L’urgenza dell’agire, la libertà e la paura sedimentata (commentando Terminator)

Ho rivisto il primo film della serie di Terminator, quello del 1984, e me ne sono rimaste tre impressioni. La prima impressione è quella della distanza fra il nostro tempo e le atmosfere dei primi anni ottanta. Terminator non ha mai visto il volto di Sarah Connor, e ne cerca il nome scorrendo il dito sulla carta di una guida telefonica trovata in una cabina pubblica. Pare una razza umana diversa quella così vincolata agli oggetti non informatici, quella che non conosce la pratica di internet, dei social e degli smartphone.

Seconda impressione: la povertà dei personaggi. C’è una bella ragazza e c’è il bel ragazzo che arriva per salvarla dal nemico. Al di fuori della coppia e del nemico non vi sono altri ruoli di rilievo, e muoiono tutti come niente. Hai un valore se sei il combattente predestinato che salverà l’umanità intera, altrimenti, amen. Non vi è posto per l’idea, tra gli altri di Epicuro e del Mahabharata, che la ricchezza di una vita dipende dalla cerchia di persone di cui ci circondiamo. Come controesempio penso ad un film ricco di ruoli come il Padrino.

Terza impressione: l’azione del film mi ha preso. Il tempo vola. Dall’inizio alla fine c’è  qualcosa che sta per succedere. Non fa niente se lo scheletro del robot si muove a scatti, con degli effetti speciali da ridere. Questo non arriva a guastare l’atmosfera. C’è un senso di urgenza che ti prende.

Il terminator osserva la situazione, riflette, valuta la scelta migliore, e agisce in assoluta libertà dalle norme sociali. È questo il significato della facilità eccessiva con cui si uccide e con cui si sterza in mezzo al traffico incuranti dell’incolumità degli altri e dei danni causati al proprio corpo.

È questa la miglior incarnazione del senso di libertà? Assolutamente no, ovviamente per l’eccesso di violenza. Vi sono espressioni alternative della liberta che non coinvolgano la violenza? Certo che si. Un bell’esempio su due piedi potrebbe essere Captain Fantastic, e mi riprometto a breve di vedere Summerhill, di cui ora sto leggendo il libro.

Il giorno dopo aver visto il primo terminator ho voluto fare il bis e ho rivisto anche il secondo. Ed il senso d’urgenza qui te lo scordi. Nel primo episodio il terminator era sempre in arrivo, e l’incalzare del film si basava sull’alternanza di fuga e raggiungimento. Nel secondo episodio le atmosfere paranoiche di Sarah colorano il tono affettivo fondamentale. È come se nel primo film della serie vi fossero semplicemente delle cose pericolose, mentre nel secondo ci fosse qualcosa di diverso. Nel secondo episodio le cose pericolose sono condite con tanta riflessione sulla paura che permea di se le pareti bianche dell’istituto psichiatrico in cui Sarah Connor è rinchiusa.

Le cose pericolose incontrate in un mondo libero non ingessano l’azione, anzi, la scandiscono. Quando invece alla semplicità di un oggetto pericoloso circoscritto si sostituisce un timore diffuso ovunque, piu stratificato, l’orizzonte si chiude. E non conta quante volte si spara, quanto nera e pesante sia la mitragliatrice, e se le munizioni sono grosse come pere. Il senso dell’agire non dipende dalla quantità di esplosivo.

Tirate le somme, ciò che vorrei ricordare è questa differenza. Non è una differenza dovuta a una cosa presente in piu o in meno, ma al modo in cui le cose sono disposte e vengono allo sguardo. È quella libertà che nel film del 1984 c’era, e che in quello del ’91 già era persa.

LA MORTE DELL’AUTORE: NON SOLO LETTERATURA

RIFLESSIONI SULLO SCRITTO DI ROLAND BARTHES
[1]

LA CHIUSURA DELLE POSSIBILITA’

Roland Barthes

Roland Barthes

Il pensiero dell’individuo è aperto a molteplici possibilità che le parole scritte possono evocare o allontanare. Se immaginiamo il pensiero del lettore come la grande luce piena di un riflettore, allora ogni lettura è un foglio nero in cui sono aperti degli spazi, e dopo aver messo il foglio davanti alla luce, solo una parte dei pensieri rimane possibile. Cambiare lettura equivale a cambiare il foglio che mettiamo davanti alla luce. Scrivere un’interpretazione invece, significa mettere un secondo foglio in aggiunta al primo; i pensieri che rimarranno possibili saranno molti di meno, solo quelli che troveranno la coincidenza fra le aperture del primo foglio e quelle del secondo. È in questo modo che l’interpretazione di un’opera può chiuderne gli orizzonti, diminuendo le possibilità di intenderla. In questo senso, chiudere un testo non è in sé né male né bene. Se ci piacciono le possibilità rimaste aperte allora saremo felici di averle rese più evidenti, e viceversa.

