“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

Nel libro “Gioco e Realtà”1 Winnicott descrive alcuni aspetti fondamentali del gioco, contestualizzandoli nel processo di crescita della persona. La visione di Winnicott è illuminante per chi desidera porre il gioco al servizio dell’arricchimento spirituale e culturale dell’uomo.

Al principio del suo sviluppo il neonato vive in un flusso indistinto di percezioni e non è in grado di distinguere fra un fuori ed un dentro, fra una regione interna ed una regione esterna a sé stesso. Questa capacità se la conquisterà passo dopo passo nel corso di una maturazione destinata a durare molti anni. Gli oggetti transizionali, un concetto chiave della teoria di Winnicott, rappresentano una fase di transizione in questo lungo processo di formazione. L’oggetto transizionale può essere un peluche investito di una particolare carica affettiva, un ciuccio, un giocattolo o un oggetto che il bambino desidera avere sempre con sé e che lo rassicura quando deve dormire da solo.

Noi adulti vediamo l’oggetto transizionale come se fosse, appunto, un oggetto materiale, un entità a sé stante, indipendente dalla sfera psichica del bambino. Questi però, il bambino, vede le cose in modo diverso. Il bambino non riesce ancora a osservare il suo orsacchiotto preferito, per esempio, soltanto come un oggetto inanimato, ben distinto da sé stesso e dai propri sentimenti. Il bambino non sa concepirlo compiutamente come separato dalla propria interiorità, di cui ancora non padroneggia le complessità. In questo senso l’oggetto transizionale, come il gioco, non sta né dentro né fuori.

La comprensione del gioco, ci dice Winnicott, esige l’indagine di una terza area di esperienza che non si lascia catturare nello schema usuale che divide l’esteriorità dall’interiorità. Nel gioco l’esperienza interiore incontra il mondo senza confini predefiniti. Il gioco non è né dentro né fuori. Il gioco è il terreno della possibilità che ancora deve prendere forma.

La parte finale dell’articolo include alcune nostre considerazioni riguardanti l’area psichica interessata dal gioco in quanto frontiera di comprensione del mondo. Questo scritto fa parte di un più ampio progetto di ricerca sulla natura del gioco nell’uomo e negli animali.

 

IL PROCESSO DI SVILUPPO

LO STATO DI FUSIONE ALL’INIZIO DELLO SVILUPPO

Nelle fasi iniziali di vita il neonato si trova in uno stato psicologico di fusione fra il sé e l’ambiente, che non gli appaiono ancora come distinti. La percezione del neonato non dà luogo fin da subito al riconoscimento degli oggetti materiali circostanti, come avviene invece nell’adulto. In un certo senso la percezione del neonato assomiglia ad un flusso indistinto di luci, colori e suoni. Ci vorrà del tempo perché queste sensazioni imparino a raggrupparsi in formazioni stabili corrispondenti agli oggetti materiali.

Non è cosí facile cogliere la profonda diversità percettiva in cui si trova il bambino rispetto all’adulto, ed un paio di esempi potrebbero esserci d’aiuto. Quando vediamo un oggetto che va a finire dietro un ostacolo che lo nasconde alla vista, noi rimaniamo perfettamente consapevoli della sua permanenza pur al di fuori della nostra vista. Per il bambino invece questo non è scontato; si tratta di una competenza che non è presente da sempre, bensì appare ad un certo punto dello sviluppo.

Un altro esempio: nel vedere un telefono sul tavolo noi siamo immediatamente coscienti della possibilità di afferrarlo. Il bambino, invece, manca di questa coscienza, e la acquisisce soltanto a seguito di un’esperienza di manipolazione degli oggetti (quest’ultima può avere luogo in modo intensivo solo dopo l’acquisizione della padronanza della posizione seduta, la quale libera le mani dalla funzione di supporto).

Il neonato manca di molte strutture psicologiche di cui noi adulti disponiamo prontamente, ed in tale situazione di profonda immaturità non è in grado di organizzare la propria attività verso la soddisfazione dei desideri. Affinché ciò accada è necessario che la mamma si coordini alle iniziative che scorge nel piccolo, portandole a buon fine. Un esempio importante ne è l’atto di porgere il seno al neonato quando se ne manifesta il bisogno. Winnicott usa un’espressione diventata famosa per indicare questa sintonizzazione messa in atto della madre. Winnicott parla di mamma sufficientemente buona. La mamma sufficientemente buona è quella in grado di fornire al bambino l’esperienza di fiducia iniziale nel mondo, fiducia che diventerà il punto di partenza per il successivo processo di crescita.

Col passare del tempo il neonato acquisisce una capacità sempre maggiore di gestirsi da solo, nel corso di una lenta maturazione destinata a durare molti anni, al termine della quale si giunge ad un individuo in grado di distinguere ciò che è dentro di sé da ciò che è fuori di se, ciò che è me da ciò che è non-me. Nel corso di questo processo la mamma, secondo Winnicott, dovrebbe progressivamente ridurre il supporto portato al bambino, spingendolo moderatamente a prendere iniziativa autonoma.

GLI OGGETTI TRANSIZIONALI

Gli oggetti transizionali e i fenomeni transizionali sono cosí chiamati perché fanno parte di questo processo di transizione che prende le mosse da uno stato di iniziale fusione (fra ambiente esterno e zona interna), e che conduce, nel tempo, alla piena competenza nel distinguere gli oggetti esterni dalla propria interiorità.

Un esempio molto noto di fenomeno transizionale è succhiarsi il pollice, ma l’idea di fenomeno transizionale si estende ad un insieme piuttosto vario di attività, che possono includere tanto il generico portarsi gli oggetti alla bocca per succhiarli, quanto il tirare i fili di lana piuttosto che l’emettere i primi balbettii. Nell’ambito di queste attività “può emergere qualcosa o qualche fenomeno – forse un batuffolo di lana o l’angolo di una coperta o di un piumino, o una parola o una tonalità o un’abitudine – il cui uso diventa di importanza vitale per il bambino al momento di andare a dormire, e che sono una difesa contro l’angoscia, soprattutto l’angoscia di tipo depressivo. Forse qualche oggetto soffice o di altro tipo è stato trovato ed usato dal bambino e questo diventa allora ciò che io chiamo oggetto transizionale. Questo oggetto diventa sempre più importante. I genitori vanno accorgendosi del suo valore e lo portano con sé quando viaggiano. La madre lo lascia diventare sporco e anche puzzolente, sapendo che lavandolo introdurrebbe una rottura nella continuità dell’esperienza del bambino, rottura che può distruggere il significato e il valore dell’oggetto.”2

Come Winnicott sottolinea, il coinvolgimento emotivo del bambino in questi fenomeni ed oggetti transizionali è molto intenso, ed il bambino non è in grado di gestirli come entità separate da sé stesso, come oggetti di cui semplicemente fare uso.

Gli oggetti transizionali corrispondono a dei nuovi modi di essere che non hanno ancora trovato una sistemazione chiara e definitiva nell’ambito di una rappresentazione ordinata del mondo, la quale presiede ad una compiuta distinzione tra ciò che è dentro di noi e ciò che è fuori di noi. Lo si vede bene nel caso di Winnie Pooh, che è citato come esempio dallo stesso Winnicott. Quando l’orso di pezza è osservato dai genitori, è soltanto un oggetto esterno ed inanimato ben distinto dalla vita interiore del bambino. Quando il medesimo orso è osservato dal bambino, esso si anima e prende vita, con un’evidente sovrapposizione fra l’oggetto materiale e la vita interiore del bambino. Il bambino non ha ancora la capacità di vedere l’oggetto materiale inanimato come un’entità distinta dal fluire dei propri desideri e della propria immaginazione.3 4

L’ELEMENTO FEMMINILE PRIMORDIALE E L’ESPERIENZA DI ESSERE

Il processo di maturazione conduce dallo stato di fusione del neonato allo stato dell’adulto, in grado di articolare un vasto repertorio di attitudini e relazioni fra dominio interiore ed esteriore. Nel corso di tale processo compare e si affina la capacità di usare gli oggetti con distacco. Questa capacità di fare-uso di qualcosa è un tema che si presta ad interessanti approfondimenti, ma, prima di procedere in tal senso, c’è ancora qualcosa di importante da dire a riguardo dello stato di fusione iniziale.

