José Ortega y Gasset: L’uomo e la gente.
Ortega apre “L’uomo e la gente” sottolineando l’importanza della dimensione sociale e denunciando che la sociologia non è stata in grado di chiarirne la natura. Per rimediare a questa mancanza il filosofo spagnolo ripercorre le tappe principali con cui il discorso fenomenologico (si pensi a Husserl e a Heidegger) individua le realtà fondamentali del mondo in cui viviamo, arrivando a definire la società come un’architettura di usi. Nella prima parte dell’articolo proponiamo una nostra sintesi di tale riflessione.
Ortega ritiene che l’uso abbia una natura automatica, meccanica, cosale, e per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno prendere in esame il concetto di uso in relazione alla problematica della reificazione. Di questo tema ci occupiamo nella seconda parte dell’articolo.
Nella terza ed ultima parte introduciamo una metafora specifica per descrivere il pensiero che privilegia la dimensione autentica dell’essere, molto cara ad Ortega. Ne segue una riflessione sulla possibilità di coniugare l’autenticità con la dimensione relazionale.
1.LA SOCIETÀ COME ARCHITETTURA DI USI
I.PROLOGO CON LO SMARTPHONE
Ci sono alcuni brevi episodi che vorrei raccontare a riguardo del mio smartphone, e vedremo al punto successivo come questo ci possa tornare utile per introdurre la visione di Ortega.
Io vivo a Szeged, in Ungheria, e quando torno in Italia devo cambiare la SIM ungherese con quella italiana. Mi propongo sempre di farlo in anticipo, per esempio mentre sono in volo, ed invece finisco regolarmente per aprire il telefono nei momenti più sbagliati: in piedi nel corridoio dell’aereo, in coda ad aspettare il controllo dei documenti, oppure sulla panchina in attesa dell’autobus. Mi capita spesso di appoggiare lo smartphone, la SIM ed il guscio di gomma sulla coscia sollevata a novanta gradi, in equilibrio instabile. E c’è sempre qualcuno che mi osserva chiedendosi se tutto cadrà per terra.
Lo smartphone costa caro, e cercano di rubarlo. L’estate scorsa stavo sdraiato al sole nel parco di Dugonics tér, avevo i pantaloncini corti e non sapevo dove metterlo. Allora me lo sono appoggiato sulla pancia: così ne sentivo il peso e non potevano rubarmelo. Infatti quando il gentiluomo che passava di lì per caso me l’ha preso io sono scattato all’istante, l’ho afferrato per un braccio, e senza dir nulla mi sono ripreso il mio smartphone.
Sul lavoro uso molto lo smartphone per fare fotografie, alle macchine e alle chiusure lampo che produciamo, e mi capita a volte di aprire la cartella delle immagini in presenza degli amati colleghi. Ma devo starci attento, perché nello smartphone ci sono tante fotografie personali che saltano fuori quando non te l’aspetti. Soprattutto quelle delle donne.
II.NATURA DI UNA COSA: NEL BOSCO DELLE STORIE
Il mio smartphone è una cosa. In questo momento lo colgo appena con lo sguardo in un angolo del campo visivo, ma basta questo a sollevare tra i pensieri i ricordi delle storie e delle situazioni che ho appena descritto. Noi accediamo alle cose soprattutto per mezzo delle immagini visive, ma le cose sono fatte di comportamenti e di storie molto più che di immagini. Strutture temporali anziché componenti visive. La visione è insostituibile, ma non come dimensione essenziale, piuttosto come interfaccia d’accesso a una dimensione fatta di storie.
La tradizione fenomenologica dà meno importanza alle superfici visibili e più importanza a tutte le storie alle quali un oggetto può prendere parte. Lo sguardo fenomenologico non rimane incastrato nel visivo, ma coglie la dimensione temporale delle cose e del mondo da esse composto. Questo significa che nel vedere uno smartphone si è consapevoli delle storie ad esso collegate. Si è consapevoli delle storie, ricordate o immaginate, di cui lo smartphone è un personaggio.
Dello smartphone, e più in generale di ogni cosa, in ogni momento noi possiamo vedere solo un lato, e solitamente un numero limitato di dettagli visivi. Possiamo però aver presente anche quello che in quel frangente non percepiamo direttamente. A questo fatto Ortega si riferisce col termine compresenza, preso da Husserl.
