Ortega apre “L’uomo e la gente”1 sottolineando l’importanza della dimensione sociale e denunciando che la sociologia non è stata in grado di chiarirne la natura.2 Per rimediare a questa mancanza il filosofo spagnolo ripercorre le tappe principali con cui il discorso fenomenologico (si pensi a Husserl e a Heidegger) individua le realtà fondamentali del mondo in cui viviamo, arrivando a definire la società come un’architettura di usi. Nella prima parte dell’articolo proponiamo una nostra sintesi di tale riflessione.
Ortega ritiene che l’uso abbia una natura automatica, meccanica, cosale, e per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno prendere in esame il concetto di uso in relazione alla problematica della reificazione. Di questo tema ci occupiamo nella seconda parte dell’articolo.
Nella terza ed ultima parte introduciamo una metafora specifica per descrivere il pensiero che privilegia la dimensione autentica dell’essere, molto cara ad Ortega. Ne segue una riflessione sulla possibilità di coniugare l’autenticità con la dimensione relazionale.
1.LA SOCIETÀ COME ARCHITETTURA DI USI
I.PROLOGO CON LO SMARTPHONE
Ci sono alcuni brevi episodi che vorrei raccontare a riguardo del mio smartphone, e vedremo al punto successivo come questo ci possa tornare utile per introdurre la visione di Ortega.
Io vivo a Szeged, in Ungheria, e quando torno in Italia devo cambiare la SIM ungherese con quella italiana. Mi propongo sempre di farlo in anticipo, per esempio mentre sono in volo, ed invece finisco regolarmente per aprire il telefono nei momenti più sbagliati: in piedi nel corridoio dell’aereo, in coda ad aspettare il controllo dei documenti, oppure sulla panchina in attesa dell’autobus. Mi capita spesso di appoggiare lo smartphone, la SIM ed il guscio di gomma sulla coscia sollevata a novanta gradi, in equilibrio instabile. E c’è sempre qualcuno che mi osserva chiedendosi se tutto cadrà per terra.
Lo smartphone costa caro, e cercano di rubarlo. L’estate scorsa stavo sdraiato al sole nel parco di Dugonics tér, avevo i pantaloncini corti e non sapevo dove metterlo. Allora me lo sono appoggiato sulla pancia: così ne sentivo il peso e non potevano rubarmelo. Infatti quando il gentiluomo che passava di lì per caso me l’ha preso io sono scattato all’istante, l’ho afferrato per un braccio, e senza dir nulla mi sono ripreso il mio smartphone.
Sul lavoro uso molto lo smartphone per fare fotografie, alle macchine e alle chiusure lampo che produciamo, e mi capita a volte di aprire la cartella delle immagini in presenza degli amati colleghi. Ma devo starci attento, perché nello smartphone ci sono tante fotografie personali che saltano fuori quando non te l’aspetti. Soprattutto quelle delle donne.
II.NATURA DI UNA COSA: NEL BOSCO DELLE STORIE
Il mio smartphone è una cosa. In questo momento lo colgo appena con lo sguardo in un angolo del campo visivo, ma basta questo a sollevare tra i pensieri i ricordi delle storie e delle situazioni che ho appena descritto. Noi accediamo alle cose soprattutto per mezzo delle immagini visive, ma le cose sono fatte di comportamenti e di storie molto più che di immagini. Strutture temporali anziché componenti visive. La visione è insostituibile, ma non come dimensione essenziale, piuttosto come interfaccia d’accesso a una dimensione fatta di storie.
La tradizione fenomenologica dà meno importanza alle superfici visibili e più importanza a tutte le storie alle quali un oggetto può prendere parte. Lo sguardo fenomenologico non rimane incastrato nel visivo,3 ma coglie la dimensione temporale delle cose e del mondo da esse composto. Questo significa che nel vedere uno smartphone si è consapevoli delle storie ad esso collegate. Si è consapevoli delle storie, ricordate o immaginate, di cui lo smartphone è un personaggio.4
Dello smartphone, e più in generale di ogni cosa, in ogni momento noi possiamo vedere solo un lato, e solitamente un numero limitato di dettagli visivi. Possiamo però aver presente anche quello che in quel frangente non percepiamo direttamente. A questo fatto Ortega si riferisce col termine compresenza, preso da Husserl.5
III.LE COSE SONO TANTE, MILIONI DI MILIONI
Il mio smartphone è una cosa, e ci sono tante cose oltre al mio smartphone. Ci sono il netbook, lo zaino, la matita, gli occhiali; c’è Google, c’è gmail, c’è il treno, ci sono i piatti sporchi nel lavandino, c’è la lista di cose da fare sul lavoro. C’è la tessera sanitaria che scade e ci sono tutti i miei libri sulla scrivania. C’è la pianta grassa che sta morendo di sete, c’è l’essenza di eucalipto, ci sono i fiammiferi e le candele. Ognuna di queste cose si porta appresso il suo repertorio di storie, così come fa lo smartphone.