Fin dalle primissime fasi di vita, forse anche prima della nascita, il bambino ha la possibilità di vivere quella che Winnicott indica come esperienza di ESSERE5 6 Si sarebbe tentati di dire che l’esperienza di ESSERE è una sorta di identificazione fra sé e l’ambiente, ma bisogna tener presente che il bambino non è ancora in possesso delle strutture psicologiche che corrispondono al sé e all’ambiente. La parola identificazione è usata da Winnicott per riferirsi a fenomeni più strutturati, che appaiono più avanti nel corso dello sviluppo. “Esperienza di ESSERE” è un’espressione specifica che Winnicott impiega per riferirsi allo stato di fusione iniziale, all’apeiron indefinito in cui le strutture psichiche dell’adulto non sono ancora delineate.

L’esperienza di ESSERE riveste una posizione fondamentale nell’ambito delle complesse vicende che presiedono allo sviluppo del bambino.7 Winnicott considera questa esperienza di ESSERE come l’elemento femminile presente in ciascuno di noi (sia nelle femmine che nei maschi): “Lo studio dell’elemento femminile distillato non contaminato puro ci porta all’ESSERE, e questo forma la sola base per la scoperta di sé e di un senso di esistere…”.8

L’esperienza di ESSERE si presenta inizialmente in forma labile e si va consolidando anche grazie all’interazione con la madre, soprattutto quando questa è in grado di sintonizzarsi adeguatamente al bambino. La mamma soddisfa i desideri immediati del bambino, ne completa le tendenze, ed evita così l’insorgere di un dolore, di una qualche forma di sofferenza che interrompa la magia in cui il bambino si trova sospeso. Usiamo la parola magia per indicare una forma di coordinamento perfetto fra le diverse parti della persona, incluso il flusso di eventi e percezioni in cui ci si trova immersi, che può avvenire solo se questi eventi e percezioni sono sufficientemente armonizzati, grazie all’assistenza della madre sufficientemente buona.9

LA MADRE CHE RISPECCHIA L’EMOTIVITÀ DEL BAMBINO

La situazione di faccia a faccia fra la madre ed il bambino costituisce un esempio interessante di come l’azione della madre può facilitare la maturazione del bambino assecondandone le tendenze ancora abbozzate.

Nella fase di fusione iniziale tra l’individuo e l’ambiente il neonato non è assolutamente in grado di interpretare il volto della madre come espressione dell’emotività della madre, e non è nemmeno consapevole del legame fra uno stato interno di benessere e la propria azione del sorridere. Se la madre però rispecchia col suo volto l’emotività del bambino, allora il bambino trova nel volto della madre un’esperienza che gli consente di sintonizzarsi su se stesso. Se volessimo fare un piccolo gioco di fantasia e creare una verbalizzazione immaginaria che renda conto, in qualche modo, dell’esperienza dal punto di vista del neonato, potremmo supporre che questo esclami in sé stesso: “Oh, ecco, io vedo che mamma sorride proprio nel momento in cui io ho cominciato a sentire questa sensazione calda di benessere che non so ancora come si chiama. Ma se mamma ha sorriso proprio in questo punto del mio processo interiore, allora io qui devo stare attento, perché proprio qui c’è qualcosa di importante di cui devo rendermi conto.”

Se invece la madre mostra costantemente al bambino un volto inespressivo o si concentra sempre sull’espressione della propria emotività, il bambino si troverà a confrontarsi con un’esperienza che non è ancora in grado di comprendere, e ciò potrebbe ostacolare lo sviluppo di una fiducia nella relazione fra sé stesso e la madre, e dunque fra sé stesso e il mondo.10

Winnicott usa la metafora dello specchio 11 per descrivere questa relazione di faccia a faccia tra la madre e il bambino, e descrive un caso esemplare. C’era una madre che mentre teneva in braccio la figlia continuava sempre a parlare con altre persone, cosí che non si concentrava adeguatamente sul rispecchiamento degli stati d’animo della sua bambina. Winnicott riporta una frase molto significativa pronunciata da questa bambina una volta diventata adulta, nel corso di una seduta terapeutica: “Non sarebbe terribile se il bambino guardasse nello specchio e non vedesse nulla?”12

L’ELEMENTO MASCHILE, L’IMPULSO AGLI OGGETTI, LA DISTRUZIONE

La fusione, l’essere e la femminilità appartengono dunque ad una fase della psiche di natura primordiale. Essi costituiscono il contesto, la base su cui si può innestare l’azione di quello che Winnicott chiama elemento maschile (presente, anche questo, sia nelle femmine che nei maschi) e che compie la distinzione dell’io dall’oggetto.13 Winnicott associa “l’impulso riferito agli oggetti (anche la voce passiva di questo) con l’elemento maschile”.14

Nell’ambito di ciò che Winnicott considera elemento maschile possiamo collocare l’istinto alla distruzione.15 La distruzione di cui parla Winnicott non è (o almeno non lo è sempre) una forma di reazione come quella a cui pensiamo normalmente quando si parla di rabbia: “L’attacco in stato di collera, relativo all’incontro con il principio di realtà, è un concetto più sofisticato, poiché pospone la distruzione che io postulo qui. Nella distruzione dell’oggetto a cui io mi riferisco non vi è rabbia.”16

Quando il bambino tenta di distruggere qualcosa, allora si renderà conto della resistenza che quel qualcosa è in grado di offrire. Le tendenze distruttive del bambino favoriscono cosí lo sviluppo dell’idea di un oggetto indipendente dal soggetto. In questo senso, i processi innescati dalla distruzione contribuiscono alla creazione della realtà. Ma, affinché questa maturazione possa compiersi, è necessario che l’oggetto (o la persona) resista e sopravviva ai tentativi di distruzione del soggetto. L’oggetto si crea tramite la sopravvivenza ad un atto di distruzione.17

Si intende generalmente che il principio di realtà coinvolge l’individuo in rabbia e distruzione reattiva, ma la mia tesi è che la distruzione ha un ruolo nel fare la realtà, collocando l’oggetto al di fuori del sé.18

“… dopo “il soggetto entra in rapporto con l’oggetto”, viene “il soggetto distrugge l’oggetto” (quando diventa esterno); e poi potrebbe venire: “l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto”. Ma la sopravvivenza può esserci o non esserci.”19

Winnicott parla di distruzione, ma al riguardo può sorgere una domanda: il fenomeno di cui parla Winnicott è sempre originariamente una distruzione, oppure può anche essere un movimento che nasce interiormente come un’affermazione di sé, e che diventa una distruzione solo per gli effetti esteriori che produce? Questa è una domanda che lasceremo aperta. Ciò che conta è che in ogni caso siamo in presenza di un’azione a cui viene offerta resistenza, ed è la resistenza offerta alla nostra azione che presiede alla consapevolezza di ciò che è altro da noi.20

RESISTERE ALLA DISTRUZIONE DEGLI ADOLESCENTI

Il ruolo della resistenza alla distruzione non è limitato all’infanzia, ma si stratifica attraverso le stagioni di vita, e si ripropone anche tra il genitore ed il figlio adolescente. Il conflitto con il figlio, infatti, è generalmente inevitabile. Anzitutto, è impossibile non fare errori, e gli errori verranno rinfacciati dai figli ai genitori. Poi, anche se il genitore è perfetto, l’adolescente ha bisogno di diventare adulto attraverso la vittoria contro un altro adulto. Dunque i genitori si troveranno comunque ad essere sotto attacco, ed il loro ruolo è quello di resistere e di sopravvivere agli attacchi del figlio.

Non ci si può aspettare dall’adolescenza la visione a distanza, la consapevolezza soppesata del patrimonio culturale, la creazione di progetti responsabili, sostenibili, attendibili. E, d’altra parte, l’irresponsabilità dell’adolescente può fornire un contributo di vitalità alla società.

