HEIDEGGER, LA METAFISICA, L’ESSERCI E L’AZIONE

RIFLESSIONI SU “CHE COS’È METAFISICA?”

“Che cos’è metafisica?”[1] è un breve testo del 1929 in cui Heidegger tocca molti dei temi che saranno tipici del suo pensiero. In esso, allo scopo di mostrare cosa sia la metafisica, si tenta di rispondere alla seguente domanda: “Che ne è del niente?”. Quelle che seguono sono le mie riflessioni al riguardo.[2] I punti 1, 2 e 3 hanno una valenza introduttiva, mentre quelli successivi hanno un contenuto più tecnico.

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?
2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA
3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI
4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE
5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA
6 – IL NIENTIFICARE OSCURO
7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO
8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA
9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER
10 – INTEGRAZIONE

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?

Gli oggetti che ci stanno intorno sono la fisica, “meta” significa oltre, e la metafisica è un discorso che oltrepassa gli oggetti smettendo di guardarli. Noi non vogliamo la metafisica, perché non ci piacciono le astrazioni insipide e gli avvocati del ragionamento. Questi rendono il mondo sbiadito, mentre noi desideriamo stare immersi nel contesto concreto dei corpi delle donne e delle cene con gli amici. Abbiamo un debole per le onde del mare, per le fiamme del fuoco e per il fumo di sigaretta. Dunque Metafisica No, perché noi vogliamo il mondo.
Ma noi non ci accontentiamo di vivere il mondo lasciandolo immutato, come personaggi separati dal paesaggio: noi vogliamo una trasfigurazione. Il lavoro e lo studio producono una conoscenza la quale ci porta oltre la superficie degli oggetti materiali presente ai sensi, verso interpretazioni che si articolano fra concetti ed esperienze. Dunque Metafisica Sì, perché il nostro sguardo rende trasparente il mondo, e lo trasforma in un cielo composto dalle idee e dalle storie che abbiamo visto o vissuto.

A volte c’è una differenza evidente tra la metafisica che indebolisce il mondo e quella che lo trasforma in una situazione vivace di cristalli arcobaleno; altre volte la distinzione è più difficile da individuare. Sembra quest’ultimo il caso della prosa di Heidegger.

2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA

Heidegger scrive in modo simile ad altri tedeschi, che chiudono gli occhi e si lasciano sprofondare in sè stessi, come dentro al mondo misterioso del dio del mare. Scendono dalle acque ancora chiare verso il profondo scuro, e nel corso di questa lenta discesa si guardano in giro e prendono nota minuziosamente di tutti i pesci che vedono da tutti i punti di vista. Ne descrivono il retro in relazione al davanti, commentano le differenze fra il sopra ed il sotto, annotano la posizione dei dettagli rispetto all’insieme. Gli piace di inventarsi nuovi nomi per ogni scorcio caratteristico della fauna o dei fondali. Non so se sono dei buoni scrittori, di certo sarebbero dei buoni fotografi.

Il risultato di questa attività di scrittura è un volume di parole che fa una certa impressione ma che non sembra un prodotto finito; assomiglia piuttosto ad un semilavorato da inviare ad una fase successiva di sfrondamento e riordinamento. Potremmo descrivere questo metodo come una narrativa automatica per elencazione, non creata da un istinto artistico: non c’è una preparazione dei personaggi prima della loro entrata in scena, ma un’esposizione minuziosa dei punti di vista che produce in automatico una massa di concetti fra loro collegati. Se tieni duro mentre leggi, alla fine ne ricavi qualcosa di buono.

Queste mie critiche sono una sorta di caricatura umoristica di alcune difficoltà che non arrivano ad intaccare il valore filosofico di Heidegger, ma che vanno tenute presenti avvicinandosi ai suoi testi. C’è la possibilità che il miglior approccio non sia una scalata faticosa in cui ogni nuovo termine costituisca lo spuntone di roccia da oltrepassare sul percorso che conduce alla vetta. Forse, sarebbe meglio non cominciare con la pretesa di avere ragione di ogni risvolto, ma con un atteggiamento più lieve, simile ad una passeggiata in un campo di fiori, per avere una vista d’insieme del paesaggio senza perdersi troppo nei dettagli. Ci sarà poi tempo per una riflessione che torni sui passi come un agronomo per assaggiare il terreno, come un botanico per prender nota dei fiori e delle erbe, o come un geometra per stendere una mappa del campo.

3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI

Passiamo gran parte della nostra esistenza percorrendo le nostre abitudini senza fare caso ad altro. Persi negli automatismi del pensiero non abbiamo percezione della struttura del mondo. Invece di riflettere sull’essenza degli oggetti li utilizziamo per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissati.

