Diario di viaggio: Oslo, le auto, e gli elefanti bianchi

Arrivo ad Oslo nelle prime ore del mattino. È agosto, fa fresco, si sta bene con la camicia. In aeroporto c’è un grande schermo con un’animazione promozionale. Le viste a volo d’uccello sui fiordi e sui boschi si alternano ai profili delle architetture più moderne. Lo slogan dice che Oslo cambia a vista d’occhio. Questo schermo con l’animazione è posizionato al centro di una grande parete rivestita di muschio finto. Quando però mi avvicino a controllare, vedo che non è finto, è muschio vero incollato su un fondo di sughero. Frugando con le dita se ne staccano dei pezzetti secchi.

La piazza di fronte alla stazione dei treni è circondata da palazzi d’epoca che si alternano a strutture moderne. Nel centro c’è una torre di vetro con il logo della RUTER, che è il gestore dei trasporti di Oslo. Tutt’intorno ci sono strade in leggera pendenza, scalinate, spiazzi, luoghi per sedersi e linee tranviarie che si incrociano. I tram sembrano piuttosto vecchi, mentre gli autobus sono nuovi. Di auto ce ne sono poche, e di queste poche la maggior parte sono dei taxi. Ci sono alcune serie di biciclette parcheggiate, e decine di monopattini elettrici appoggiati nei punti più diversi. E poi, a dare anima a questa varietà di mezzi di trasporto ed architetture, ci sono tantissime persone, che camminano in ogni direzione e che attraversano continuamente la strada.

Oslo, uscendo dalla stazione dei treni.

Avevo in mente di andare subito a vedere l’opera, ma mi lascio attirare dai cartelli che indicano il duomo. La facciata del duomo di Oslo è dominata da una grande torre a sezione quadrata, costruita in mattoni gialli. Nella parte superiore c’è una cupola con un pinnacolo di colore scuro, che arriva in alto e si vede da lontano. L’interno del duomo non è esattamente quello che mi aspettavo. Le pareti sono lisce e con un intonaco color panna, senza decorazioni particolari, a parte cornicioni e finestre. Colonne ed affreschi non ce ne sono, per intenderci. A colpo d’occhio sembra più l’interno di un palazzo sontuoso che non una chiesa. Il soffitto è interamente decorato in uno stile dall’aspetto naif. Ci sono alcune figure sacre realizzate in toni di azzurro, oppure di arancio, oppure di giallo.
L’esterno del duomo è circondato da un porticato con dei negozi e dei caffè, una specie di bazar delimitato da una serie di arcate. Posto nel punto di confluenza di molte vie importanti, è una vista tipica del centro di Oslo.

Dopo aver galleggiato tutto il mattino nelle strade del centro, lasciandomi affascinare dalla gente e dal paesaggio urbano, verso mezzogiorno raggiungo la Deichman bibliotek, che come dice il nome è una biblioteca. Salendo le scale raggiungo le sale di lettura. Le pareti sono alte e ricoperte di scaffali in legno piene di libri. I tavoli in legno massiccio sono lunghi e robusti, con molti posti liberi. Dopo aver messo il telefono sotto carica mi dedico alla lettura dell’opuscolo in inglese dove il governo locale di Oslo descrive il progetto per la mobilità cittadina. Sono una trentina di pagine. È da un mese che ce l’ho nello zaino, e adesso voglio finirlo. Di recente Oslo ha preso iniziative importanti per diminuire il numero di automobili nel centro storico, ed il tema di un possibile progresso senz’auto mi interessa molto. È per questo che sono qui.

Oslo, la libreria Deichman.

Il mantra-messaggio ripetuto cento volte nell’opuscolo è che bisogna costruire un ambiente urbano accogliente per i bambini e per le persone anziane. Il governo locale ha individuato un’area centrale di circa un chilometro quadrato in cui c’è un grandissimo flusso di persone a fronte di un minimo numero di residenti. In tale area sono stati eliminati centinaia di parcheggi comunali per disincentivare le persone a venire in centro con l’auto privata. Sono stati però aumentati i parcheggi disponibili per chi deve fare consegne, per i negozianti che lavorano nel centro, e per le persone disabili. Quello che si vede camminando nel centro è che le strade percorribili dalle auto ci sono ancora, e ci sono anche le auto, ma sono poche, e quelle poche procedono piano. E le aree dove prima c’erano i parcheggi sono diventate dei piccoli parchi e dei luoghi dove è possibile sedersi (ce ne sono davvero molti).