Ma, affinché l’adolescente viva la sua avventura, è necessario che il ruolo della responsabilità sia esercitato dagli adulti. È necessario che gli adulti resistano sulle loro posizioni, delimitando così lo spazio concettuale degli adolescenti, fornendo loro un punto di riferimento. Questo dovrebbe avvenire senza vendetta, senza ritorsione, piuttosto come fosse un arginare.

Se invece gli adulti lasciano il campo libero agli adolescenti, se per così dire abdicano dal loro ruolo, se tentano di risolvere ogni conflitto nascondendo il conflitto, cosi facendo tolgono all’adolescente il punto di riferimento contro cui combattere e affermarsi, e implicitamente gli richiedono un’assunzione di responsabilità di cui non sono capaci, creando una sorta di falsa maturità.

Winnicott sintetizza in questo modo il suo punto di vista sul ruolo dei genitori: “il meglio che essi possano fare è di sopravvivere, di sopravvivere intatti, e senza rinunciare ad alcun principio importante.”21 22

LA FASE DELL’IO SONO E LE IDENTIFICAZIONI

Chiusa la digressione sul conflitto fra genitori e adolescenti, torniamo al processo di sviluppo che ha luogo nell’infanzia.

Lo stabilirsi di una consapevolezza di sé stessi distinti dal mondo esterno non avviene in un singolo atto, ma si stratifica, si specifica e si consolida nel corso di una maturazione che dura negli anni. Winnicott parla di fase dell’io sono23 per indicare un’esperienza di essere che già ha iniziato a consolidarsi ed è presente insieme ad una consapevolezza di ciò che è non-me.24 A partire dalla fase dell’io-sono diventano possibili i meccanismi di identificazione, che senza un io e un non-io non hanno senso (perché l’identificazione presuppone un io che esegua delle proiezioni di significato fra sé stesso e ciò che è altro da sé stesso). Tanto più si sviluppa questa consapevolezza della differenza fra me e non-me tanto più diviene possibile articolare delle forme di identificazioni strutturate, che si evolvono sulla base della consapevolezza di un sé distinto dagli altri. Al livello della fusione iniziale invece, non è lecito inferire una simile articolazione dell’identificazione.

Quindi dalla parte dell’elemento maschile l’identificazione ha bisogno di basarsi su complessi meccanismi mentali, meccanismi mentali cui bisogna dare tempo per manifestarsi, per svilupparsi, e per stabilirsi come parte del corredo del nuovo bambino. Sul versante dell’elemento femminile, tuttavia, l’identità richiede cosí poca struttura mentale che questa identità primaria può essere un tratto fin dal principio e la base per semplicemente essere si può porre (diciamo) dal momento della nascita, o prima, o immediatamente dopo…”25

Il fenomeno dell’identificazione è rilevante anche nell’ambito della relazione fra analista e paziente, fra i quali si stabiliscono delle reti di identificazioni reciproche. Queste corrispondono alla capacità di entrambi di mettersi uno nei panni dell’altro, e Winnicott si riferisce a questo incrocio di identificazioni con l’espressione identificazioni crociate.26 27

I pazienti che hanno una capacità limitata di identificazione introiettiva o proiettiva, presentano serie difficoltà per lo psicoterapeuta (…) In tali casi la principale speranza del terapeuta è di aumentare nel paziente la gamma delle identificazioni crociate…”28

IL GIOCO

IL GIOCO COME SPAZIO POTENZIALE

Nella visione di Winnicott il gioco è una dimensione presente lungo l’intero arco della vita umana, a partire dalla relazione privilegiata fra madre e neonato fino all’età adulta. Winnicott concepisce il fenomeno del gioco nell’ambito di uno spazio potenziale che si manifesta per la prima volta fra la madre ed il bambino: “L’area di gioco è uno spazio potenziale tra la madre ed il bambino, o che congiunge la madre e il bambino”.29 30

IL GIOCO HA BISOGNO DI UN CONTESTO PROTETTO

Uno spazio potenziale è uno spazio di possibilità di agire, del quale il bambino possiede qualche forma di consapevolezza.31 32 L’esplorazione di queste possibilità di agire può avvenire soltanto quando non vi sono altre necessità urgenti da soddisfare. Si gioca, per esempio, quando non si ha troppa fame e quando non si percepisce l’immediata presenza di un pericolo.33 Si gioca quando ci si sente al sicuro. Winnicott sottolinea in modo esplicito che il gioco può avvenire soltanto in un contesto protetto34 35 dove il bambino percepisce di potersi fidare.

IL GIOCO E L’EROTISMO

Il gioco è una forma di soddisfacimento autonoma rispetto all’erotismo, ed anzi, l’equilibrio del gioco è a rischio quando si attivano le zone erogene.36 In un certo senso si potrebbe dire che il contesto protetto in cui può originarsi il gioco implica anche una protezione dagli istinti erotici. (ciò non esclude che nell’adulto si possano sviluppare degli equilibri più complessi in grado di coniugare la sessualità ed il gioco).

IL GIOCO NON STA NÉ DENTRO NÉ FUORI

L’idea che il gioco sia uno spazio potenziale tra la madre ed il bambino si completa con l’idea per cui l’area di gioco non è collocata né dentro né fuori l’individuo: è tra me e gli altri. Il gioco non riguarda anzitutto l’interiorità o l’esteriorità. Il gioco riguarda anzitutto l’interazione fra esterno ed interno: “Questa area del gioco non è la realtà psichica interna. Essa è fuori dell’individuo, ma non è il mondo esterno.”37 e: “La cosa importante del gioco è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali.”38 39

IL GIOCO È INTERAZIONE

La collocazione né dentro né fuori può essere interpretata come una tendenza all’interazione. Il gioco implica l’impiego di entità esterne coordinate da esigenze interne. È l’applicazione di un’interiorità all’esteriorità40: “In questa area di gioco il bambino raccoglie oggetti o fenomeni del mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale. Senza allucinare, il bambino mette fuori un elemento del potenziale onirico, e vive con questo elemento in un selezionato contesto di frammenti della realtà esterna.”41

L’interattività del gioco si manifesta anche nel suo essere una base per la comunicazione umana (che è una forma di interazione).42 Se accettiamo il fatto che l’atto comunicativo è un atto creativo, e se come Winnicott riteniamo che la creatività possa avvenire soltanto nel gioco, allora si arriva all’idea che “…solo nel giocare è possibile la comunicazione; ad eccezione della comunicazione diretta, la quale appartiene alla psicopatologia oppure a un grado estremo di immaturità.”43

IL GIOCO E GLI OGGETTI TRANSIZIONALI

La collocazione né dentro né fuori suggerisce che il gioco sia assimilabile ai fenomeni transizionali, ed infatti Winnicott nota che Vi è una linea diretta di sviluppo dai fenomeni transizionali al gioco, e dal gioco al gioco condiviso, e da questo alle esperienze culturali.44 Non solo, Winnicott spiega anche che proprio lo studio degli oggetti transizionali gli ha consentito di intuire con più chiarezza la natura del gioco: “Per me il significato del gioco ha acquisito una nuova coloritura da quando ho seguito il tema dei fenomeni transizionali…”45

IL GIOCO E LA CREATIVITÀ

Il gioco è collegato alla creatività, intesa non come un’eventualità eccezionale quanto piuttosto come un processo continuo che può rinforzarsi o indebolirsi:46 “È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé.”47 48 49

Quando una persona “vive” e “partecipa alla vita della comunità”, allora “ogni cosa che accade è creativa”50. Date le condizioni (di fiducia) opportune, allora ogni dettaglio della vita del bambino è un esempio di vivere creativo”51

LE FASI DEL GIOCO NEL CORSO DELLO SVILUPPO

Il gioco, secondo Winnicott, compare subito dopo lo stato iniziale di fusione tra lattante ed oggetto, nel momento in cui iniziano ad articolarsi le strutture del non-me.52 Quando l’idea degli altri si è sufficientemente sedimentata e stabilizzata, allora diviene possibile giocare da soli, sarebbe a dire con la consapevolezza di essere soli, cosa che nello stato di fusione non è possibile, perché non si è ancora sviluppata a sufficienza l’idea degli altri, ed essere soli non ha dunque senso.53 La fase seguente implica la capacità di accedere ad una sovrapposizione fra la propria area di gioco e quella di altri individui: “Il bambino si sta ora approntando per lo stadio successivo, che è quello di ammettere una sovrapposizione delle due aree di gioco, e di goderne.”54