“Esserci” è un termine chiave del pensiero di Heidegger. Potremmo concepirlo come il nocciolo del pensiero cosciente che si ottiene quando si tenta (senza mai riuscirci del tutto) di eliminare dalla mente ogni figura visibile o udibile, ed anche ogni pensiero invisibile. Questo modo di porre in silenzio la mente interrompe i processi abituali del pensiero, e ci costringe a guardare al di fuori degli schemi forniti dall’abitudine, la quale passa oltre i propri contenuti senza soffermarsi sulla loro essenza.

C’è un altro modo in cui l’esserci concorre ad oltrepassare l’automatismo, portandoci ad assaporare l’intimità delle cose: utilizzando un termine inusuale per indicare un’abitudine consolidata si porta la riflessione a soffermarsi su tale abitudine. Impiegando il termine “esserci” per indicare quell’aggregato di abitudini consolidate che è l’individuo, si invita il pensiero ad esplorare i meccanismi della coscienza che solitamente si trovano nei retroscena della mente. L’impiego di un gergo particolare ha l’effetto di portare tali meccanismi alla ribalta. Il linguaggio originale di Heidegger consente di ricreare le scintille della novità, risvegliando l’attenzione per parti del pensiero altrimenti trascurate. D’altra parte l’allontanamento dal linguaggio comune rende i suoi testi accessibili soltanto ad una cerchia ristretta.

4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE

Le parole sono abituate a gestire gli oggetti; di conseguenza, delle parole a riguardo del niente maneggeranno il niente come se fosse un oggetto. Ciò è in contraddizione con la concezione tradizionale del niente inteso come un non-ente, come l’opposto di ogni oggetto. Domandare del niente […] significa tradurre l’oggetto della domanda nel suo contrario.[3] Più in generale, il pensiero stesso è sempre pensiero di qualcosa, e come pensiero del niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza.[4]

Per evitare tale impasse, Heidegger impone che il niente sia più originario della negazione.[5] Di conseguenza considerare il niente come la negazione dell’ente diventa un fatto secondario, e non l’atto fondamentale di definizione del niente. Inserendo il niente in un contesto di parole o nel pensiero, la contraddizione comunque accade; ma essa smette di costituire un’obiezione totale alla possibilità di accedere al niente, possibilità che viene affidata a metodi diversi dal pensiero proteso alla definizione razionale.

5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA

Heidegger utilizza i sentimenti come parte fondamentale del proprio discorso. Io non penso per questo ad una filosofia che diventa meno rigorosa; credo invece che vada modificata la percezione del sentimento, togliendolo dalla nebbia del romantico e considerandolo come funzione della specie umana.[6]

L’angoscia, con l’indeterminatezza che le è propria, è lo stato d’animo che porta l’uomo più vicino alla percezione del nulla. L’esperienza che si prova nell’angoscia è quella degli oggetti che perdono consistenza, ed è in tale occasione che il nucleo più intimo del pensiero ha modo di relazionarsi agli enti come ad un qualcosa di diverso da sè, perché li vede allonanarsi anziché essere perso in essi come capita nel quotidiano. Il niente è tale rinvio verso l’insieme delle cose che si allontanano dall’individuo.[7] In tal senso il niente diventa il presupposto grazie al quale il nocciolo della coscienza percepisce gli enti differenziati da sè stesso.[8]
Il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano. Pag 71[/ref] Se non vedessimo mai gli oggetti del mondo separati da noi stessi, non potremmo costruirci un’idea di noi stessi distinta da un’idea del mondo.

L’angoscia è la situazione in cui l’attività usuale di determinazione degli oggetti mentali è per qualche motivo compromessa; il senso più profondo del niente è la percezione di tale processo nel momento della sua difficoltà, mentre la norma è che esso funzioni come un buon automatismo senza dare nell’occhio.

6 – IL NIENTIFICARE OSCURO

È opportuno soffermarsi sulla terminologia utilizzata nel paragrafo precedente. Heidegger parla di un’attività nientificante del niente: Il niente nientifica ininterrottamente, senza che noi, col sapere in cui quotidianamente ci muoviamo, veniamo veramente a sapere di questo accadere.[9]Questo modo di esprimersi mi pare eccessivamente oscuro. Io preferisco ipotizzare un’attività positiva complementare a tale azione nientificante del niente, chiamandola attività di determinazione continua.[10] Se vi è più chiaro potete pensare ad un processo ininterrotto di costruzione di struttura.

7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO

Tirando le somme, anziché un recupero del niente tradizionale inteso come negazione dell’ente, l’operazione di Heidegger sembra una ridefinizione del significato del niente, che forse torna ad avvicinarsi alla sua essenza più antica,[11] staccandosi dall’idea di negazione dell’ente che è stata introdotta dai meccanismi linguistici in tempi più recenti. Tale ridefinizione del significato sembra giustificata proprio nella misura in cui consente l’accesso a strutture più originarie, e nel suo essere progressiva là dove rende possibile un discorrere sensato sul niente, scavalcando un vicolo cieco dell’intelletto.

