La reificazione e la natura del cervello: dalle neuroscienze alle atmosfere

Stanislas Dehaene è un ricercatore a capo del più importante laboratorio francese di neuroimaging. Nel suo libro Coscienza e Cervello (di cui ho pubblicato una sintesi in un altro articolo) parla della relazione fra coscienza ed inconscio, ed ha modo di mettere a fuoco alcuni aspetti del funzionamento del cervello che sono a mio avviso interessanti dal punto di vista della reificazione.

Il cervello descritto da Dehaene non è un luogo di quiete in attesa dell’arrivo degli stimoli, delle perturbazioni dal mondo esterno. Al contrario è in un continuo stato di attività generata autonomamente. Le risposte generate a seguito dagli stimoli esterni costituiscono solo una parte minima dell’attività del cervello:

Di fatto, un’attività organizzata spontanea è onnipresente nel sistema nervoso. Chiunque abbia mai visto un EEG lo sa: i due emisferi generano costantemente una massiccia quantità di onde elettriche ad alta frequenza, che la persona sia sveglia oppure addormentata. Quest’eccitazione spontanea è talmente intensa da dominare il panorama dell’attività cerebrale. In confronto, l’attivazione evocata da uno stimolo esterno è a malapena rilevabile, e affinché questa possa essere osservata, è necessario un notevole lavoro di calcolo delle medie. L’attività evocata dallo stimolo rende conto soltanto di una piccola parte dell’energia totale consumata dal cervello, probabilmente meno del cinque per cento. Il sistema nervoso agisce, in primo luogo, come un meccanismo che genera i suoi stessi schemi di pensiero.”1

Da questa descrizione del cervello vediamo che i pensieri definiti non emergono come un oggetto disegnato su un foglio bianco. Il punto di partenza non è una tabula rasa, ma una nuvola rumorosa, e per passare da questa indefinitezza iniziale alla definitezza di un pensiero cosciente il temporaneo silenzi amento di alcuni neuroni è almeno tanto importante quanto l’attivazione di altri neuroni. L’oggetto posto in uno spazio originariamente vuoto è una sorta di presupposto del nostro ragionare razionale, ma sembra che la natura profonda del cervello prenda più facilmente le mosse da un ribollire diffuso. Lo stato normale del cervello non è una piattezza su cui lo stimolo risalta. Lo stimolo che ha raggiunto la coscienza può essere pensato meglio come un elemento d’ordine che si è propagato con successo in una foresta di processi, anziché come un suono che accade nel silenzio. Per noi uomini adulti e razionali il foglio bianco è la metafora del punto di partenza, ma la selezione, l’architetto che ha creato la nostra mente, sembra avere gusti diversi dai nostri. Sembra che questo architetto preferisca partire da un brusio cui dare ascolto.

Da quanto detto traiamo l’osservazione che la cosalità non è necessariamente il formato migliore per comprendere le dinamiche dei pensieri. Con la parola cosalità ci riferiamo alle caratteristiche degli oggetti materiali. Gli oggetti materiali si pongono come oggetti densi in uno spazio vuoto, ma si tratta di un modo di pensare che non è dato dalla nascita, bensì è una modalità di pensiero che si instaura nel corso dei primi mesi di vita dell’individuo. Prima si ha una situazione in cui si ripresentano situazioni fra loro riconoscibili, ma non assimilabili ad oggetti permanenti.

Gli oggetti materiali sono personaggi indispensabili sul palcoscenico della nostra vita quotidiana, ma vi è anche molto altro, che appartiene alla dimensione più riflessiva, spirituale, emotiva. Quando invece si tende a ridurre ogni fenomeno del mondo riducendolo alle dinamiche degli oggetti materiali, si perde qualcosa della profondità del mondo. Questa polarizzazione della visione del mondo attorno alla natura dell’oggetto materiale, alla cosalità delle cose, la chiamiamo reificazione, dal latino res che significa, appunto, cosa.

Chi scrive ritiene che la reificazione sia un problema della società contemporanea. Vedere che la natura del pensiero cosciente si discosta dal formato degli oggetti materiali dovrebbe aiutarci a svincolarci dal pregiudizio della necessità pervasiva di interpretare tutto riportandolo al piano degli oggetti materiali, favorendo invece una decostruzione della reificazione e la coltivazione di una sensibilità alle atmosfere, alle proprietà sistemiche, alla dimensione olistica e spirituale.

La struttura della corteccia cerebrale e la psicologia dello sviluppo ci parlano di una processualità composita dal quale gli oggetti emergono. L’indefinitezza si pone così come un piano più originario rispetto a quello dell’oggetto ben formato. Questo sapere di natura scientifica si può coniugare con una meditazione che mira a scalzare il dominio del formato di pensiero di un oggetto materiale troppo solido e sicuro di sé, mostrandone le aperture e arrivando a porlo come una possibilità fra le altre.

1Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, 2014, Milano, Raffaello Cortina Editore. Titolo originale: Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Traduzione di Pier Luigi Gaspa. pp. 252-253.