IV.NATURA DEL MONDO: ALICE COLPISCE ANCORA
Il mondo non è una prospettiva tridimensionale nella quale possiamo inscatolare ciò che vediamo. Non è un pavimento di mattonelle, non è un piano dove ci si può spostare di un metro esatto. Il mondo non è una stanza completa di tutto il proprio volume, ma un luogo in cui l’attenzione si concentra in alcuni punti. Il mondo in cui di volta di volta ci troviamo, o circostanza, è l’insieme di tutte le cose e delle loro interconnessioni.6 7 Il modo in cui l’uomo percepisce le cose nel mondo somiglia ad una luce che cerca nella notte piuttosto che ad un paesaggio illuminato a giorno. La luce è l’attenzione che soffermandosi ravviva i percorsi delle storie e provoca la nascita di oggetti e di idee nuove.
Il mondo insegnato dallo sguardo radicale8 non è poi così lontano da quello di Alice nel paese delle meraviglie. È una collezione di oggetti galleggianti. È un vestito di arlecchino inclusivo di una riflessione sulla cucitura delle pezze. Ma nel prenderlo in mano vi accorgete che la cucitura è elastica, provate a tirarla, e vi rendete conto che dentro, nel vestito, si nasconde qualcuno.
V.IMMERSI, TRA OSTACOLI E STRUMENTI, CHE NON CI DANNO RISPOSTA
Ecco dunque che ci troviamo collocati in un mondo fatto di cose. A queste cose non ci poniamo in modo neutro. Esse assumono sempre un ruolo nei nostri confronti, presentandosi come strumenti oppure come ostacoli.9 Noi interagiamo con esse, e da questa interazione nasce il repertorio di storie di cui le cose stesse sono costituite.10
Le cose però non rispondono alla nostra azione, là dove invece gli altri uomini sono in grado di farlo. Questa capacità di risposta è il fatto fondamentale della coesistenza. Noi impariamo a tenerne conto nelle azioni che rivolgiamo verso gli altri, motivo per cui la nostra relazione con loro è qualitativamente differente dalla relazione che abbiamo con le cose. Anche gli animali rispondono alle nostre azioni, ma la loro capacità di risposta è molto più ridotta rispetto agli uomini.11
VI.GLI ALTRI, I QUALI RISPONDONO, DA UN LUOGO NON VISTO
Dal fatto che gli altri danno una risposta alle nostre azioni, noi intuiamo l’esistenza di un pensiero individuale che è all’origine delle loro azioni. Non si tratta di una deduzione razionale, del risultato di una riflessione retrospettiva su ciò che accade con gli altri. Non si tratta soltanto di un fatto culturale che potrebbe anche non avere luogo, a seconda dell’istruzione che si riceve. L’intuizione dell’altro ha radici profonde nelle strutture biologiche dell’essere umano.12
Mentre possiamo gestire le cose materiali in modo diretto, considerandole costituite dalla percezione che ne abbiamo, noi ci rendiamo conto che c’è qualcosa degli altri a cui non possiamo attingere direttamente, ma solo attraverso quel che vediamo del loro comportamento.13 Potremmo dire che questo qualcosa è il loro pensiero, o la loro anima. Gli altri, al contrario delle cose, sono un tipo di realtà che ci trascende,14 che va oltre, nel senso che si posizionano in un luogo difficilmente raggiungibile, e nel senso che l’interazione con loro ci porta ad una profonda trasformazione personale.
