Depressione ed attacchi di panico: una radice in comune?

Perché gli attacchi di panico e la depressione si presentano spesso insieme?

Un aspetto fondamentale della depressione è la mancanza di interesse per le attività da compiere nel mondo.1 L’attacco di panico invece, si colloca in una dimensione del sentire in cui ansia e paura paiono dominanti.

Gli attacchi di panico e la depressione si sviluppano spesso nelle medesime persone, questo è assodato2 3, ma non è del tutto chiaro il legame qualitativo tra queste due patologie. Cosa collega la mancanza di interesse all’ansia e alla paura? Non succede a volte che l’ansia e la paura aumentino il nostro interesse, anziché annullarlo, per ciò che potrebbe essere una soluzione ai nostri problemi? In questo post proponiamo un punto di vista tratto dalle neuroscienze affettive, che tenta di fare luce su queste domande. Comprendere il legame fra depressione e attacchi di panico può darci l’occasione di fare chiarezza su cosa accade dentro noi stessi quando si verificano questi disturbi.

L’ansia e la paura sono due dimensioni strettamente collegate fra loro. L’ansia può essere interpretata come una forma di anticipazione della paura. La paura è un sistema emotivo fondamentale secondo le neuroscienze affettive. Ciò significa che l’emozione della paura (cosí come l’ansia ad essa collegata) è generata da alcuni circuiti nervosi dedicati, che risiedono anzitutto nelle regioni sottocorticali del cervello. Questi circuiti hanno un’origine innata, ovvero sono presenti sin dalla nascita in ogni individuo. Nel corso dello sviluppo, i medesimi circuiti possono modificarsi, attraverso l’esperienza e la maturazione socioculturale, dando luogo a una molteplicità di schemi emotivi4 differenti.

Il comportamento tipico innescato dalla paura è anzitutto l’immobilizzazione, accompagnata dalla massima attenzione ai dettagli percettivi. Il problema che si incontra se si interpreta l’attacco di panico come una forma di ansia o paura, è che la persona in preda all’attacco di panico non resta affatto immobile ed in silenzio, come fa per esempio la preda terrorizzata dall’odore del predatore. La persona in preda all’attacco di panico si agita, e presenta un quadro di attivazione fisiologica distinto da quello della paura.

Alla diversa attivazione fisiologica fa riscontro il fatto che alcuni farmaci efficaci contro l’ansia (generata dal sistema emotivo della paura) non riescono a calmare gli attacchi di panico, cosa che invece si riesce a fare con alcuni farmaci antidepressivi.5

Nell’attacco di panico vi è certamente un contributo della paura, ma sembra che sia attivo anche qualche altro meccanismo fondamentale di comportamento. Per capire quale, vediamo di approfondire meglio la natura dell’interesse e la sua relazione con le altre emozioni.

L’interesse, come la paura, è riconosciuto come un sistema emotivo nell’ambito delle neuroscienze affettive, che più precisamente lo chiamano Ricerca (noi abbiamo utilizzato anche l’espressione voglia-di-fare). Si tratta di una serie di circuiti del sistema nervoso che gestiscono il livello di attività generale dell’organismo. Sia nelle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp che nella Teoria Differenziale delle Emozioni di Carroll Izard l’interesse riveste un ruolo assolutamente centrale. L’interesse/Ricerca/voglia-di-fare interagisce con le altre emozioni di base (paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, gioco, pena della solitudine) in modo variegato, fornendo, per cosí dire, una spinta propulsiva che può essere finalizzata in modo diverso a seconda delle emozioni di volta in volta attive. Ad esempio, l’interesse può lavorare in collaborazione con l’eccitazione sessuale promuovendo la ricerca di un partner. Oppure, l’interesse può lavorare in collaborazione con la cura quando la madre si focalizza sulle necessità del figlio. Oppure, l’interesse può alimentare il desiderio di vendetta quando si è in preda ad un attacco di rabbia.

Ai nostri fini è particolarmente interessante la relazione specifica fra l’interesse e la pena della solitudine. Quest’ultima è una forma di dolore spirituale che nasce a seguito della mancanza dei nostri simili. Nell’individuo adulto questa forma di dolore può presentarsi attraverso la mediazione di una stratificazione culturale maturata lentamente negli anni, mentre nei bambini sopra i sei mesi se ne può osservare l’effetto più evidente quando il bambino si accorge dell’assenza della mamma, e scoppia in un pianto incontrollabile.6 Un fenomeno simile rintracciabile nell’adulto, benché in forme relativamente più controllate, è la tendenza al pianto che scaturisce dai ricordi di una persona cara scomparsa.