Concepire le emozioni a partire da Tonino Griffero

Come le emozioni sono diventate interiori, passando da Achille ad Ulisse

Tonino Griffero è un filosofo italiano che si occupa di atmosfere a partire dal lavoro del tedesco Hermann Schmitz. Per indicare la natura specifica delle atmosfere Griffero impiega il termine quasi-cose, che ne sottolinea la diversità rispetto alle cose materiali. Griffero considera le emozioni1 come simili a delle atmosfere e le colloca nell’esteriorità anziché nell’interiorità, in un modo che come egli stesso riconosce è controintuitivo. Su youtube si trovano alcune sue conferenze molto interessanti su questo tema, una delle quali è indicata sul fondo di questo articolo.2 3

Io credo che valga la pena aggiungere alcune osservazioni a partire dalla sua posizione. Noi infatti poniamo naturalmente gli oggetti materiali là fuori, anche dopo aver capito che essi sono un prodotto del sistema di percezione che sta dentro di noi. E allora, perché consideriamo gli oggetti materiali come esteriori e le emozioni come interiori?

Griffero ci ricorda che per i personaggi dell’Iliade le emozioni stavano fuori. Per esempio Achille non “si arrabbiava”, Achille era “preso dalla rabbia”, che si trovava fuori di lui. Invece Ulisse nell’Odissea, posteriore all’Iliade, gestiva in modo furbo la propria emotività e quella degli altri, considerandola interiore. Mi pare che proprio nel confronto tra Achille ed Ulisse si possa trovare il punto chiave, al di là della realtà storica, utilizzandoli come figure esemplificative ai fini dell’argomentazione. Se considerassimo le emozioni poste fuori alla maniera di Achille, potremmo essere forse più autentici nei confronti del mondo, ma anche più vulnerabili di fronte ad un furbo Ulisse. Chi sa nascondere le proprie emozioni ha un vantaggio manipolativo e organizzativo sugli altri. Chi sa fare a meno delle emozioni ne ricava dei vantaggi, ma ci perde qualcosa, ci perde vividezza del mondo. Che fare dunque? Ci piace l’intensità del mood che era di Achille, ma non vogliamo immergerci in una ingenuità che ci renda disponibili facilmente ai raggiri.

Quello che è successo da Achille ad Ulisse è un’evoluzione. Il vantaggio selezionistico dell’accantonare le emozioni è stato premiato, ma si è portato dietro l’effetto collaterale di un mondo più grigio, più povero d’emozione. Ciò pare avvenuto per mezzo dell’idea che le emozioni siano un che di interiore. Infatti, se pensiamo che le emozioni stiano dentro di noi, con ciò si fa evidente la possibilità di nasconderle. Localizzandole all’interno inoltre, depriva le emozioni della solida natura di cose e ci aiuta a dismetterle nelle loro forme più intense.

Ma non è detto che il vantaggio competitivo del pensare tenendo a bada le emozioni sia necessariamente connesso all’idea che esse siano interiori. Pensando che siano interiori, noi abbiamo una chiave intuitiva per eseguire i comportamenti esteriori, visibili agli interlocutori, come disgiunti dalle emozioni. Ma questo è solo uno stratagemma. Pensare le emozioni come interiori ci aiuta ad assumere comportamenti indipendenti dalle emozioni, ma lo stesso risultato può essere concepito senza localizzare le emozioni all’interno.

Tornando alla nostra situazione quotidiana, noi non possiamo fare a meno di inibire il massimo dell’emotività nel relazionarci con gli altri, ma dovremmo cercare di farlo senza castrarle, senza chiuderle nello spazio di una testa. Dovremmo renderci conto che la collocazione dentro/fuori è una costruzione mentale, ed allenarci ad attribuire liberamente il fuori ed il dentro parimenti alle cose ed a quelle quasi-cose che sono le emozioni. Al di là della circostanza specifica della furbizia di Ulisse, è impossibile concepire una vita contemporanea senza saper assumere una posa razionale che si tenga indipendente dai moti emotivi. Una più profonda consapevolezza del fuori e del dentro può far parte di una cultura che ci consenta di articolare il nostro vissuto tra situazioni di riflessività composta e situazioni di emozioni che pervadono tutta l’atmosfera.

Per approfondire il tema delle emozioni puoi leggere l’anteprima del libro che ho scritto sulle sette emozioni fondamentali individuate da Jaak Panksepp.

1Nota che in questo articolo il termine “emozioni” è utilizzato riferendosi a tutti i possibili sviluppi cognitivi della dimensione emotiva, e non specificamente alle sette emozioni di base di cui ho scritto nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp.”

2Tonino Griffero, Quasi-cose. Dalla situazione affettiva alle atmosfere. trópoς, I, numero speciale, 2008, pp. 75-92

3Tonino Griffero, Incontro con Tonino Griffero, youtube 02 Aprile 2016, Società Filosofica Feronia, https://www.youtube.com/watch?v=4hRb7dARc6c&t