Dopo aver consumato il pranzo seduto su una panchina pubblica dalla forma inusuale, mi avvio verso la zona del lungomare dove si trova il Teatro dell’Opera di Oslo. Per parlare di quest’architettura abbiamo bisogno dello spunto offerto da un grande scrittore. Hemingway, per esempio, aveva scritto un racconto che si intitolava “colline come elefanti bianchi”. Quel che diceva quel racconto, veramente, non è cosí importante. Quello che è importante sono gli elefanti bianchi. Perché quando arrivi al Teatro dell’opera di Oslo te ne accorgi, lo senti. Sono nell’atmosfera. Gli elefanti bianchi sono nascosti dietro gli angoli delle pareti di marmo e di vetro, e proprio quando tu non stai guardando, loro escono dal nascondiglio e si lanciano in una corsa precipitosa, correndo lungo il pendio di granito bianco che scende a immergersi fra le onde. E se tu ti giri di scatto per coglierli sul fatto, loro sono già spariti, si sono già tuffati nelle acque e stanno ormai nuotando verso il largo, confondendosi tra i riflessi lucidi delle onde.

Il Teatro dell’opera di Oslo è costruito in marmi e graniti bianchi, come un palazzo dei ghiacci che sceglie a piacere le sue inclinazioni senza dover rendere conto a nessun angolo di novanta gradi. Nella sua fantasiosa imponenza sembra davvero un luogo dove gli elefanti bianchi possono giocare con leggerezza. È costruito con un grande piano inclinato che scende dal tetto dell’edificio fino al mare, inoltrandosi sotto le onde, formando un bagnasciuga di pietra lungo il quale si può camminare. E dopo aver meditato sulle onde che erodono il granito, si può anche risalire il piano inclinato arrivando fin sul tetto, là dove le silhouette degli uomini contrastano scure contro un cielo che invece è luminoso, come se le favole del nord fossero una cosa vera.

Oslo, sul tetto del teatro dell’opera.

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Questo post è un estratto del racconto completo.

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Per Natale avremmo dovuto essere in Senegal, ma all’inizio di dicembre Miss Timea ha iniziato a fare degli esami medici, ed il giorno 19 le hanno trovato nel sangue i marcatori del tumore. Nel giro di due giorni è stata operata d’urgenza. È stata l’ultima operazione che hanno fatto prima di chiudere la sala operatoria per le feste. Ricordo che dopo l’operazione Miss Timea era quasi orgogliosa del suo taglio verticale sul ventre, come i bambini con le sbucciature. Le hanno dato diciassette punti. Poi i primi giorni di gennaio sono arrivati i risultati delle analisi, e adesso sta facendo la chemioterapia. Nella disavventura c’é di buono che Miss Timea regge bene ai farmaci della chemio, e continua ad uscire di casa tutti i giorni. Cosí abbiamo deciso di non rinunciare al viaggio ad Atene.

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All’atterraggio il tempo atmosferico è incerto tra il sole e la pioggia. La luce del tardo pomeriggio è intensa di colori. Tra lo scuro del cielo, il verde dell’erba e qualche campo dorato, Miss Timea è felice di scorgere il punto esatto dove comincia l’arcobaleno. Dai corridoi vetrati dell’aeroporto osserviamo la pista ancora bagnata che riflette gli aerei e il cielo.

Atene, riflessi in aeroporto.

Sull’autobus che ci porta in centro apro un sacchetto di noccioline. Nonostante le precauzioni, dopo venti minuti mi guardo tra i piedi e vedo quello che non dovrebbe esserci. Di fronte a me c’è una coppia di asiatici che stanno seduti in una posizione molto composta. Spero che non mi notino mentre mi piego in avanti e soffio con forza per disperdere le bucce delle noccioline. Poco dopo il misfatto, l’autobus si ferma in un punto non previsto, l’autista dice qualcosa in greco, e vediamo che molti passeggeri iniziano a scendere. Non sappiamo perché, ma l’autobus non proseguirà la corsa, e per arrivare a destinazione dobbiamo prendere la metro.

La prima vista che ci offre Atene é uno scorcio in lontananza dei muri dell’acropoli, illuminati nella sera, sui quali si erge la sagoma di un tempio che non saprei riconoscere. La pioggia scende leggera. Dopo un minuto di contemplazione tiriamo fuori l’ombrello e iniziamo a camminare. Considerando che siamo in una zona centrale, gli edifici che ci circondano hanno un’aspetto piuttosto anonimo. Entrati nel primo supermercato che troviamo sulla strada, mi viene la curiositá di controllare i prezzi. Non mi sembrano molto economici. Un barattolo di fagioli rossi costa un euro e quarantaquattro.

A settembre dell’anno scorso abbiamo iniziato ad usare couchsurfing, e subito ce ne siamo innamorati. É un modo splendido per viaggiare incontrando le persone, ma per questa volta siamo tornati a scegliere un ostello. Gli incontri di couchsurfing sono preziosi, ma anche impegnativi, e con la chemio di Timea non abbiano tanta energia a disposizione. L’ascensore del palazzo dove siamo alloggiati è privo della porta interna, e mentre saliamo si vedono scorrere le pareti dei piani che attraversiamo. Sembrerebbe pericoloso. Alla reception ci accoglie Panos, che è un poco incerto e distaccato quando gli stringiamo la mano nel presentarci, ma poi sorride e diventa simpatico.