III.LE COSE SONO TANTE, MILIONI DI MILIONI
Il mio smartphone è una cosa, e ci sono tante cose oltre al mio smartphone. Ci sono il netbook, lo zaino, la matita, gli occhiali; c’è Google, c’è gmail, c’è il treno, ci sono i piatti sporchi nel lavandino, c’è la lista di cose da fare sul lavoro. C’è la tessera sanitaria che scade e ci sono tutti i miei libri sulla scrivania. C’è la pianta grassa che sta morendo di sete, c’è l’essenza di eucalipto, ci sono i fiammiferi e le candele. Ognuna di queste cose si porta appresso il suo repertorio di storie, così come fa lo smartphone.
IV.NATURA DEL MONDO: ALICE COLPISCE ANCORA
Il mondo non è una prospettiva tridimensionale nella quale possiamo inscatolare ciò che vediamo. Non è un pavimento di mattonelle, non è un piano dove ci si può spostare di un metro esatto. Il mondo non è una stanza completa di tutto il proprio volume, ma un luogo in cui l’attenzione si concentra in alcuni punti. Il mondo in cui di volta di volta ci troviamo, o circostanza, è l’insieme di tutte le cose e delle loro interconnessioni. Il modo in cui l’uomo percepisce le cose nel mondo somiglia ad una luce che cerca nella notte piuttosto che ad un paesaggio illuminato a giorno. La luce è l’attenzione che soffermandosi ravviva i percorsi delle storie e provoca la nascita di oggetti e di idee nuove.
Il mondo insegnato dallo sguardo radicale non è poi così lontano da quello di Alice nel paese delle meraviglie. È una collezione di oggetti galleggianti. È un vestito di arlecchino inclusivo di una riflessione sulla cucitura delle pezze. Ma nel prenderlo in mano vi accorgete che la cucitura è elastica, provate a tirarla, e vi rendete conto che dentro, nel vestito, si nasconde qualcuno.
V.IMMERSI, TRA OSTACOLI E STRUMENTI, CHE NON CI DANNO RISPOSTA
Ecco dunque che ci troviamo collocati in un mondo fatto di cose. A queste cose non ci poniamo in modo neutro. Esse assumono sempre un ruolo nei nostri confronti, presentandosi come strumenti oppure come ostacoli. Noi interagiamo con esse, e da questa interazione nasce il repertorio di storie di cui le cose stesse sono costituite.
Le cose però non rispondono alla nostra azione, là dove invece gli altri uomini sono in grado di farlo. Questa capacità di risposta è il fatto fondamentale della coesistenza. Noi impariamo a tenerne conto nelle azioni che rivolgiamo verso gli altri, motivo per cui la nostra relazione con loro è qualitativamente differente dalla relazione che abbiamo con le cose. Anche gli animali rispondono alle nostre azioni, ma la loro capacità di risposta è molto più ridotta rispetto agli uomini.
VI.GLI ALTRI, I QUALI RISPONDONO, DA UN LUOGO NON VISTO
Dal fatto che gli altri danno una risposta alle nostre azioni, noi intuiamo l’esistenza di un pensiero individuale che è all’origine delle loro azioni. Non si tratta di una deduzione razionale, del risultato di una riflessione retrospettiva su ciò che accade con gli altri. Non si tratta soltanto di un fatto culturale che potrebbe anche non avere luogo, a seconda dell’istruzione che si riceve. L’intuizione dell’altro ha radici profonde nelle strutture biologiche dell’essere umano.
Mentre possiamo gestire le cose materiali in modo diretto, considerandole costituite dalla percezione che ne abbiamo, noi ci rendiamo conto che c’è qualcosa degli altri a cui non possiamo attingere direttamente, ma solo attraverso quel che vediamo del loro comportamento. Potremmo dire che questo qualcosa è il loro pensiero, o la loro anima. Gli altri, al contrario delle cose, sono un tipo di realtà che ci trascende, che va oltre, nel senso che si posizionano in un luogo difficilmente raggiungibile, e nel senso che l’interazione con loro ci porta ad una profonda trasformazione personale.
VII.AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DELL’ALTRO
La parola che usiamo per rivolgerci all’altra persona che abbiamo di fronte è il pronome tu. Per quanto esposto, ci rendiamo conto che il tu arriva quando l’io non si è ancora visto. Il tu è più primitivo dell’io, il quale non è così strettamente necessario come potremmo pensare. Per relazionarci con le cose del mondo è sufficiente avere una percezione delle cose e qualche obiettivo da raggiungere. È soltanto dopo aver iniziato a concepire gli altri come individui che iniziamo a concepire noi stessi in modo simile. Noi formiamo l’io ad immagine e somiglianza del tu.