VII.AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DELL’ALTRO
La parola che usiamo per rivolgerci all’altra persona che abbiamo di fronte è il pronome tu.15 Per quanto esposto, ci rendiamo conto che il tu arriva quando l’io non si è ancora visto. Il tu è più primitivo dell’io, il quale non è così strettamente necessario come potremmo pensare. Per relazionarci con le cose del mondo è sufficiente avere una percezione delle cose e qualche obiettivo da raggiungere. È soltanto dopo aver iniziato a concepire gli altri come individui che iniziamo a concepire noi stessi in modo simile. Noi formiamo l’io ad immagine e somiglianza del tu.16 17
VIII.GLI USI: ABITUDINI GARANTITE TRA I TU
Nel corso dell’interazione con gli altri riflettiamo sulle situazioni in cui ci veniamo a trovare e prendiamo decisioni su come comportarci, apprendendo molte abitudini al riguardo. Tipico dell’abitudine è passare dalla situazione alla decisione senza eseguire esplicitamente tutti i passi intermedi del ragionamento. Le abitudini verso gli altri possono essere apprese per imitazione, oppure possono essere stabilite da noi personalmente a seguito del ripetersi di situazioni e decisioni simili. Va precisato che anche le abitudini provenienti per imitazione dall’esterno hanno avuto origine in un individuo ben determinato, con un atto creativo che si pone a monte di una catena di trasmissioni interpersonali.
Con il termine uso ci riferiamo a tutte quelle abitudini riguardanti l’interazione con gli altri e garantite da una qualche forma di coercizione esterna.18 L’insieme degli usi, composto per la maggior parte da abitudini provenienti dall’ambiente esterno, costituisce la dimensione sociale, e la società è concepibile come un’architettura di usi. È questo il nocciolo teorico del libro di Ortega.19
IX.USI DEBOLI E FORTI: LA COLAZIONE E LO STATO
Esempi di usi sono il vestire, il mangiare, la lingua, l’opinione pubblica, ed anche i rapporti sociali correnti, fra i quali ad esempio il saluto. Possiamo dire che questi usi sono deboli e diffusi. Sono caratterizzati dal fatto che la loro instaurazione e la loro coazione avvengono lentamente; inoltre l’invito e la coazione non provengono da individui determinati. Per esempio, la coazione avviene “in forma di giudizi sfavorevoli e cose simili”.20
Al gruppo degli usi deboli e diffusi si oppone quello degli usi forti e rigidi, aventi caratteristiche opposte: instaurazione e coazione rapida, ed invito e sanzione provenienti da persone precise. Fra di essi troviamo gli usi economici, il diritto, lo stato.
Tra gli esempi più specifici di uso proposti da Ortega vi sono: il saluto pacifico, inteso come una sorta di set up in occasione dell’incontro fra due individui; il saluto bellico, qualitativamente ben distinto da quello pacifico; l’impiego del cappotto; la colazione.
2.USO E REIFICAZIONE
I.L’INCONSAPEVOLE SOTTO ACCUSA
Ortega pone come umano ciò che facciamo consapevolmente.21 Per contrapposizione è inumano tutto ciò che ha carattere di inconsapevolezza ed al quale si accompagnano l’essere meccanico, abituale, inautentico.22 Nel suo ragionamento il valore positivo (in quanto umano) assegnato al consapevole diventa valore negativo assegnato all’inconsapevole, e confluisce prima nell’uso (in quanto meccanismo inconsapevole), e da qui nel sociale (in quanto architettura di usi). L’individuo si trova così collocato in una società avente dei tratti fondamentalmente ostili a ciò che è più propriamente umano. D’altra parte Ortega stesso riconosce il valore positivo del sociale nel creare uomini e nell’oltrepassare problemi già risolti, dunque attribuire inumanità al sociale pare un appesantimento inutile nella descrizione della situazione umana. Non sembra il caso di partire con un’accusa che rende poi necessaria una riabilitazione.
Vero è che Ortega a tratti sembra dire delle cose che attenuano l’opposizione tra il nucleo individuale autentico ed il paesaggio sociale in cui questo si muove. Resta però il fatto, pesante, che Ortega fa un uso insistente di connotazioni negative atte a dare una grande rilevanza a tale opposizione.23 Lo si vede bene, ad esempio, quando pone l’accento sulla pericolosità e sul lato scuro del fare filosofia, in quanto forma di autenticità opposta al sociale,24 oppure quando mette l’accento sul ruolo della solitudine.25
II.RIABILITAZIONE DELL’ABITUDINE
(…) Questa parte del testo è stata omessa dalla pubblicazione online. Per avere gratuitamente la versione integrale potete scrivermi in messenger o tramite mail.