Un funzionario del potere competente e dotato di una visione di lungo periodo si preoccuperà di favorire visioni del mondo coerenti con i propri interessi, scegliendo le interpretazioni compatibili con i pensieri amici. E il critico letterario sarà benvenuto presso le parti politiche di cui condivide il sistema di valori. Barthes, che non ha simpatia per “il sistema”, assume una posizione che contrasta con questo stato di cose.

Non saprei dire se le premesse storiche utilizzate da Barthes sono sufficienti a sostenere il suo ragionamento o se sono valide soltanto come un’introduzione, ma anche con questi dubbi riguardanti le radici della sua riflessione è possibile vederne chiaramente l’effetto: la morte dell’autore funziona come uno slogan per disconnettere il passato dell’autore dal tessuto del testo, al fine di contestare la critica e di favorire una lettura sincronica.[2]
La critica letteraria che Barthes prende di mira produce infatti delle interpretazioni di tipo diacronico[3]: essa riconduce il valore dell’opera letteraria alle dinamiche del passato che l’hanno generata, con un percorso a ritroso che risale dallo scritto fino alle presunte intenzioni dell’autore. Dunque, se il terreno su cui pascola il critico sono i percorsi del passato e la volontà dell’autore, ecco che Barthes costruisce uno scriptor dotato soltanto di un Qui ed Ora e privo di intenzioni, una sorta di nuda capacità procedurale. Facendo morire l’autore, Barthes rompe il giocattolo della critica.

UN’ATTITUDINE MENTALE

Al di là delle premesse e delle conseguenze della morte dell’autore, vale la pena compiere alcune osservazioni sul modo in cui essa si struttura. L’eliminazione dell’autore viene anzitutto articolata come rifiuto del tempo precedente alla scrittura durante il quale l’autore concepisce l’opera, e facendo coincidere l’esistenza dello scriptor con l’atto dello scrivere.

L’autore, quando gli si crede, è sempre concepito come il passato del suo libro: il libro e l’autore si posizionano automaticamente su di una singola linea divisa in un prima ed un dopo.[4]

In contrasto completo, il moderno scriptor nasce simultaneamente col testo, non è in alcun modo fornito di un essere che precede lo scritto o si estende oltre di esso, non è il soggetto con il libro come predicato; non c’è altro tempo di quello dell’enunciazione, ed ogni testo è eternamente scritto qui ed ora.[5]

Questa enfasi posta sul momento dello scrivere può anche produrre un certo entusiasmo nel lettore, il quale può proiettare sé stesso in una modalità scrivente che sfiora la dimensione del sacro, ma l’eccitazione è destinata a scemare quando vediamo Barthes ridurre le capacità dello scrittore ad una mera ricombinazione di un patrimonio di elementi preesistenti, privandolo esplicitamente di ogni emotività personale.

Il suo unico potere è di combinare le scritture, contrapponendo le une alle altre, in modo tale da non rilassarsi su nessuna di esse.[6]

Successore dell’autore, lo scriptor non porta più con sé passioni, umori, sentimenti, impressioni…[7]

Barthes è abile a prepararne l’entrata in scena, ma il concetto di scriptor è insostenibile là dove viene confrontato con la complessità storica dell’individuo reale che ha prodotto l’opera. Il rifiuto della durata temporale può attribuirsi (forzando un po’ la mano) al solo momento di definizione delle esatte parole che costituiscono il testo, ma non all’intero processo di creazione dell’opera, che tra l’altro vede l’autore divenire lettore di sé stesso al fine di compiere una validazione o un’autocritica. Nel processo di messa a punto del dispositivo letterario l’autore non può essere considerato indipendente dalla propria storia. L’unico modo di avere uno scriptor verosimile è intenderlo come una sottoparte dell’autore reale, come una sorta di microclima mentale caratteristico del momento dello scrivere.

La morte dell'autore

La morte dell’autore

ALLEGGERIMENTO E APERTURA DEL SOGGETTO

Leggendo l’articolo di Barthes si percepisce un’esigenza di maggiore impersonalità; questo termine può essere inteso come la sostituzione di un Io monolitico e ingombrante con una creatura molteplice e sfuggente. In conseguenza di ciò l’autore non entra più a gamba tesa nello scritto, ma con mano leggera si occupa di manovrare una varietà di meccanismi che daranno luogo alla bellezza del tessuto di parole, accompagnato dalla consapevolezza della propria specifica identità acquisita con l’esperienza.
Ma nello scritto di Barthes intravedo una versione perversa dell’impersonalità che ci chiede di gettare via la nostra storia, sia in qualità di scrittori che di lettori. Si tratta di una richiesta a cui difficilmente si può dare una risposta positiva.