VIII.GLI USI: ABITUDINI GARANTITE TRA I TU
Nel corso dell’interazione con gli altri riflettiamo sulle situazioni in cui ci veniamo a trovare e prendiamo decisioni su come comportarci, apprendendo molte abitudini al riguardo. Tipico dell’abitudine è passare dalla situazione alla decisione senza eseguire esplicitamente tutti i passi intermedi del ragionamento. Le abitudini verso gli altri possono essere apprese per imitazione, oppure possono essere stabilite da noi personalmente a seguito del ripetersi di situazioni e decisioni simili. Va precisato che anche le abitudini provenienti per imitazione dall’esterno hanno avuto origine in un individuo ben determinato, con un atto creativo che si pone a monte di una catena di trasmissioni interpersonali.
Con il termine uso ci riferiamo a tutte quelle abitudini riguardanti l’interazione con gli altri e garantite da una qualche forma di coercizione esterna. L’insieme degli usi, composto per la maggior parte da abitudini provenienti dall’ambiente esterno, costituisce la dimensione sociale, e la società è concepibile come un’architettura di usi. È questo il nocciolo teorico del libro di Ortega.
IX.USI DEBOLI E FORTI: LA COLAZIONE E LO STATO
Esempi di usi sono il vestire, il mangiare, la lingua, l’opinione pubblica, ed anche i rapporti sociali correnti, fra i quali ad esempio il saluto. Possiamo dire che questi usi sono deboli e diffusi. Sono caratterizzati dal fatto che la loro instaurazione e la loro coazione avvengono lentamente; inoltre l’invito e la coazione non provengono da individui determinati. Per esempio, la coazione avviene “in forma di giudizi sfavorevoli e cose simili”.
Al gruppo degli usi deboli e diffusi si oppone quello degli usi forti e rigidi, aventi caratteristiche opposte: instaurazione e coazione rapida, ed invito e sanzione provenienti da persone precise. Fra di essi troviamo gli usi economici, il diritto, lo stato.
Tra gli esempi più specifici di uso proposti da Ortega vi sono: il saluto pacifico, inteso come una sorta di set up in occasione dell’incontro fra due individui; il saluto bellico, qualitativamente ben distinto da quello pacifico; l’impiego del cappotto; la colazione.
2.USO E REIFICAZIONE
I.L’INCONSAPEVOLE SOTTO ACCUSA
Ortega pone come umano ciò che facciamo consapevolmente. Per contrapposizione è inumano tutto ciò che ha carattere di inconsapevolezza ed al quale si accompagnano l’essere meccanico, abituale, inautentico. Nel suo ragionamento il valore positivo (in quanto umano) assegnato al consapevole diventa valore negativo assegnato all’inconsapevole, e confluisce prima nell’uso (in quanto meccanismo inconsapevole), e da qui nel sociale (in quanto architettura di usi). L’individuo si trova così collocato in una società avente dei tratti fondamentalmente ostili a ciò che è più propriamente umano. D’altra parte Ortega stesso riconosce il valore positivo del sociale nel creare uomini e nell’oltrepassare problemi già risolti, dunque attribuire inumanità al sociale pare un appesantimento inutile nella descrizione della situazione umana. Non sembra il caso di partire con un’accusa che rende poi necessaria una riabilitazione.
Vero è che Ortega a tratti sembra dire delle cose che attenuano l’opposizione tra il nucleo individuale autentico ed il paesaggio sociale in cui questo si muove. Resta però il fatto, pesante, che Ortega fa un uso insistente di connotazioni negative atte a dare una grande rilevanza a tale opposizione. Lo si vede bene, ad esempio, quando pone l’accento sulla pericolosità e sul lato scuro del fare filosofia, in quanto forma di autenticità opposta al sociale, oppure quando mette l’accento sul ruolo della solitudine.
II.RIABILITAZIONE DELL’ABITUDINE
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III.LA REIFICAZIONE CHE CI ABBASSA
Noi abbiamo un modo povero di guardare alle cose, ed è per questo che portare sull’uomo la stessa attitudine di sguardo che abbiamo per le cose provoca un’impoverimento dell’uomo. Lo sguardo fenomenologico nasce invece con una spiccata tendenza ad arricchire il modo in cui intendiamo le cose aggiungendovi spiritualità e senso. Per indicare la tendenza a concepire gli aspetti umani e sociali in modo simile agli oggetti materiali utilizziamo la parola reificazione, derivata dal latino res, che significa cosa. Quindi reificazione significa qualcosa di molto simile a cosalizzazione. Lo sguardo radicale tende a ridare vita alle cose rendendole più somiglianti al nucleo vitale dell’uomo, là dove il processo di reificazione fa l’opposto, sottraendo dall’umano tutto ciò che non è assimilabile alle cose, intese come entità sensibili, invarianti, oggettive, scientifiche, indipendenti, facilmente indicabili.