8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA

La domanda attorno al niente è metafisica in quanto provoca un andare oltre l’ente, là dove implica un ragionare che interrompe il consueto stato mentale nel quale l’uomo vive usando gli enti, rimanendo loro molto vicino e per così dire sovrapposto, senza arrivare a concepirsi come distinto da essi. Di più: il niente è il presupposto dell’esserci[12] e la metafisica è intrinsecamente contenuta nella struttura dell’esserci[13]
La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. Pag 77[/ref] il quale ha la caratteristica di trascendere l’ente, di differenziarsi da esso.[14]

Oltre a ciò, la domanda relativa al niente ha un’importanza particolare per la metafisica, in quanto ci costringe a porci dinanzi al problema dell’origine della negazione, cioè, in fondo, dinanzi alla decisione sulla legittimità del dominio della “logica” nella metafisica.[15]

9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER

Sul finire del proprio discorso, anche Heidegger prende in mano quel famoso teschio e rinnova la domanda che vorrebbe rintracciare il motivo per scegliere a favore dell’ente contro il niente: …la domanda fondamentale della metafisica, a cui il niente stesso costringe: perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?[16]

La pretesa di portare il pensiero a cogliere la struttura dell’essere, l’essenza delle cose, è in cotrapposizione con l’utilizzo degli enti al fine di raggiungere un obiettivo, nel senso che per usare le cose in modo efficace è richiesta un’attitudine mentale differente da quella richiesta per indagarne la struttura. L’uomo d’azione e l’uomo della conoscenza hanno meccanismi di pensiero differenti. Heidegger richiede una meditazione che rischia di uccidere l’azione. Ed Amleto è esattamente questo, perciò ho utilizzato l’immagine del teschio.[17]

10 – INTEGRAZIONE

La domanda che ci chiede di scegliere fra l’ente e il non-ente è stimolante per alcune volte, ma poi la destrutturazione che induce diviene simile ad una malattia. La decomposizione delle strutture determinate che formano il pensiero probabilmente si inserisce nel progresso dell’uomo,[18] ma forse non è necessario scendere continuamente ad un livello zero in cui gli effetti del niente impediscano l’azione. Bisogna aver conosciuto il nulla, ma non continuamente ritornarci.

L’angoscia ha reso esplicita per la prima volta la differenza sostanziale fra gli enti e il nucleo attivo dello spirito che è l’esserci. Dunque tale differenza ha avuto bisogno di una struttura dedicata[19] per venire definita inizialmente. Ma non è possibile che in seguito essa sia continuamente evocata e presente alla coscienza anche senza tale struttura dedicata? È possibile integrare la percezione della struttura dell’essere nell’ambiente produttivo quotidiano? È possibile abituarsi a cogliere la struttura dell’essere anche nei momenti d’azione?

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  1. [1]Heidegger, Che cos’è metafisica? – “Segnavia”, Biblioteca Filosofica, Adelphi 1987, a cura di Franco Volpi, Friedrich-Wilhelm von Herrmann . Pagg 59-77. Le indicazioni di pagina riportate nelle note successive sono riferite a questa edizione.
  2. [2]Io non sono un professionista del settore filosofico, e non ho una conoscenza approfondita dei testi scritti da Heidegger. Di conseguenza le mie parole derivano essenzialmente da un lavoro on-the-book, non dal raffronto del contenuto del testo in oggetto con altri lavori di Heidegger o di altri autori.
  3. [3]Pag 63
  4. [4]Pag 63
  5. [5]Da parte nostra affermiamo che il niente è più originario del “non” e della negazione. Pag 64
  6. [6]Senza che ciò comporti una perdita di complessità o di bellezza da parte del sentimento: io non sono riduzionista.
  7. [7]Questo rinviare […] all’ente nella sua totalità che si dilegua […] è l’essenza del niente. Pagg 69-70
  8. [8]L’essenza del niente […] sta in questo: è anzitutto esso che porta l’esserci davanti all’ente come tale. Pag 70
  9. [9]Pag 72
  10. [10]Come si evince dai termini impiegati, mi è parso opportuno mantenere il carattere della continuità, a meno di temporanee disfunzioni e/o inibizioni.
  11. [11]Mi riferisco ad un contesto che non sono in grado di definire con precisione, ma che immagino antecedente al “mondo antico”.
  12. [12]L’esserci, in quanto esserci, già da sempre proviene dal niente. Pag 70
  13. [13]L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Pag 77
  14. [14][…] l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. […] Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Pag 70
  15. [15]Pag 75
  16. [16]Pag 77
  17. [17]Ho utilizzato l’immagine del teschio per richiamare Amleto che pronuncia il famoso dilemma, ma in realtà il teschio non è in scena mentre Amleto si interroga sul da farsi.
  18. [18]A questo riguardo sarebbe utile un confronto con il pensiero di Konrad Lorenz nei passi dove parla di una maggiore scomposizione dei movimenti in sottoparti accessibili alla volontà.
  19. [19]L’angoscia.

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