III.LA REIFICAZIONE CHE CI ABBASSA
Noi abbiamo un modo povero di guardare alle cose, ed è per questo che portare sull’uomo la stessa attitudine di sguardo che abbiamo per le cose provoca un’impoverimento dell’uomo. Lo sguardo fenomenologico nasce invece con una spiccata tendenza ad arricchire il modo in cui intendiamo le cose aggiungendovi spiritualità e senso. Per indicare la tendenza a concepire gli aspetti umani e sociali in modo simile agli oggetti materiali utilizziamo la parola reificazione, derivata dal latino res, che significa cosa.26 Quindi reificazione significa qualcosa di molto simile a cosalizzazione. Lo sguardo radicale tende a ridare vita alle cose rendendole più somiglianti al nucleo vitale dell’uomo, là dove il processo di reificazione fa l’opposto, sottraendo dall’umano tutto ciò che non è assimilabile alle cose, intese come entità sensibili, invarianti, oggettive, scientifiche, indipendenti, facilmente indicabili.27
Lo sguardo radicale rianima le cose alzandole verso l’uomo, mentre la reificazione toglie l’anima all’uomo abbassandolo verso le cose. Da questo punto di vista potremmo anche intendere lo sguardo radicale come una forma di neo-animismo.28 29
IV.UN PONTE VERSO UNA REGIONE
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V.LE STESSE COSE MA IN MODO DIVERSO
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VI.RIMANERE VIVI USANDO
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VII.LA BANDA DISPONIBILE
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3.ANALOGIE COL VISIVO
Abbiamo visto che Ortega accusa gli usi nel nome dell’autenticità Forse si può considerare questa mossa come la manifestazione di una tendenza concettuale più profonda. Mi propongo di fare un po’ di luce sulla natura di questo tema evidenziando alcuni aspetti della dimensione visiva e proponendo una metafora a questi collegata.
I.IL VISIVO ED I SUOI AMICI
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II.RISIKO: REGIONI SEPARATE
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III.METAFORA DEI PASSI E DELLA SUPERFICIE
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IV.L’ESEMPIO DEL SALUTO
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V.PROVIAMO A TOGLIERE LA SUPERFICIE
(…)
VI.LA DIREZIONE DELLA DETERMINAZIONE
(…)
4.CONCLUSIONI
Assumere la parte consapevole di noi stessi come la parte migliore sembra intuitivamente plausibile, ma il modo in cui Ortega procede da questa assunzione ci conduce alla creazione di un dramma esistenziale gratis, consistente nella contrapposizione del nostro nucleo più umano con i tratti più specifici del sociale. Ci ritroviamo con un contrasto diretto tra la valorizzazione del singolo da un lato e gran parte della vita sociale dall’altro, ed è questa una venatura scura a cui vorremmo porre rimedio.
Ortega concepisce la società come architettura di usi, e proprio da questo presupposto si possono cercare nuovi equilibri tra l’individuo ed il sociale. Lasciando inalterata la consapevolezza individuale come polo pregiato, cerchiamo di materializzare al polo opposto il suo nemico in qualcosa d’altro rispetto al sociale, ovverosia nella reificazione, la quale potrebbe avere la sua origine in alcune dinamiche selezioniste intraspecifiche.
Per come abbiamo impostato il nostro discorso l’uso appare come un fatto più circoscritto ed elementare, mentre la reificazione si presenta come una proprietà sistemica. La reificazione è un tratto globale implicante una degradazione della dimensione spirituale, mistica, di interconnessione, relativa a tutti gli abitanti della fauna mentale, là dove invece ciascun uso è un animale specifico di tale fauna.
Il fatto riconosciuto che la relazione con l’altro sia un modo fondamentale di aggiungere ricchezza alla vita umana, questo fatto si pone in opposizione con la dimensione di povertà che è invece il punto di connessione più evidente fra la reificazione e la solitudine, quest’ultima intesa non come condizione pratica ma come difetto strutturale di accesso all’altro.
