista dal faro

ATENE: UNA LETTERA BRUCIATA NEI PRESSI DEGLI DEI

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Atene, l’acropoli vista dall’Areopago

OSLO, LE AUTO, E GLI ELEFANTI BIANCHI

Il Teatro dell’opera di Oslo è costruito in marmi e graniti bianchi, come un palazzo dei ghiacci che sceglie a piacere le sue inclinazioni, senza rendere conto a nessun angolo di novanta gradi. Nella sua fantasiosa imponenza sembra davvero un luogo dove gli elefanti bianchi possono giocare con leggerezza. È costruito con un grande piano inclinato che scende dal tetto dell’edificio fino al mare, inoltrandosi sotto le onde, formando un bagnasciuga di pietra lungo il quale si può camminare… leggi il racconto di questo viaggio

Oslo – il teatro dell’opera

UN GIORNO DI MEZZA ESTATE A PORTO, IN PORTOGALLO

…Nella parte inferiore del ponte passa il traffico automobilistico, mentre in alto, a 45 metri dal pelo dell’acqua, passano la metropolitana e i pedoni, incanalati in un corridoio largo meno di un metro. Ci andiamo anche noi, ed affacciati alla ringhiera ci lasciamo inebriare dalla sensazione di altezza. Lanciamo una monetina e ne seguiamo la caduta con lo sguardo. La monetina scivola leggera tagliando l’aria, gira su sé stessa lanciando rapidi riflessi, e dopo cinque secondi compare un piccolo schizzo bianco tra le onde scure… leggi il racconto di questo viaggio

Porto – il ponte Dom Luís I sul fiume Duero

CINA: XIAMEN

Ho preso d’urgenza un volo verso la Cina per fare assistenza tecnica presso un nostro cliente di Xiamen, una città situata sulla costa nella parte meridionale del paese. Xiamen ha vinto il premio di città più pulita della Cina ed è considerata una località turistica. Insieme a me c’è un ragazzo di venticinque anni, un simpatico bergamasco introverso di nome Roberto.[1] Nell’area del ritiro bagagli facciamo subito la prima conoscenza: Giuliana. Anche lei è bergamasca, e lavora qui per controllare le produzioni di un’azienda italiana di abbigliamento… leggi il racconto di questo viaggio

Xiamen, Cina, il tempio di Nanputo

Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

Le emozioni nascono da come percepiamo le situazioni in cui ci troviamo. Da ciò seguono due possibilità fondamentali di regolare l’emotività: possiamo intervenire sulla situazione materiale, oppure sul nostro modo di interpretarla.

Per intervenire sulla situazione possiamo decidere quali sono i luoghi ed i contesti sociali che vogliamo frequentare, oppure possiamo agire fisicamente per cambiare la situazione corrente. Per intervenire sull’interpretazione possiamo distogliere l’attenzione da ciò che ci dà più fastidio, oppure fare uno sforzo di re-interpretazione, ad esempio cercando di capire le ragioni di chi ci ha fatto arrabbiare. Un’altra possibilità è quella di modificare il comportamento che segue alla percezione di una certa emozione, per esempio dissimulando la rabbia anziché manifestarla.

Nel suo articolo sulla regolazione delle emozioni,1 James Gross si dilunga molto sulle possibilità di modellizzare questi aspetti. Da un punto di vista concreto mi pare che vi siano almeno un paio di indicazioni interessanti da riportare. La prima è che la soppressione delle emozioni negative (rabbia, ansia, paura) non è generalmente una strategia valida. La seconda è che la reinterpretazione della situazione non funziona bene quando l’emozione che si vorrebbe ridurre è intensa, là dove invece ciò che funziona bene è la distrazione. Il suggerimento di Gross è dunque quello di approcciare le situazioni che generano emozioni negative intense con una fase di distrazione seguita da una successiva reinterpretazione.

A questa indicazione di Gross vorrei aggiungere alcune osservazioni. Per distrarsi dal pensiero di un evento che ci ha fatto arrabbiare, la strategia più valida non è il rifiuto esplicito di pensarlo, quanto piuttosto lo spostamento dell’attenzione su un’alternativa nella quale coinvolgersi.2 Dovendo dunque scegliere un’alternativa, mi sembra logico scegliere di focalizzarsi su una forma di esperienza che abbia radici profonde e robuste nella nostra organizzazione psichica. Ad esempio, possiamo concentrarci su un’emozione fondamentale alternativa alla rabbia, quale è il prendersi cura di qualcuno (il prendersi cura è un’emozione fondamentale secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp).

Quando poi viene il momento di reinterpretare un evento che ci ha fatto arrabbiare, una strategia premiante è, come già accennato, cercare di capire le ragioni di chi ci ha fatto arrabbiare. Questa strategia però non è sempre semplice da attuare. Può allora essere d’aiuto se per un momento accettiamo di vestire i panni di Socrate e ci rendiamo conto di non sapere. Se noi pensiamo di aver capito già tutto di quella persona che ci ha fatto arrabbiare, allora non ci sarà spazio per la reinterpretazione. Dobbiamo prima riconoscere di non sapere i motivi esatti che la spingono ad agire. Solo così potremo attivare la curiosità (la curiosità è legata all’emozione della ricerca/voglia di fare, che rappresenta un’altra emozione fondamentale nell’ambito delle già citate neuroscienze affettive) ed assumere uno sguardo alternativo a quello della rabbia.