IL RAPPORTO PSICOANALITICO COME GIOCO

Il gioco per Winnicott non è circoscritto all’età infantile. Il gioco si manifesta anche in età adulta, ad esempio come scelta delle parole e dei toni.55 La psicoanalisi stessa è per Winnicott una forma molto elaborata di gioco: “…la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con sé stessi e con gli altri.”56

Mi sembra che sia valido il principio generale che la psicoterapia si svolge nella sovrapposizione di due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non è in grado di giocare allora non è adatto al lavoro. Se il paziente non è in grado di giocare, allora c’è bisogno di fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di diventare capace di giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare. La ragione per cui giocare è essenziale è che proprio mentre gioca il paziente è creativo.”57

La terapia psicoanalitica è un modo di prendersi cura dell’uomo. Vedere questa forma terapeutica come gioco è tutt’uno col ritenere che nel vivere creativo (e quindi nel gioco) si trovi una chiave di accesso al senso della vita: “Noi vediamo che o gli individui vivono creativamente e trovano che la vita vale la pena di essere vissuta, o che non possono vivere in maniera creativa e dubitano del valore del vivere. Questa variabile negli esseri umani è direttamente in rapporto alla qualità ed alla quantità di opportunità ambientale all’inizio o nelle prime fasi dell’esperienza di vita di ciascun bambino.”58

L’ESPERIENZA CULTURALE E LA TRADIZIONE

La creatività ed il gioco hanno un’origine biologica e sono presenti, in diversi gradi, anche nel mondo animale.59 Quando alla creatività del gioco si aggiunge la possibilità di tramandare le proprie scoperte di generazione in generazione, allora si costituisce l’area dell’esperienza culturale: “Il luogo in cui l’esperienza culturale è ubicata è lo spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente (originariamente l’oggetto). Lo stesso si può dire del gioco. L’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo, ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco.”60 L’esperienza culturale è una forma di creatività che prende le mosse dall’eredità di significato raccolta da chi è vissuto prima di noi. La tradizione risponde al bisogno di avere “un posto dove mettere ciò che troviamo” per conservarlo e passarlo ad altri. “Nel fare uso della parola cultura io penso alla tradizione che si eredita.”61; “…in ciascun campo culturale non è possibile essere originale eccetto che sulla base della tradizione.62 63

PER VIVERE LA TERZA AREA: PROTEZIONE, FIDUCIA E PATRIMONIO CULTURALE

Il gioco secondo Winnicott, lo abbiamo visto, si pone come terza area alternativa alla dicotomia secca fra dentro e fuori. La dimensione del fuori può essere esemplificata pensando a quelle persone che interpretano la vita in base al rapporto con gli oggetti esterni e al comportamento osservabile nel mondo. Vi sono poi altre persone che si concentrano sull’esperienza interiore, mistica, e subordinano ad essa i fatti economici e materiali. Quest’ultimo sarebbe l’approccio a cui ci riferiamo quando parliamo della zona che sta dentro. A Winnicott interessa un luogo intermedio fra questi due poli. Tale è luogo dove normalmente viviamo e del quale indaghiamo la natura, il luogo dove vi è un confronto intenso fra le aspettative generate dal soggetto e il riscontro concreto fornito dal mondo.

Mentre la realtà esterna e la realtà interna sono entrambe dotate di una loro forma di struttura stabile, la terza area (la sede dell’esperienza culturale e del gioco) è molto variabile e dipende dalle esperienze della singola persona. Affinché si possa vivere in modo adeguato questa terza area, vi sono due esigenze:

La prima necessità (…) è di proteggere il rapporto bambino-madre e bambino-genitore (…) cosicché possa verificarsi l’esistenza dello spazio potenziale in cui, grazie alla fiducia, il bambino è in grado di giocare creativamente.

La seconda necessità è (…) di essere pronti a porre ciascun bambino in rapporto con gli elementi appropriati dell’eredità culturale a seconda delle capacità del singolo bambino e della sua età emozionale, e della sua fase di sviluppo.” 64

Se c’è una singola idea di Winnicott che vogliamo ergere a principio pratico è proprio questa: per promuovere la vita dell’uomo è necessario fornirgli protezione (fiducia) e patrimonio culturale.

La Formula di Winnicott

La Formula di Winnicott

IL FANTASTICARE PATOLOGICO – UN CASO DI FALSO GIOCO

Nel secondo capitolo di Gioco e Realtà, Winnicott si sofferma sul caso di una donna che era solita dissociarsi dalla realtà circostante, dedicandosi a forme di fantasticare di natura patologica. Tale comportamento potrebbe a prima vista essere chiamato gioco, ma costituisce un fenomeno di natura differente. La paziente descritta da Winnicott si era specializzata nel vivere in un suo mondo parallelo anche mentre conduceva ogni tipo di attività insieme ad altre persone. Con l’andare del tempo aveva sviluppato un approccio alla vita per cui nulla era davvero importante, e passava un tempo lunghissimo persa nelle sue immaginazioni. Le immaginazioni non si trasformavano in attività reali, perché nel tentativo di rendere le sue attività più concrete la paziente trovava degli ostacoli pratici che le facevano perdere l’interesse. Preferiva l’onnipotenza del mondo immaginario alla difficoltà di interagire col mondo vero.

Il tratto fondamentale della condizione appena descritta era la profonda dissociazione rispetto alla vita reale.65 Il sognare ad occhi aperti di questa donna si presentava come radicalmente diverso dal sogno vero e proprio, che non è isolato rispetto al vivere quotidiano ma ne riflette gli andamenti emotivi. Winnicott osserva esplicitamente che un simile fantasticare patologico non è una forma di gioco, e che il gioco è più prossimo all’ordine del vivere e del sogno: “Si può qui osservare che il gioco creativo è imparentato con il sogno e col vivere ma essenzialmente non appartiene al fantasticare.”66 In ciò intravediamo la conferma del fatto che la natura del gioco è quella di coinvolgere ed integrare in unità di significato nuove, là dove il tratto distintivo del fantasticare descritto da Winnicott è la dissociazione.67 68 69

CONSIDERAZIONI FINALI

WINNICOTT, IL GIOCO E LE NEUROSCIENZE AFFETTIVE

La nostra ricerca sulla natura del gioco nasce dalla visione delle neuroscienze affettive elaborata da Jaak Panksepp, che considera il gioco come un sistema emotivo di natura biologica. Nel corso della nostra ricerca abbiamo letto una varietà di pubblicazioni che prendono in considerazione il gioco da punti di vista molto diversi. Si va dall’etologia alla filosofia, dalla psicologia alla pedagogia, dallo sviluppo del bambino alle strategie manageriali. In Donald Winnicott abbiamo trovato una visione capace di mettere a fuoco in modo sorprendentemente chiaro e profondo alcuni dei più importanti aspetti del gioco. Il libro Gioco e Realtà, d’altra parte, non costituisce una descrizione sistematica e coerente del gioco, quanto piuttosto una collezione di approcci di estremo interesse ma non portati del tutto a coerenza. Per questo abbiamo ritenuto opportuno fare lo sforzo di riesporre il pensiero di Winnicott, riordinandolo secondo una narrativa il più possibile intuitiva e coerente. Questa narrativa ha preso le mosse dallo stato di fusione iniziale, si è mossa attraverso le fasi di distinzione fra ciò che è me e ciò che è non me,70 e si è quindi soffermata sui vari aspetti del gioco evidenziati da Winnicott.

La sintesi che abbiamo fatto a riguardo del gioco, lo si è visto, ha assunto una forma meno unitaria ed integrata rispetto a quanto detto sul processo di sviluppo. Dare una maggiore fluidità al discorso sul gioco è la sfida di fronte alla quale ci troviamo. Essa sottintende una più profonda comprensione del fenomeno del gioco, e si inserisce nel più ampio panorama dell’indagine scientifica sui sistemi emotivi.