Per rendere più chiaro un punto critico del ragionamento di Ortega abbiamo introdotto una metafora collegata alla strutturazione del dominio visivo. Per mezzo di tale metafora abbiamo indicato la possibilità di togliere alla riflessività l’obbligo di perseguire costantemente la costituzione di una profondità autentica collocata in direzione opposta alla socialità. Il momento creativo ha certo luogo nella dimensione intraindividuale, ma dovrebbe essere finalizzato anzitutto alla dimensione interindividuale. Data una struttura di usi, non è affatto detto che la direzione unica in cui cercarne una ristrutturazione debba essere l’interiorità privata, questo pare essere un pregiudizio. Che privata sia l’elaborazione va da sé, ma la zona in cui edificare le nuove strutture non sta per forza nel privato.
Nella misura in cui la struttura del visivo dovesse mostrarsi genetica (anche solo circolarmente) rispetto allo stile di determinazione che siamo portati a mettere in atto nella nostra cultura, ed a certi tratti di povertà dello spirito (ipotesi che qui poniamo soltanto), allora la prassi percettiva diventerebbe importante ai fini di una socialità migliorata.
Al di là di questa ipotesi, all’attitudine fenomenologica possiamo chiedere una ristrutturazione degli usi mirata alla realizzazione di un coro vivo, con l’attenzione posta ad evitare le trappole della reificazione e della solitudine, nel segno di una profondità diffusa.30
Szeged – agosto 2016
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N.B. Quello che avete letto é un estratto che include circa la metá dell’articolo originale. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail.
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BIBLIOGRAFIA
Craighero, Laila Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010).
Foucault, Michel, The order of things, (New York: Vintage Books, 1994). Titolo originale: Les Mots et les choses, 1966.
Honneth, Axel, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.
Ortega Y Gasset, José, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.
Panksepp, Jaak, and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).
Quine, Willard Van Orman, Word and Object, (Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 1960).
Rawls, John, Una teoria della giustizia, (Milano: Feltrinelli, 1982). Titolo originale: A Theory of Justice, 1971. Traduzione di Ugo Santini.
NOTE
1José Ortega Y Gasset, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.
Nel seguito indicato con l’abbreviazione UG.
2“Si noti che tutte quelle idee (legge, diritto, stato, internazionalismo, collettività, libertà, giustizia sociale, ecc.), quando non lo manifestano già nella propria espressione, coinvolgono sempre, come loro ingrediente essenziale, l’elemento sociale, la società” UG, 30.
“È passato tanto tempo. Ma non dimenticherò mai la sorpresa, mista a vergogna e stupore, che ho provato quando, conscio della mia ignoranza, mi sono indirizzato, pieno di speranza e di illusioni, ai libri di sociologia. Ho scoperto una cosa incredibile: quei libri non dicono nulla di chiaro sul sociale, su ciò che è la società” UG, 30.
3“…sebbene ciò che è visibile ed il vedere si offrano come esempi di maggiore chiarezza per un primo approccio alla nostra teoria, sarebbe un grave errore supporre che la vista sia il “senso” più importante.” UG, 75.
4La presentazione delle cose come entità composte da storie o percorsi è una mia scelta, non presente in UG.
5“… alla presenza effettiva di ciò che è solo parte di una cosa si va unendo automaticamente il resto di essa. Questa porzione non ci è presentata, bensì ci è compresentata e compresente. […] L’idea è dovuta al grande Husserl.” UG, 68.
6Spesso in UG il termine ‘mondo’ è messo sullo stesso piano del termine ‘circostanza’. Cf. ad esempio “Dobbiamo ora studiare la struttura ed il contenuto dell’ambiente, circostanza o mondo in cui siamo chiamati a vivere.” UG, 67.
7Più precisamente Ortega in UG considera il mondo in questo modo: “La struttura del mondo risulta quindi un poco più complicata, poiché di esso abbiamo ora tre piani o termini: in primo luogo, la cosa che c’interessa, poi l’orizzonte sul quale la cosa appare, infine l’al-di-là latente.” e “L’orizzonte è la linea di frontiera tra la porzione evidente del mondo e la sua porzione latente.” UG, 70-71.
8Ortega utilizza spesso l’espressione ‘radicale’ per indicare qualcosa di molto prossimo alla dimensione cui si accede con l’indagine fenomenologica. “Chiamandola ‘realtà radicale’ […] intendo semplicemente dire che è la radice – di qui radicale – di tutte le altre” UG, 50.