Riassumendo: quando ci prendiamo cura di una persona a noi cara ne riceviamo una gratificazione ed un significato profondo, il quale funziona bene come punto di ripartenza per staccarsi dal vissuto negativo che vogliamo lasciarci alle spalle. Quando poi torniamo a riflettere su tale vissuto, può essere utile richiamarsi alla formula socratica del sapere di non sapere. Questa favorisce la curiosità e una reinterpretazione efficace della situazione, non eccessivamente centrata su sé stessi.

POST SCRIPTUM: IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE RELAZIONALE

Credo opportuno soffermarsi anche su di un altro aspetto. Abbiamo già accennato al fatto che quando si cercano alternative robuste alla ruminazione sulle emozioni negative sarebbe meglio sintonizzarsi su dimensioni del vivere profondamente radicate nella nostra interiorità. Per questo ha senso praticare il prendersi cura di qualcuno, in quanto si tratta di un’emozione fondamentale (al pari di quelle negative che si vogliono contrastare), anziché imbarcarsi in una lunga razionalizzazione che rischia di alimentare la ruminazione negativa.

A questo va aggiunto che tipicamente le emozioni emergono da una situazione sociale, e che l’essere in situazione sociale è un tratto profondo della nostra esperienza di vita, ad esempio più dei concetti astratti e della razionalità, i quali arrivano nella nostra vita molto tempo dopo la predisposizione a cogliere la presenza degli altri individui. Non solo, la predisposizione alla relazione è anche indipendente dal sistema degli oggetti materiali, ai quali a volte diamo troppa importanza (creando i presupposti di conflitti che generano emozioni negative).

Quanto appena detto può essere scontato per qualcuno, ma non per tutti. A tal riguardo vale la pena ricordare che il bambino piccolo può sviluppare una comprensione adeguata degli oggetti materiali solo dopo che ha imparato ad afferrarli e ad osservare le conseguenze delle sue manipolazioni.3 Per quanto riguarda invece la predisposizione a polarizzare l’esperienza attorno agli altri individui, è dimostrato che il neonato sviluppa un’attenzione preferenziale alla forma del volto ancora prima della nascita.4 L’importanza della relazione con le altre persone non è costruita sul mondo materiale, bensì una radice indipendente del vivere.5 6 Credo che questo sia un aspetto importante da comprendere per chi vuol venire a capo della propria emotività senza lasciare fuori qualche pezzo troppo importante.

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1James J. Gross (2015) Emotion Regulation: Current Status and Future Prospects, Psychological Inquiry, 26:1, 1-26, DOI: 10.1080/1047840X.2014.940781

2Mann, T., de Ridder, D., & Fujita, K. (2013). Self-regulation of health behavior: Social psychological approaches to goal setting and goal striving. Health Psychology, 32(5), 487-498. http://dx.doi.org/10.1037/a0028533

In questo articolo gli autori notano che “Specificare cosa non fare sembra avere un effetto contrario, perché dà risalto alla tentazione, rendendola più desiderabile e più difficile da controllare” e “Poiché gli obiettivi di raggiungimento tendono ad essere più efficaci degli obiettivi di evitamento, una strategia di intervento potrebbe essere di riformulare gli obiettivi di evitamento in obiettivi di raggiungimento”

Il contesto non è quello della regolazione delle emozioni negative, ma si tratta comunque di evitare il coinvolgimento in una concatenazione di pensieri che tendono ad instaurarsi ma che preferiremmo evitare.

3Larry Fenson & Robert E. Schell (1985) The origins of exploratory play, Early Child Development and Care, 19:1-2, 3-24, DOI: 10.1080/0300443850190102

4Vincent M. Reid, Kirsty Dunn, Robert J. Young, Johnson Amu, Tim Donovan, Nadja Reissland, The Human Fetus Preferentially Engages with Face-like Visual Stimuli, Current Biology, Volume 27, Issue 12, 2017, Pages 1825-1828.e3, https://doi.org/10.1016/j.cub.2017.05.044.

5Confronta: “Dunque, la teoria dell’attaccamento riflette uno stacco dalla teoria della dipendenza e degli istinti collegata ai bisogni fisiologici, in direzione di una teoria di risposte istintuali primarie che funzionano per promuovere l’interazione sociale, comparativamente indipendente dai bisogni fisiologici”

Victoria A. Fitton (2012) Attachment Theory: History, Research, and Practice, Psychoanalytic Social Work, 19:1-2, 121-143, DOI: 10.1080/15228878.2012.666491. Pagina 122.

6Per una visione filosofica centrata su questo primato della dimensione sociale si può fare riferimento all’idea del volto così come è espresso nella filosofia di Emmanuel Lévinas, ad esempio nel libro Totalità ed Infinito.