Lo sguardo radicale rianima le cose alzandole verso l’uomo, mentre la reificazione toglie l’anima all’uomo abbassandolo verso le cose. Da questo punto di vista potremmo anche intendere lo sguardo radicale come una forma di neo-animismo.
IV.UN PONTE VERSO UNA REGIONE
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V.LE STESSE COSE MA IN MODO DIVERSO
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VI.RIMANERE VIVI USANDO
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VII.LA BANDA DISPONIBILE
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3.ANALOGIE COL VISIVO
Abbiamo visto che Ortega accusa gli usi nel nome dell’autenticità Forse si può considerare questa mossa come la manifestazione di una tendenza concettuale più profonda. Mi propongo di fare un po’ di luce sulla natura di questo tema evidenziando alcuni aspetti della dimensione visiva e proponendo una metafora a questi collegata.
I.IL VISIVO ED I SUOI AMICI
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II.RISIKO: REGIONI SEPARATE
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III.METAFORA DEI PASSI E DELLA SUPERFICIE
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IV.L’ESEMPIO DEL SALUTO
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V.PROVIAMO A TOGLIERE LA SUPERFICIE
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VI.LA DIREZIONE DELLA DETERMINAZIONE
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4.CONCLUSIONI
Assumere la parte consapevole di noi stessi come la parte migliore sembra intuitivamente plausibile, ma il modo in cui Ortega procede da questa assunzione ci conduce alla creazione di un dramma esistenziale gratis, consistente nella contrapposizione del nostro nucleo più umano con i tratti più specifici del sociale. Ci ritroviamo con un contrasto diretto tra la valorizzazione del singolo da un lato e gran parte della vita sociale dall’altro, ed è questa una venatura scura a cui vorremmo porre rimedio.
Ortega concepisce la società come architettura di usi, e proprio da questo presupposto si possono cercare nuovi equilibri tra l’individuo ed il sociale. Lasciando inalterata la consapevolezza individuale come polo pregiato, cerchiamo di materializzare al polo opposto il suo nemico in qualcosa d’altro rispetto al sociale, ovverosia nella reificazione, la quale potrebbe avere la sua origine in alcune dinamiche selezioniste intraspecifiche.
Per come abbiamo impostato il nostro discorso l’uso appare come un fatto più circoscritto ed elementare, mentre la reificazione si presenta come una proprietà sistemica. La reificazione è un tratto globale implicante una degradazione della dimensione spirituale, mistica, di interconnessione, relativa a tutti gli abitanti della fauna mentale, là dove invece ciascun uso è un animale specifico di tale fauna.
Il fatto riconosciuto che la relazione con l’altro sia un modo fondamentale di aggiungere ricchezza alla vita umana, questo fatto si pone in opposizione con la dimensione di povertà che è invece il punto di connessione più evidente fra la reificazione e la solitudine, quest’ultima intesa non come condizione pratica ma come difetto strutturale di accesso all’altro.
Per rendere più chiaro un punto critico del ragionamento di Ortega abbiamo introdotto una metafora collegata alla strutturazione del dominio visivo. Per mezzo di tale metafora abbiamo indicato la possibilità di togliere alla riflessività l’obbligo di perseguire costantemente la costituzione di una profondità autentica collocata in direzione opposta alla socialità. Il momento creativo ha certo luogo nella dimensione intraindividuale, ma dovrebbe essere finalizzato anzitutto alla dimensione interindividuale. Data una struttura di usi, non è affatto detto che la direzione unica in cui cercarne una ristrutturazione debba essere l’interiorità privata, questo pare essere un pregiudizio. Che privata sia l’elaborazione va da sé, ma la zona in cui edificare le nuove strutture non sta per forza nel privato.
Nella misura in cui la struttura del visivo dovesse mostrarsi genetica (anche solo circolarmente) rispetto allo stile di determinazione che siamo portati a mettere in atto nella nostra cultura, ed a certi tratti di povertà dello spirito (ipotesi che qui poniamo soltanto), allora la prassi percettiva diventerebbe importante ai fini di una socialità migliorata.
Al di là di questa ipotesi, all’attitudine fenomenologica possiamo chiedere una ristrutturazione degli usi mirata alla realizzazione di un coro vivo, con l’attenzione posta ad evitare le trappole della reificazione e della solitudine, nel segno di una profondità diffusa.
Szeged – agosto 2016
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N.B. Quello che avete letto é un estratto che include circa la metá dell’articolo originale. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail.
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BIBLIOGRAFIA