Il lettore attento avrà forse notato che nell’apparato di note a fondo pagina abbiamo già introdotto alcune possibili aperture rispetto alla visione originale elaborata da Winnicott. Qui di seguito ci concentriamo su un aspetto in particolare, e andiamo a mettere in evidenza un nostro approccio (non attribuibile direttamente a Winnicott) relativo alla tematica del dentro e del fuori.

NON FUORI E DENTRO, BENSÌ SULLA FRONTIERA

Winnicott colloca il gioco in una terza area rispetto al dentro ed al fuori, rispetto all’interiorità e all’esteriorità. Queste ultime sono due zone di indagine tipiche della tradizione psicoanalitica e al tempo stesso due concetti molto prossimi al senso comune. In base alla nostra comprensione intuitiva di tali concetti, è molto facile pensare che una qualsiasi entità scelta a piacere stia dentro di noi oppure fuori di noi. Nel momento in cui si indica una terza zona alternativa al dentro e al fuori, dunque, si tende a creare una sorta di paradosso, perché siamo abituati a pensare il dentro ed il fuori come due regioni che esauriscono le possibilità di collocazione delle entità nel mondo. Tale paradosso può essere utile come invito a staccarsi dai modi abituali di pensiero, ma poi è anche necessario dare una sistemazione coerente e non paradossale a tale riflessione, che confluisca nella comprensione del fenomeno del gioco. Ci sembra che sia possibile tentare di impostare la soluzione come segue.

La terza area cui il gioco appartiene può essere interpretata come un’area di frontiera, come un’area di definizione ancora incompleta (l’idea di frontiera tende a stabilire un ponte fra la visione di Winnicott e quella di Vygotsky, che ha elaborato l’idea di Zona di Sviluppo Prossimale). Il gioco è pertinente alla fase di comprensione del mondo, e non sta né dentro né fuori perché non riguarda le proprietà regolari del mondo identificate con sicurezza una volta per tutte. Riguarda invece una zona di elaborazione in corso, una zona liminale, una zona di confine fra il certamente noto e lo sconosciuto rispetto alla quale siamo ancora in fase di approccio.71 72

Prendiamo l’esempio del bambino che sta imparando a camminare. Per lui compiere i passi è una cosa nuova e la vive come un gioco.73 Il sistema nervoso del bambino non è ancora in grado di disporre compiutamente i passi uno dopo l’altro. La competenza del camminare è ancora in fase di formazione, ed il gioco del camminare non sta né dentro né fuori. Potremmo forse dire che sta dappertutto. Sta nelle sensazioni muscolari come nel sostegno offerto dal pavimento, nel luogo che il bambino vuole raggiungere come nel ritmo dei passi che si concatenano uno con l’altro, nelle incitazioni da parte dei genitori come nel desiderio di soddisfarli.

Per l’adulto, diversamente dal bambino, è possibile discorrere del processo del camminare individuandone le diverse proprietà e collocandole nel dominio esteriore piuttosto che interiore. La sensazione del peso sul callo è interiore, mentre il pavimento su cui cammino è esteriore, cosí come il luogo che voglio raggiungere. Il ragionamento che faccio per collocare il passo è interiore, mentre il piede che si appoggia proprio nel punto giusto è più prossimo al dominio dell’esteriorità. Soprattutto, per l’adulto, il camminare può funzionare in modo automatico ed è un’esperienza ben definita, conosciuta, classificata. Per il bambino invece è un universo da scoprire.

Con questo esempio forse si vede meglio che la caratteristica del gioco è solo in seconda battuta quella di non essere né fuori né dentro74 ed in maniera più profonda quella di stare sulla frontiera di comprensione del mondo, là dove sta avvenendo un’integrazione di informazione che provoca un notevole senso di unità e di fluidità.75

Winnicott ha scelto di organizzare il tema del gioco sulla dicotomia dentro-fuori. Noi crediamo che questa coppia di opposti sia sì importante, ma crediamo anche che vi sia un modo alternativo di affrontare la questione, per certi versi più proficuo. La nostra ipotesi di lavoro si può descrivere brevemente in questo modo: ciò che comanda (nel senso di ciò che è più primitivo, originario, ancestrale nell’architettura della mente) non è la distinzione fra fuori e dentro. Ciò che comanda è la scoperta di ciò che è stabile, di ciò che dura, di ciò che torna.76 La distinzione fra fuori e dentro può quindi essere vista come un’articolazione che si sviluppa in parallelo alla scoperta degli enti stabili che incontriamo nel mondo.

Fra le cose che si dimostrano solide e durevoli nel nostro mondo vissuto, si arriva presto a distinguere la famiglia dei corpi fisici materiali, la quale include sia gli oggetti animati che quelli inanimati. I corpi fisici materiali hanno delle notevoli caratteristiche intrinseche di stabilità, e queste caratteristiche sono pubbliche77, ovvero appartengono a un dominio condiviso con le altre persone.78 Gli oggetti materiali hanno una forma stabile, sono dotati di un certo grado di durezza, sono colorati, non sono interpenetrabili e sono incontrabili dalle nostre mani. Ciò che noi chiamiamo fuori si fonda normalmente su questa famiglia di entità (in modo speculare, l’interiorità riguarda entità di tipo soggettivo, accessibili soltanto alla singola persona).

L’essere umano, d’altra parte, non sembra essere organizzato in modo tale da individuare una precisa linea che distingua ciò che gli è interno da ciò che gli è esterno. E lo si intuisce meglio se si prova a riflettere sulla precisa collocazione di entità come ad esempio i numeri, o la bellezza o l’armonia, solo per fare un esempio. Oppure i colori, le forme, le leggi fisiche, le parole, il sapere e le convenzioni sociali. Incluse le regole dei giochi.

La discussione su ciò che sta dentro e ciò che sta fuori si colloca nell’ambito del più ampio dibattito fra realismo ed idealismo, e induce in chi la affronta una sottile traslazione dello sguardo. Ogni organismo vivente pare essere calato nel fluire della realtà come in un grande apeiron indefinito di cui è chiamato a scoprire la struttura nascosta, inclusa la mappatura dei luoghi che si possono indicare come esteriori o interiori.

Winnicott ha collocato il gioco in una terza area alternativa ad interiorità ed esteriorità. Noi abbiamo tentato di interpretare questo luogo misterioso come una sorta di frontiera di comprensione del mondo. Winnicott suggerisce anche che fornire il patrimonio culturale adeguato promuova il gioco. Ma cosa significa fornire patrimonio culturale, se non andare ad alterare proprio la nostra frontiera di comprensione del mondo?

È questa un’osservazione che per ora poniamo soltanto senza tentare di trarne tutte le conseguenze. Le idee appena esposte hanno bisogno di tempo per sedimentare, e il prossimo passo della nostra ricerca potrebbe essere l’esposizione della visione di un altro grande teorico del gioco. Potrebbe essere Piaget, o forse Huizinga.

In attesa degli sviluppi ulteriori di quest’indagine, vorremmo lasciare al lettore un’immagine che ne sottolinei l’importanza.

La frontiera di cui stiamo parlando si configura come un luogo cui è desiderabile stare vicini, ma non è questo un compito facile. La frontiera di se stessi non è una sorta di linea regolare che trasla in avanti come il limite delle terre dissodate, delle paludi bonificate, o dei territori nemici conquistati. La struttura della frontiera di comprensione assomiglia più alla forma delle fiamme, o al profilo delle nuvole in un giorno ventoso. Essa è mobile, complessa e sfuggente.

Saremo in grado di scrivere la formula di queste nuvole e di queste fiamme? Riuscirci significherebbe porsi in modo diverso di fronte al tempo e ai giorni. Significherebbe sapere in ogni situazione quale è l’atto di comprensione giusto che consenta di stare nella luce. Avremmo allora a che fare con una trasfigurazione capace di spostare qualitativamente il piano in cui il nostro vivere accade.

Ecco, noi siamo ottimisti, e dalla comprensione del fenomeno gioco non ci aspettiamo niente di meno che questo. Una nuova arte dei giorni, di un tipo che mai si era visto prima.