Miss Timea ha iniziato a fare meditazione con il metodo Silva alcuni anni fa, e da quando è entrata in chemioterapia la usa come metodo di guarigione. Per quanto riguarda me, ho iniziato a meditare solo da una ventina di giorni, da quando mi è successo di vedere alcuni video di Marco Guzzi. Marco Guzzi è un poeta filosofo di area cattolica, che riesce a presentare la meditazione come uno sviluppo spirituale completamente calato nella situazione storica contemporanea.

Su una parete della nostra stanza è dipinto un vaso di fiori coi petali arancio ed i pistilli neri. Questi ultimi si rivelano essere un punto adatto su cui fissare lo sguardo durante la meditazione. Mentre medito, all’immagine dei fiori si aggiungono delle voci che provengono dall’esterno. Mi piace concentrarmi su queste parole che non capisco, e provo ad intuirci la radice fonetica della bellezza unica della lingua ellenica. Poi dopo, scopro che sono le voci di quattro uomini curdi che stavano preparando la cena.

Finita la meditazione ci facciamo vedere un paio di volte in cucina, e quando i curdi ci lasciano campo libero, ci mettiamo a cucinare. Le manopole della piastra elettrica, piuttosto vecchia, hanno delle indicazioni ambigue, e dobbiamo fare alcune prove prima di capire come funzionano. Magari stando attenti a non scottarsi. Con un coltello che taglia a fatica affettiamo le carote e le cipolle, nonché la barbabietola e l’aglio in funzione anti-tumore, e completiamo l’imbanditura della tavola con la birra al limone e una candela.

Sabato mattina le insegne scritte con le lettere greche ci danno la strana impressione che tutti i negozi siano delle farmacie. La pioggia fine ci consiglia di andare in un luogo coperto, come per esempio il centro culturale Stavros Niarchos, ma prima ci fermiamo a fare una passeggiata nei dintorni dell’acropoli. Camminiamo tra pendii molto lievi, in un bel viale circondato da una macchia di olivi e conifere, tra i quali si intravedono numerosi sentieri. Sulla destra abbiamo l’acropoli e sulla sinistra alcune ambasciate, ma anche qualche palazzo con l’aria cadente col portone di legno scrostato. Sotto le nuvole grigie un uomo col violino suona la melodia di bella ciao, e la moneta da un euro cade volentieri nella custodia aperta sul selciato.

Il centro Stavros Niarchos sta in riva al mare, e per raggiungerlo dobbiamo prendere un filobus. Su Google non ci sono gli orari aggiornati, e alla fermata non c’è l’indicazione dei prossimi arrivi, ma ci rassicura il fatto che un altro uomo stia lí ad aspettare insieme a noi. Arrivati nei pressi del centro culturale vediamo da lontano una grande vela rettangolare che copre una moderna architettura di vetro posta in cima ad un colle. Il sentiero che percorriamo sale attraversando un giardino ben ordinato di arbusti ed olivi, e passo dopo passo siamo sempre più esposti al vento. Arrivati in cima ci voltiamo indietro per goderci la visione comprensiva della conca in cui sorge Atene. Il brulicare bianco degli edifici riempie tutta la pianura disponibile e si espande abbarbicandosi sui fianchi delle montagne che circondano la conca. Dallo spazio della pianura emergono diverse colline, fra cui, nel centro, quella inconfondibile dell’acropoli.

Atene, la salita al centro Stavros Niarchos.

Sull’altro lato del colle il panorama abbraccia un’ampia porzione della costa, lungo la quale lunghe file di barche stanno agli ormeggi. Fissata al parapetto c’è una piastra metallica su cui è disegnato il profilo dell’orizzonte col nome dei luoghi. Tra il mare e la foschia provo a riconoscere la sagoma di Salamina e le propaggini del Peloponneso.

Guardandoci in giro ci rendiamo conto che il pendio su cui siamo saliti è in realtá il tetto dell’edificio che ospita il centro culturale. È molto più grande di quanto pensavamo, e al piano terra c’è pure la pista di pattinaggio. La copertura a vela che abbiamo raggiunto è solo una piccola parte dell’imponente complesso architettonico.