Possiamo chiederci se l’essere radicale di un pensiero sia una questione stabilita una volta per tutte oppure soggetta al divenire storico dell’individuo e della società. Il pensiero che Ortega chiama radicale è un pensiero che nell’essere formulato si pone come radice capace di illuminare di comprensione gli altri pensieri che facevamo fino a quel momento. Ma se ci spostiamo di due o tre generazioni in avanti, considerando una certa sedimentazione del pensiero che oggi è radicale, ci troveremo forse ad affrontare una nuova struttura di pensiero consolidato per il quale si proporrà una nuova radicalità. È questo un tema chiaramente legato alla definizione (possibile?) di un limite tra il biologico ed il culturale.
9“La loro localizzazione in prospettiva e in regioni non deve farci dimenticare che al tempo stesso – né prima né dopo, bensì contemporaneamente – le cose sono per noi strumenti o ostacoli per la nostra vita, che il loro essere non è un essere per sé ed in sé , ma consiste solo in un essere per noi.” UG, 79.
10“Il mondo è una selva di faccende o cose importanti, in cui l’essere umano si trova – volente o no – impigliato. L’uomo, lo voglia o no, è destinato a nuotare in questo mare di faccende, delle quali è costretto senza tregua ad occuparsi.” UG, 66.
11In UG il concetto di coesistenza e di risposta è presentato inizialmente in riferimento agli animali: “L’animale mi appare, a differenza della pietra e della pianta, come una cosa che reagisce; in questo senso, come qualcosa che – esistendo anche io per esso – coesiste con me.” UG, 86.
“L’attributo caratteristico e primario di colui che denomino l’altro Uomo è che egli risponde, di fatto o potenzialmente, alla mia azione su di lui. Ciò impone al mio agire di tener conto in anticipo della sua reazione, della reazione dell’altro, la quale a sua volta dovrà tener conto della mia successiva reazione.” UG, 125.
12Cf. “…il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi ma è la chiave fondamentale per percepire gli oggetti che ci circondano e capire le azioni che vengono eseguite dagli altri. È stata una rivoluzione enorme, forse paragonabile a quella copernicana. […] la cosa sconvolgente è che gli stessi neuroni si attivano anche quando l’individuo è perfettamente fermo e semplicemente osserva qualcun altro eseguire la stessa azione con lo stesso scopo. Per i neuroni specchio non vi è differenza se l’azione è eseguita da me o da un altro.” Laila Craighero, Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010), 8.
13“La vita dell’altro infatti non è per me una realtà evidente come lo è la mia: la vita dell’altro, diciamolo pure senza eufemismi, è solo una presunzione o una realtà presunta o pretesa – infinitamente verosimile, probabile, plausibile quanto si vuole – ma non radicalmente, indiscutibilmente, primordialmente ‘realtà’.” UG, 92.
14“La presentazione indiretta o compresenza della vita umana di altri mi conduce e mi pone davanti a qualcosa che trascende la mia vita” UG, 91.
15Più precisamente Ortega riferisce l’uso del pronome tu ad una persona ben identificata. “…il TU non è semplicemente un uomo, ma un uomo unico, inconfondibile.” UG, 102.
16Nel nostro discorso abbiamo posto le cose come anteriori agli altri, ma questa è soltanto una comodità espositiva. Cf. “L’umano precede nella nostra vita l’elemento animale, vegetale, minerale. Vediamo tutto il resto come attraverso le sbarre di una prigione, attraverso il mondo degli uomini fra i quali nasciamo e viviamo.” UG, 99.
Basta pensare alla relazione del bambino con la madre per aver chiara la presenza primitiva dell’altro nella vita di ognuno. Ci sarebbe da discutere di un’eventuale percezione dell’altro nella vita prenatale. Ma non è questo il luogo, e non ne ho le competenze. Accenno però al fatto che la relazione con l’altro si fonda sulle strutture emotive, le quali sono presenti nelle parti più antiche del cervello già nella vita prenatale. Cf. Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).
17“Al contrario di ciò che si potrebbe credere, la prima persona è l’ultima ad apparire.” UG, 103.
18“L’altro attributo dell’uso è che noi ci sentiamo costretti ad esercitarlo, a seguirlo. […] Vedremo in seguito che in ciascun tipo di uso la coercizione assume una forma diversa.” UG, 189.
19“Come si vede, gli usi si articolano e si basano gli uni sugli altri, formando una grandiosa architettura. Tale architettura è precisamente la Società.” UG, 185.
20UG, 180.