INDICE DEL LIBRO GIOCO E REALTÀ

Gioco e Realtà - indice 1/2

Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Indice (prima parte).

Gioco e Realtà - indice 2/2

Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Indice (seconda parte).

BIBLIOGRAFIA DEL LIBRO GIOCO E REALTÀ

Gioco e Realtà - bibliografia 1/2

Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Bibliografia (prima parte).

Gioco e Realtà - bibliografia 2/2

Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Bibliografia (seconda parte).

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1Winnicott, Donald Woods. Gioco e realtà. Armando editore, 1971 (undicesima ristampa del 1993).

2Winnicott 1971, 27-28.

3Esempi di oggetti transizionali sono l’orsacchiotto, l’angolo di una coperta, un pezzo di stoffa, giocattoli morbidi oppure duri.

4Vorrei impiegare un esempio, che non appartiene a Winnicott, per dare meglio l’idea di cosa sia l’oggetto transizionale. Pensate ad un adolescente che ha appena iniziato ad esplorare la dimensione della propria sessualità. Di questo ragazzo, o di questa ragazza, possiamo dire che ha trovato qualcosa, ma non sa ancora come funziona. Non sa ancora come la propria sessualità si comporterà a seguito di questa o quella azione. Non ha ancora sviluppato un repertorio di competenze consolidate in questa nuova sfera dell’essere. Non è ancora in grado di argomentare le cause e le conseguenze della sessualità riconducendole alle architetture di sapere acquisite fino a quel momento, e quindi non è nemmeno in grado di collocare propriamente dentro o fuori di sé i singoli aspetti della sessualità.

L’aura di indeterminazione che avvolge la sessualità al momento della sua scoperta mi sembra avere molto in comune con l’emotività suscitata in un bambino dagli oggetti transizionali.

(P.S. qui il paragone non è fra la sfera transizionale e la sfera sessuale, ma fra la sfera transizionale ed il momento di scoperta della sfera sessuale.)

5Il maiuscolo è di Winnicott.

6Tra pagina 143 e pagina 149-150. Winnicott dice chiaramente che questa modalità di essere è disponibile a partire da una fase originaria, forse anche da prima della nascita.

7“…ciò che è forse la più semplice di tutte le esperienze, l’esperienza di essere.” Winnicott 1971, 143.

8Winnicott 1971, 146-147.

9Se la madre sa rappresentare questa parte per un congruo periodo di tempo, senza lasciare che nulla interferisca in tale compito, il bambino vive allora qualche esperienza di controllo magico, cioè l’esperienza di ciò che viene chiamato onnipotenza nella descrizione dei processi intrapsichici.” Winnicott 1971, 92.

10Successivamente, più avanti nel percorso di sviluppo del bambino, ci si troverà nella situazione in cui ci sarà bisogno di resistere all’azione affermativa del bambino per far si che egli si renda conto dell’esistenza di un altro individuo di cui deve tenere conto.

11Vedi il capitolo nove: “La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile.”

12Winnicott 1971, 198.

13Qui sarebbe interessante un confronto con le idee di Simondon. Sarebbe interessante anche capire come è implicata in questo processo la stratificazione dei sistemi di memoria.

14Winnicott 1971, 150.

15Winnicott associa esplicitamente l’elemento maschile al manifestarsi di determinati istinti:

“Desidero dire che l’elemento che chiamo “maschile” ha a che fare con lo stabilire un rapporto attivo o il subire un rapporto passivo, entrambi essendo sostenuti dall’istinto.” Winnicott 1971, 141.

Sono arrivato ad un punto in cui affermo che entrare in rapporto con l’oggetto in termini di questo puro elemento femminile non ha nulla a che fare con la pulsione (o istinto). Entrare in rapporto con l’oggetto col sostegno della pulsione istintuale appartiene all’elemento maschile nella personalità non contaminata dall’elemento femminile.” Winnicott 1971, 146.

16Winnicott 1971, 163.

17Nel seguente riferimento bibliografico dovrebbe essere possibile rintracciare il riferimento a un gruppo di teorici (incluso Piaget) che intendono il gioco come proiezione di un elemento interno sull’esterno: D.B. ELKONIN (2005) Chapter 3 : Theories of Play, Journal of Russian & East. European Psychology, 43:2, 3-89)

18Winnicott 1971, 159.

19Winnicott 1971, 157.

20Tra le molteplici strutture psicologiche che noi esseri umani adulti diamo per scontate senza farci caso, vi è l’idea che noi esistiamo in un contesto di oggetti durevoli. Abbiamo un’idea più o meno precisa degli oggetti materiali e delle strutture relazionali che siamo destinati a ritrovare giorno per giorno nella nostra attività quotidiana, e organizziamo le nostre varie tendenze ad agire armonizzandole a questo schema di strutture durevoli. Sappiamo che il tavolo reggerà il bicchiere, che il calore della fiamma (o del microonde) scalderà la minestra, che l’interruttore accenderà la luce, che la nostra compagna verrà ad aiutarci quando ne avremo bisogno, che il vento freddo ci farà ammalare, che l’alcol ci renderà le idee confuse, che lunedì mattina ci dobbiamo alzare a una certa ora. Il bambino non ha la consapevolezza di questo sfondo di regolarità del vivere quotidiano. Di conseguenza darà corso ai suoi istinti senza tenere conto di questo sfondo che per noi è ovvio, e facilmente compierà delle azioni che non tengono conto di questa rete di regolarità del mondo reale, semplicemente non ne ha consapevolezza. Di conseguenza, pur senza la volontà di rompere le regole, è molto facile che il suo agire abbia effetti distruttivi nei confronti di ciò che per noi esiste.

Forse, quella che Winnicott chiama distruzione può essere meglio compresa (almeno in alcuni casi) come un’azione che non è stata armonizzata adeguatamente alle regolarità del reale, che per noi sono cosí ovvie.

Questa impostazione di considerare la distruzione come una forma di azione poco coordinata al reale, implica che si possa intendere il processo di creazione dell’oggetto come lo stabilirsi di una rete di comprensioni del tipo: a questa azione seguirà quella risposta. Che sarebbe una generalizzazione di una comprensione del tipo: a questo tentativo di distruzione segue quella capacità di sopravvivere.

Tutta questa argomentazione non è motivata dal fatto che riteniamo il bambino neonato incapace di rabbia, visto che è più probabile l’opposto. Si tratta piuttosto di chiarire che un comportamento chiamato distruzione può avere almeno due origini distinte. Una sta nel sistema emotivo fondamentale della rabbia. L’altra sta in una diversa visione del medesimo contesto materiale.

Qualunque ne sia l’origine, rimane il fatto che i comportamenti distruttivi chiamano in causa la capacità di resistere da parte degli oggetti e da parte delle altre persone. Il bambino si ricorderà di ciò che gli ha resistito, e la volta successiva ne terrà conto. La volta successiva si comporterà con una maggiore consapevolezza della struttura del reale.

21Winnicott 1971, 240.

22Sul tema della distruzione considera anche queste due citazioni:

““Mentre io ti amo, continuamente ti distruggo nella fantasia” (inconscia)” Winnicott 1971, 157.

“…lo stabilire un rapporto da parte dell’elemento maschile con l’oggetto presuppone l’esserne separato. Non appena l’organizzazione dell’io è disponibile, il bambino consente all’oggetto la qualità di essere non-me o separato, e sperimenta soddisfazioni istintuali che comprendono la collera per la frustrazione.” Winnicott 1971, 143.

Per quanto riguarda la distruzione nell’ambito del rapporto con l’analista, si può osservare che nel corso del recupero della capacità di identificarsi cresce l’abilità di gestire l’interazione fra se e gli altri, e possono aver luogo anche degli sbilanciamenti, delle affermazioni di se impositive a cui lo psicanalista deve resistere per ristabilire l’equilibrio. Confronta con: Si dovrebbe aggiungere che insieme con questa nuova capacità di empatia, era subentrata nel transfert una nuova crudeltà e una capacità di fare delle grosse richieste all’analista, quasi sottintendesse che l’analista, ora fenomeno esterno o separato, avrebbe badato a difendersi. Winnicott 1971, 226.