UN RESIDUO CHE NON SI PUO’ ELIMINARE

Esponendo il concetto di morte dell’autore, Barthes sostiene che le storie narrate sono altro dalle storie vissute dall’autore, e che la linea principale di narrazione non è aderente al vissuto dell’autore. Di conseguenza considera inconsistente la pratica con cui il critico letterario decifra la linea narrativa riconducendola a tale vissuto.
Ma anche se non c’è un trasferimento diretto delle storie dell’autore dentro il testo, deve comunque esserci una specificità dell’autore che passa nell’opera, altrimenti gli autori sarebbero banalmente uno uguale all’altro. Quindi, a rigore, sussiste sempre la possibilità di impostare un’interpretazione dello scritto che risalga ai tratti specifici delle sue origini.

DOVE STA IL PROGRESSO

Complessivamente la morte dell’autore mi appare come una questione controversa[8]. Come lettori, il migliore uso che possiamo fare di questa immagine è intenderla come un invito a mettere temporaneamente da parte le cause del passato, simboleggiate dall’autore. Così facendo si pongono le condizioni per perdersi nel presente, interpretando lo scritto in base alla relazione tra le parti, evitando di riferirsi ad un altrove. Questo modo di dare fiducia al testo favorisce la creatività nella misura in cui la riflessione opera su strutture di cui dispone pienamente, non interrotta dalla necessità di effettuare delle ricerche nelle tracce del passato per verificare le linee causali. Lo svantaggio, ovvio, è che si rinuncia a certificare ed arricchire l’analisi con il contenuto di informazione presente nel passato.
Per come la vedo io, il progresso consiste nel trovare i fattori qualitativi in grado di indicare quando è necessario interrompere l’analisi sincronica per passare ad una verifica diacronica. Desiderosi di compiere immersioni nelle varie località del Qui ed Ora, abbiamo bisogno di un metodo che ci indichi il momento giusto per tornare nel contesto globale della Storia.[9] [10]

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NOTA BIOGRAFICA

Roland Barthes

Roland Barthes

Roland Barthes nasce in Normandia, nel nord della Francia, il 12 Novembre 1915. Il padre muore in guerra l’anno successivo, e la madre Henriette lavora come rilegatrice di libri per mantenere la famiglia. Roland si laurea alla Sorbona in letteratura classica e poi in grammatica e filologia. Passa diversi anni in alcuni sanatori per via della tubercolosi. Nel 1953 pubblica “Il grado zero della scrittura” e nel 1967 “La morte dell’autore”. Nel 1970 pubblica “S/Z”, un’analisi di “Sarrasine”, una novella di Balzac. L’ultimo libro prima della morte è “La camera chiara”, sulla fotografia, del 1980. Roland Barthes era legatissimo alla figura della madre; era gay, protestante, interdisciplinare, contro il sistema.

 

  1. [1]Questo documento contiene le mie riflessioni a riguardo del testo di Roland Barthes: “The Death of the Author”, del 1967. Mi sono riferito alla versione in inglese di cui riporto i riferimenti: “Image, music, text” 1977 Pagg 142-148 editore: Fontana, Londra – ISBN/ISSN: 0006861350 – Traduzione in inglese di S. Heath. Il pdf si trova a questo indirizzo: http://smile.solent.ac.uk/digidocs/live/Furby/Text/Barthes.pdf. Le citazioni in italiano sono una mia traduzione dall’inglese.
  2. [2]Che esamina il presente senza fare ricorso agli avvenimenti del passato e quindi al divenire.
  3. [3]Estese nel tempo: che prendono in considerazione il presente in base a come si è creato a partire dal passato.
  4. [4]“The Author, when believed in, is always conceived of as the past of his own book: book and author stand automatically on a single line divided into a before and an after.”
  5. [5]“In complete contrast, the modern scriptor is born simultaneously with the text, is in no way equipped with a being preceding or exceeding the writing, is not the subject with the book as predicate; there is no other time than that of the enunciation and every text is eternally written here and now.”
  6. [6]“His only power is to mix writings, to counter the ones with the others, in such a way as never to rest on any one of them.”
  7. [7]“Succeeding the Author, the scriptor no longer bears within him passions, humours, feelings, impressions…”
  8. [8]Io ad esempio, in quanto autore, non sono molto disposto a suicidarmi.
  9. [9]È chiaro che il movimento fra la Storia e le località del Qui ed Ora si verifica molte volte, non si tratta di un singolo evento isolato.
  10. [10]Questo ragionamento è stato introdotto in riferimento al ruolo di lettore, ma non si esaurisce con esso.