Entrati all’interno raggiungiamo la zona della biblioteca, che è distribuita su più piani, in una composizione di legni chiari, pareti bianche e molteplici punti luce. Distribuite nello spazio ci sono delle bellissime poltrone squadrate realizzate in una gomma morbida e colorata. Me ne innamoro al volo. Praticamente sono come un grande cubo nel quale è stato scavato uno spazio in cui ci si può sedere. I braccioli costituiscono un grande piano di lavoro su cui appoggiare astucci, libri, telefoni o netbook. Lo spazio per la seduta è abbastanza accogliente perché ci si possa stare anche a gambe incrociate.

Atene, le poltrone cubiche dentro la biblioteca.

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Domenica mattina notiamo lungo la strada un locale dove fanno le scommesse. È tappezzato di specchi da tutti lati (cosí sembra piú grande), e ci sono dei tavoli disposti in file ordinate su cui sono appoggiati dei supporti con schede e penne per giocare. Alle pareti sono fissati degli schermi con le tabelle dei numeri e gli schemi di gioco. Qualche uomo di mezza età si aggira negli spazi tenendo d’occhio la situazione. Ci piacerebbe provare a giocare con pochi euro, ma non ne abbiamo il tempo.

Oggi è il giorno dell’acropoli. L’abbiamo guardata dal viale sottostante, dal centro Niarchos, e dal monte Licabetto, e ora l’aspettativa è molto alta. A raffreddare il mio entusiasmo ci pensa il cartello con le tariffe d’ingresso. La prima cosa che vedo è un prezzo di trenta euro a persona. Poi leggo i dettagli e capisco che quella è la cifra per avere accesso a tutte le aree e a tutti i musei. Inoltre ci sono riduzioni per gli studenti, e poi d’inverno i prezzi sono più bassi. Il cassiere, rintanato nel suo gabbiotto, porta gli occhiali da sole anche se del sole non c’è traccia. E fa il sostenuto come se fosse Ray Charles nel film dei Blues Brothers. Poi però fa entrare Miss Timea gratis (con la tessera studenti) ed io me la cavo con dieci euro.

Salendo lungo il sentiero si sentono voci che parlano le lingue di molte nazioni del mondo, e anche di molte regioni d’Italia. All’ingresso dell’acropoli ci stanno le imponenti strutture dei propilei, da cui lo sguardo si volge verso il basso abbracciando tutta la zona dell’agorà sottostante, incluso il tempio di Efesto. Una volta giunti sulla sommitá camminiamo lungo il parapetto in senso antiorario, osservando a destra la città sottostante e a sinistra le facce del Partenone, dentro cui si trova una vecchia gru per la movimentazione dei massi. Proseguendo troviamo alcune panchine parzialmente riparate dal vento, dove mi siedo a fare la mia meditazione quotidiana fissando un capitello spezzato del Partenone, in cima ad una colonna d’angolo, così che ne posso contemplare i volumi sullo sfondo del cielo e delle nuvole. Mentre io me ne sto lì immobile Miss Timea mangia del pane con la crema d’olive e una spezia mista ungherese che si è portata appresso. I piccioni sentono il profumo del pane, e più di una volta passano da parte a parte il campo visivo del mio meditare. Quando suona l’allarme dei venti minuti, faccio fatica a sentire con le dita la vibrazione del telefono, perché il freddo mi ha intorpidito le mani.

Lì vicino, ad un’estremità dell’acropoli, c’è una terrazza rotonda con una grande bandiera della Grecia. Bianca ed azzurra, è alta almeno quattro metri, ma il vento è forte e non ha problemi a tenerla distesa. Il sole litiga con le nuvole per lanciare chiazze di luce su qualche quartiere della città sottostante, mentre sull’acropoli i raggi del nobile astro ci fanno soltanto uno scherzo di pochi secondi. Porgiamo cosí il nostro saluto alle cariatidi dell’Eretteo (sono quelle sei statue di donna usate come colonne che si vedono spesso sulle cartoline), e poi é tempo di scendere a cercare un posto dove sedersi al caldo.

Atene, l’acropoli vista dall’Areopago

Giunti ai piedi dell’acropoli notiamo una grande roccia che si alza di alcuni metri sul territorio circostante. È l’Areopago. Ci arrampichiamo sui gradini scolpiti nella pietra, e una volta sopra ci giriamo a guardare l’acropoli. Finalmente ci troviamo davanti quello che aspettavamo. È la visione perfetta. Il bosco verde che copre le pendici dell’acropoli costituisce il fondo da cui si elevano i muri di sostegno dei propilei ed i propilei stessi, coi loro volumi e con le colonne ordinate. Sulla destra, prossimo allo strapiombo, sta il piccolo tempio di Atena Nike, che si staglia contro le nuvole bianche e il cielo grigio-azzurro. Sembra un luogo da cui si può parlare agli dei. E sembra che quelle architetture siano state pensate per essere guardate proprio dal punto dove ci troviamo. Ora questo viaggio ha un cuore.

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Quello che hai letto è un estratto del racconto completo.

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