23A pagina 217 Winnicott osserva che l’io sono viene prima dell’io faccio. Del resto a pagina 218 Winnicott osserva anche che la fase dell’io sono è quella in cui il bambino dice di essere me in opposizione all’essere non me. Ma la dimensione del non-me implica che si sia usciti almeno parzialmente dalla fase di fusione iniziale individuando appunto il non-me. E la dimensione del non me è la dimensione degli oggetti e del fare. Dunque la fase dell’io sono sarebbe almeno parzialmente posteriore a quella del fare, il che crea un’ambiguità rispetto a quanto detto alla pagina precedente.

Mi pare che il modo migliore di sistemare quest’ambiguità sia la posizione descritta qui di seguito.

Vi è una fase iniziale in cui il neonato è predisposto ad esperire una forma di essere labile e priva del riconoscimento di oggetti. Grazie all’aiuto della madre l’esperienza di essere si va consolidando e diviene la base per una definizione via via più accurata della dimensione del non-me. Winnicott parla di fase dell’io sono per indicare un’esperienza di essere che già ha iniziato a consolidarsi ed è presente insieme ad una consapevolezza di ciò che è non-me. Ripeto per chiarezza: lo stabilirsi di una consapevolezza di sé stessi distinti dal mondo esterno non avviene assolutamente in un singolo atto, ma si stratifica, si specifica e si consolida nel corso di una maturazione che dura degli anni (e che potenzialmente non finisce mai. Si pensi al modo in cui un adulto si può identificare o meno con una squadra sportiva, con una nazione, o con il gruppo aziendale). Tanto più si sviluppa questa consapevolezza della differenza fra me e non-me tanto più divengono possibili delle forme di identificazione che si costruiscono non come fusioni indistinte, ma come fenomeni più elaborati, basati su una consapevolezza di distinzione.

24“…trovo che la caratteristica dell’elemento femminile nel contesto dell’entrare in rapporto con l’oggetto è l’identità, che dà al bambino la base per essere, e quindi, più tardi, una base per un senso di sé.” Winnicott 1971, 150.

25Winnicott 1971, 143.

26Il sopravvivere dell’analista alla distruttività (…) fa sì che una cosa nuova accade, cioè l’uso dell’analista da parte del paziente, e l’inizio di un nuovo rapporto basato sulle identificazioni crociate (vedi cap. VI). Il paziente può ora cominciare a mettersi con l’immaginazione nei panni dell’analista e (al tempo stesso) è possibile ed è bene, per l’analista, mettersi nei panni del paziente pur da una posizione di stare con i propri piedi in terra.” Winnicott 1971, 228.

27Vi sono però dei pazienti incapaci di identificazione e di empatia. In tal caso si può cercare di lavorare su zone specifiche di esperienza dove l’identificazione è possibile. Ad esempio Winnicott racconta il caso di una paziente che negava l’importanza di addolorarsi per le persone morte, ma le era capitato di sentirsi addolorata per le persone oppresse di tutto il mondo, oppure poteva parzialmente identificarsi coi propri studenti.

Vedi anche, al riguardo, le considerazioni di Winnicott sull’esperienza vicaria, per esempio a pagina 225.

28Winnicott 1971, 202.

29Winnicott 1971, 93.

30La nozione di spazio potenziale è ripresa più volte nel corso del libro. Ecco un’altra citazione significativa: “Propongo come idea, per discuterne il valore, la tesi che per il gioco creativo e per l’esperienza culturale, fino ai suoi sviluppi più sofisticati, la posizione è lo spazio potenziale tra il bambino e la madre.” Winnicott 1971, 184.

31Non è immediato passare dal concetto di spazio potenziale all’idea di consapevolezza delle possibilità. Si potrebbe obiettare che queste possibilità rimangono a livello incosciente. Vi sono alcune affermazioni di Winnicott che fanno propendere verso l’idea che il bambino sia cosciente di tali possibilità:

La fiducia nella madre produce qui un’area di gioco intermedia, dove si origina l’idea del magico, poiché il bambino fa effettivamente esperienza, in qualche misura, dell’onnipotenza.” Winnicott 1971, 92-93.

Fin dall’inizio il bambino ha esperienze estremamente intense nello spazio potenziale tra l’oggetto soggettivo e l’oggetto percepito oggettivamente, tra le estensioni-del-me e il non-me. Questo spazio potenziale è al punto dell’azione reciproca tra il non esserci altro che il me e l’esserci oggetti e fenomeni al di fuori del controllo onnipotente.” Winnicott 1971, 173.

32Tale consapevolezza del campo delle possibilità non è sufficiente a definire il gioco, ma sembra essere una caratteristica che si accompagna alle manifestazioni di gioco.

L’idea di uno spazio potenziale di possibili azioni implica che nel gioco non si abbia a che fare con uno schema di comportamento predeterminato, ma con un entità in via di definizione.

33Questo ci aiuta a definire meglio la collocazione del gioco nell’ambito dell’architettura degli istinti (o, se preferite, delle predisposizioni biologiche). Il gioco ha un livello di priorità inferiore rispetto alla fame oppure alla paura.

34Il gioco implica la fiducia.” Winnicott 1971, 99.

Interessanti anche le osservazioni sulla rilassatezza a pagina 104-106. Qui Winnicott parla di “rilassamento in condizioni di fiducia basata sull’esperienza.” Winnicott 1971, 106.

35Lo spazio potenziale ha luogo soltanto in rapporto ad un sentimento di fiducia da parte del bambino…” Winnicott 1971, 173.

36“L’eccitamento corporeo nelle zone erogene minaccia costantemente il gioco…” Winnicott 1971, 99.

37Winnicott 1971, 99. Considera anche la stessa citazione, ma in versione più completa: “Il bambino che gioca abita in un’area che non può essere facilmente lasciata, e che non ammette facilmente intrusioni. (…) Questa area del gioco non è la realtà psichica interna. Essa è fuori dell’individuo, ma non è il mondo esterno.

38Winnicott 1971, 93.

39E anche: “…la precarietà del gioco è dovuta al fatto che esso si svolge sempre sulla linea teorica che separa il soggettivo da ciò che è oggettivamente percepito.” Winnicott 1971, 97.

40Questa impostazione si presta ad un collegamento con la visione di Piaget.

41Winnicott 1971, 99.

42Nota che in Gilbert Simondon è la presenza di un retroterra comune preindividuale che rende possibile la relazione. Si tratta di una configurazione analoga a questa del gioco come retroterra che consente la comunicazione. In questo momento non ho il testo sottomano per verificarlo, ma si dovrebbe poter trovare un passo interessante in Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, (Milano-Udine 2011: Mimesis). A pagina 441.

A tal proposito: “…a questo punto dove la creatività o si realizza o non si realizza (o, come alternativa, va perduta), il teorico deve prendere in considerazione l’ambiente, e nessuna formulazione che riguardi l’individuo come isolato può toccare questo problema centrale dell’origine della creatività.” Winnicott 1971, 129.

43Winnicott 1971, 103.

La relazione fra il gioco e la comunicazione avrebbe bisogno di un approfondimento maggiore. In Gioco e Realtà di Winnicott questo tema è affrontato in modo meno approfondito rispetto ad altre questioni. Quest’ultima citazione sulla comunicazione è stata fatta per essere ripresa in un momento successivo della nostra ricerca. In questa sede ci limitiamo ad una considerazione che potrebbe essere il punto di partenza per capire come la comunicazione umana partecipa del fenomeno del gioco. I bambini che giocano si inseguono a ruoli alterni, cosí come pure i cuccioli di molte specie di mammiferi. Nel corso di questo rincorrersi reciproco i partecipanti al gioco alternano ritmicamente la loro posizione psicologica reciproca. Questa struttura a turni potrebbe essere analoga all’alternarsi delle frasi nel dialogo umano.

44Winnicott 1971, 99.

45Winnicott 1971, 82.

46A sostegno del fatto che il processo di creatività può rafforzarsi o indebolirsi: “…si possono studiare le ragioni per cui il vivere creativamente può andare perduto…” Winnicott 1971, 126.