21“A tal fine, ci conviene mantenere fermo il chiaro concetto che in noi è propriamente umano solo quel che pensiamo, vogliamo, sentiamo ed eseguiamo con il nostro corpo, come soggetti creatori; o ciò che a noi stessi, come tali, accade. Il nostro pensare quindi è umano, solo se pensiamo qualcosa per conto nostro, rendendoci conto di ciò che significa.” UG, 64.
22“La realtà autentica del vivere umano contiene il dovere del frequente ritiro nel fondo solitario di se stessi. Tale ritiro – durante il quale esigiamo che le mere verosimiglianze in cui viviamo, quando non sono semplici inganni o illusioni, ci presentino le loro credenziali di autentica realtà – è ciò che si chiama con un nome di maniera, ridicolo e confusionario, filosofia.” UG, 94.
“[…] è costitutivo degli usi l’aver perso il loro significato; ossia l’essere stati un tempo azioni umane interindividuali ed intelligibili, azioni con un’anima, e l’essersi poi svuotati di senso, l’essersi meccanizzati, automatizzati, come mineralizzati, l’essere ormai senz’anima. Sono stati autentiche ‘vivenze’ umane che dopo, a quanto pare, sono divenute sopravvivenze, esseri umani putrefatti.” UG, 169.
23Cf. “ […] la teoria di Durkheim è beata e la mia è tremenda, ossia mette proprio paura.” UG, 155.
24“La filosofia è ritirata, anabasis, regolamento dei conti, nella spaventosa nudità, davanti a se stessi.” UG, 94.
“La filosofia è quindi critica della vita convenzionale, critica che l’uomo si vede obbligato a fare di tanto in tanto, portando tale vita davanti al tribunale della sua vita autentica, della sua inesorabile solitudine.” UG, 95.
25“Dal profondo della solitudine radicale che è senza dubbio la nostra vita, emergiamo costantemente con un’ansia, non meno radicale, di compagnia.” UG, 58.
26Per una ricognizione storica sul concetto di reificazione (in particolare per una comparazione della concezione di reificazione in Lukács, Heidegger, Dewey) si veda Axel Honneth, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.
27In precedenza avevamo introdotto la capacità di rispondere come la specificità per mezzo della quale l’altro entrava in scena, e potrebbe venire quindi il dubbio che la reificazione, in quanto cosalizzazione, sia da ricondurre ad una mancata percezione (negli altri) della capacità di rispondere. Se è vero che la percezione di questa capacità di rispondere è di sicuro un modo di arricchire l’oggetto della nostra osservazione, è anche vero che la capacità di rispondere di per sé può essere inglobata in una percezione complessiva della situazione molto meccanizzata, oggettivata, reificata appunto. Monodimensionale, per dirlo con Marcuse.
La povertà di spirito collegata alla reificazione è una questione più diffusa e profonda rispetto alla capacità di risposta, che per quanto importante appare più caratterizzata come un’abilità circoscritta.
28Cf. “’Cose’ significa nel linguaggio corrente tutto ciò che ha il suo essere in sé e per sé, che esiste indipendentemente da noi. Ma le componenti del mondo vitale sono tali solo per e nella mia vita, non sono per sé ed in sé. […] l’essere ‘cose’ stricto sensu viene dopo, è secondario ed in ogni caso è molto discutibile.” UG, 67.
29Il tema della reificazione chiama in causa il problema del riduzionismo inteso come impoverimento della concezione dell’uomo. Trovo opportuno precisare che la mia posizione personale è quella di un’identificazione completa tra stato mentale e stato cerebrale, là dove però questo non implica minimamente un’attitudine riduttiva. Lo stato mentale può essere descritto in termini di atomi fisici (in senso lato) così come può essere descritto in termini fenomenologici. Il passaggio da un tipo di descrizione all’altra va visto in termini di traduzione più che di riduzione. Descrivere uno stato mentale in termini di atomi fisici equivale a descrivere un desktop in termini di bit o in termini di pixel. Ma questo è estremamente scomodo, è molto più performante una descrizione in termini di icone, sfondo, barra di stato, puntatore del mouse. Quest’ultima corrisponde ad una descrizione fenomenologica dello stato mentale.
30La solitudine può avere un senso pratico, ma non come destino fondamentale. Questo esperimento è stato già vissuto e vorremmo evitare dolorose ripetizioni. Il profeta della solitudine è stato Nietzsche. Non c’è bisogno di recitare ancora quel ruolo.
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