E vedi anche la citazione di cui alla nota 58. ( “Noi vediamo che…”)

47Winnicott 1971, 102-103.

48Ricordiamoci, in vista di un collegamento con Dehaene, che l’essere creativo sembra essere un modo di produrre nuove associazioni, nuove strutture, nuove comprensioni: nuove integrazioni.

49Considera anche: La creatività che noi stiamo studiando appartiene alla maniera che ha l’individuo di incontrarsi con la realtà esterna.Winnicott 1971, 123-124.

50Winnicott 1971, 124.

51Winnicott 1971, 174.

52Vedi i punti A e B a pagina 92-93.

53Lo stadio successivo è quello di stare da soli, alla presenza di qualcuno.” Winnicott 1971, 93.

54Winnicott 1971, 93.

55Ritengo che dobbiamo aspettarci di trovare il gioco in modo non meno manifesto nelle analisi degli adulti di quanto lo sia nel caso del nostro lavoro con i bambini. Esso si manifesta, per esempio, nella scelta delle parole, nelle inflessioni della voce, e soprattutto nell’umorismo.” Winnicott 1971, 82.

56Winnicott 1971, 84.

57Winnicott 1971, 102.

58Winnicott 1971, 129.

59“La creatività di cui mi occupo io qui, è universale. Appartiene al fatto di essere vivi. È da presumere che appartenga alla vitalità di alcuni animali non meno che a quella degli esseri umani, ma deve essere meno fortemente significativa quando si tratta di animali o di esseri umani con bassa capacità intellettiva di quanto lo sia negli esseri umani che hanno capacità intellettiva pressoché media o superiore alla media.” Winnicott 1971, 123.

60Winnicott 1971, 172.

61Winnicott 1971, 171.

62Winnicott 1971, 171.

63Vedi anche: “Per me, il giocare porta in maniera naturale all’esperienza culturale e invero ne costituisce le fondamenta.” Winnicott 1971, 182.

64Winnicott 1971, 188.

65“Con chiarezza inaspettata abbiamo visto che il sogno e il vivere reale sono dello stesso ordine, mentre il sogno ad occhi aperti è di un altro ordine.” Winnicott 1971, 61.

“Le differenze qualitative possono essere estremamente sottili e difficili da descrivere: ciononostante la grande differenza dipende dalla presenta o dall’assenza di uno stato di dissociazione.” Winnicott 1971, 62.

66Winnicott 1971, 69.

67Il puro fantasticare avulso dalla realtà (non la fantasia in generale) rappresenta una situazione di stallo. Sembra che non abbia origine a seguito dell’attrazione per una certa zona d’esperienza, quanto dall’evitamento di qualcosa d’altro. Sembra che non dia luogo ad una integrazione di alcuni elementi di realtà in unità nuove. Ripropone invece percorsi di pensiero sterili che non incidono sulla situazione (emotiva) fondamentale. Nel fantasticare non sembra esserci una vera apertura al possibile, quanto un contenimento del possibile, forse mosso da paura. Forse che il fantasticare è una forma di gioco minore che si produce in un contesto maggiore, del primo ordine, più esterno, determinato anzitutto dalla paura? Qui non si può essere sicuri, servirebbe un approfondimento.

68Potremmo anche dire che questo fantasticare non implica l’apertura ad un apeiron indefinito in cui portare definitezza. Non a caso Winnicott giunge a notare l’assenza dell’informe nel sistema di esperienza di questa paziente: “La parola chiave che doveva essere riportata nel sogno era l’informe, che è la condizione in cui si trova il materiale prima di essere modellato, tagliato, formato e messo insieme. (…) Inoltre, la speranza, che le faceva sentire che qualcosa poteva essere fatta dall’informe, sarebbe dunque venuta dalla fiducia che lei aveva nel suo analista, il quale doveva agire contro tutto quello che lei si portava dalla infanzia. L’ambiente della sua infanzia non sembrava capace di permetterle di essere senza forma ma doveva, cosí come lei lo aveva percepito, modellarla e tagliarla nelle fogge concepite dagli altri. Proprio alla fine della seduta essa ebbe per un momento intense sensazioni in associazione con l’idea che non vi era stato nessuno (dal suo punto di vista), nella sua infanzia, a capire che lei doveva cominciare dall’informe. Non appena giunse a riconoscere ciò si arrabbiò davvero molto.” Winnicott 1971, 72-73.

69Sento qui il bisogno di una precisazione. Noi crediamo nella possibilità di proporre una forma di Romanticismo Positivo. Il Romanticismo non riguarda il fantasticare che fugge dal mondo vero. Il Romanticismo che chiamiamo in causa noi è una forma di coinvolgimento profondo nel mondo. Noi siamo i primi a sostenere che nel modo di vita del bambino vi sia un che di prezioso da salvaguardare e riproporre. Ma proprio perché ciò avvenga è necessario compiere le distinzioni giuste. Il fantasticare a vuoto non è la nostra bandiera. Noi invitiamo alle meraviglie concrete del mondo reale. Del resto è chiaro che l’abitudine al fantasticare si costruisce intorno tutte le sue giustificazioni difensive, e non può essere trasformata rapidamente in una forma di aderenza al mondo.

70Quest’ordine di esposizione è differente da quello originale del libro di Winnicott, che prende le mosse dal concetto di oggetto transizionale e non è ordinato in base alle fasi di sviluppo cronologico del bambino.

71Organizzare il nostro discorso in base all’identificazione degli invarianti e non in base alla distinzione dentro-fuori sembra indurre uno spostamento dal dominio dello spazio a quello del tempo.

72È abbastanza immediato constatare che una riflessione analoga alla contrapposizione dentro-fuori può essere impostata a riguardo della contrapposizione idealismo-realismo. Vedi anche “Le emozioni di base secondo Panksepp”, alle pagine 76-79.

73Questa affermazione fa parte della nostra ipotesi di lavoro e non è scontata.

74Ricordiamoci che questa posizione di Winnicott nasce come polemica contro l’impostazione tradizionale della psicoanalisi con cui lui si confrontava.

75Rispetto all’idea di frontiera di comprensione, si può osservare che la frontiera che si affaccia sull’indefinito non è per forza di cose un luogo che genera comprensione. Può anche essere un affacciarsi che rimane un affacciarsi. Ma non credo di essere ancora pronto ad approfondire questo tema.

76La scienza stessa, è ben noto, si configura come una grande impresa volta a scoprire i caratteri invarianti del mondo.

77Per quanto riguarda la dimensione pubblica degli oggetti, vedi anche Willard Van Orman Quine, Word and Object, (Cambridge: The MIT Press, 1960), 1.

78L’essere condivisi fa si che si verifichi una sorta di risonanza che mette a punto e stabilizza l’idea di questi enti. La risonanza è un ripetersi di anelli che conduce all’oggettività. Ma c’è qualcosa di sfuggente che vorrei aggiungere a riguardo di questo tema, ovvero al modo in cui gli oggetti materiali ad accesso condiviso conducono all’emersione di equilibri stabili. La condivisione interindividuale sembra essere una condizione che conduce ad anelli di stabilizzazione, i quali producono, o trovano, o evidenziano gli invarianti. Stiamo parlando dell’origine dell’oggettività. Se dovessi cercare di formalizzare meglio questo aspetto, sarei tentato di dire che la prima fase dell’emersione degli invarianti è la creazione di anelli. Poi l’invariante vero e proprio si forma come proprietà di questi anelli. Gli anelli durano, perché c’è uno stato che ritorna. Ma sembra quasi che questi anelli possano esistere anche senza che nessuno li veda. Al contrario di quell’albero che cade nella foresta anche senza nessuno che lo sente cadere. Ma non è proprio cosí. E dietro questi anelli ci sono delle forme di omeostasi e di retroazione. È lecito interpretare gli anelli come un principio di individuazione? Si parla di anello quando una traiettoria si chiude. Questo può accadere a qualsiasi livello dell’essere? Quindi avremo anelli galleggianti sopra e sotto profondi spazi e fasi e strutture?

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