Questa forma di dolore che si origina dalla mancanza ha l’effetto di deprimere l’interesse. Ne possiamo trovare un esempio molto facilmente: quando una relazione si interrompe siamo tipicamente tristi e non abbiamo voglia di fare niente. Il problema si fa patologico quando per qualche motivo questo doloroso sentimento della mancanza si prolunga nel tempo e finisce per abbassare cronicamente il livello di interesse per le cose del mondo. Sarebbe questo il meccanismo principale di formazione della depressione proposto da Panksepp, il giá citato fondatore delle neuroscienze affettive.

Gli effetti di questo dolore della mancanza, di questo profondo disagio e spaesamento, possono forse gettare luce anche sulla formazione dell’attacco di panico. Torniamo al bambino che piange perché è rimasto senza la mamma, e immaginiamoci cosa succederebbe se un uomo adulto venisse preso dalla stessa identica sensazione di quel bambino. Come si comporterebbe? Non sarebbe terribilmente agitato e non esprimerebbe il proprio disagio incanalandolo nella verbalizzazione delle più estreme paure di scomparsa di sé stesso e del mondo? Non avrebbe un comportamento molto simile a quello che nell’adulto chiamiamo attacco di panico?

Ecco dunque che questo dolore della mancanza che Panksepp ha chiamato grief (pena in inglese), che è la base della tristezza,7 che ha a che fare con le sensazioni profonde del lutto, che fa piangere il bambino rimasto solo, e che noi abbiamo scelto di chiamare pena della solitudine, ecco che questo modo del sentire sembra essere la chiave per comprendere qualitativamente il legame fra gli attacchi di panico e la depressione. Un dolore della mancanza prolungato può provocare una disattivazione cronica dell’interesse (depressione), mentre un’intensa sensazione momentanea di tale mancanza può combinarsi con la paura (paura dell’abbandono8) dando luogo ad un attacco di panico.

Questa che abbiamo appena enunciato non è una formula precisa dalla validità rigorosamente dimostrata. Ci sono troppe variabili in gioco, le emozioni di base interagiscono in modo complesso ed i loro squilibri possono anche essere di origine esclusivamente anatomico-fisiologica. Inoltre, ogni disturbo psicologico ed ogni depressione sono un mondo a sé stante, e questo meccanismo di formazione della depressione (e degli attacchi di panico) andrebbe meglio inteso come un principio di comprensione al quale si devono poi aggiungere delle analisi dettagliate delle singole situazioni individuali. Nondimeno, aver trovato un buon principio di comprensione è già, secondo noi, un piccolo successo.

Un’ulteriore espansione del modello concettuale che abbiamo fin qui sviluppato può forse arrivare ad includere gli effetti della rabbia e dei sensi di colpa. L’argomento, in breve, potrebbe essere il seguente.

Chi adotta degli schemi di ragionamento che giudicano in modo severo il sentimento della rabbia, può sviluppare dei sensi di colpa quando si trova ad osservare in sé stesso gli effetti della rabbia. Questi ultimi, gli effetti della rabbia, sono presenti in ognuno di noi, sebbene con livelli di intensità e con caratteristiche qualitative molto differenti a seconda della genetica, dell’esperienza individuale, dell’ambiente culturale in cui si è maturati. Il motivo per cui gli effetti della rabbia sono presenti in ognuno di noi è che la rabbia è un’emozione innata basata in primo luogo su strutture anatomiche collocate nelle regioni sottocorticali del cervello.

Il punto chiave da mettere a fuoco è che la propria aggressività può apparire inappropriata e generare dei sensi di colpa, i quali a loro volta tendono ad avere un effetto separante del sé nei confronti del gruppo, e quindi ad aumentare l’esperienza del dolore creato dal senso di solitudine. Ne risultano di conseguenza rafforzati anche gli effetti sugli attacchi di panico e sulla depressione.9

L’aggressività è particolarmente spaventosa per i pazienti soggetti ad attacchi di panico, i quali sembrano temere l’intensità di questa emozione e le fantasie di ostilità che l’accompagnano. Come conseguenza, l’aggressività può essere difensivamente mascherata e venire espressa con sintomi di ansia auto-punitiva, oppure attraverso un’auto-attribuzione di colpevolezza. Quest’ultima, a sua volta, può produrre dei forti effetti depressivi.”10

Naturalmente, queste considerazioni non vanno lette come una giustificazione delle manifestazioni di aggressività, quanto piuttosto come un invito ad approfondire i meccanismi attraverso i quali l’aggressività esercita i propri effetti sulla psiche. Un buon punto di partenza potrebbe essere un articolo che abbiamo pubblicato nelle settimane scorse a riguardo della rabbia repressa.

Chi invece volesse approfondire il tema della depressione può leggere le prime pagine del nostro libro “Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione”. Vi si troverà esposta una visione fondata su due principi: la ricerca di sorgenti (interiori) di piacere e la coltivazione delle proprie relazioni interpersonali.

Infine, nelle prossime settimane ci proponiamo di pubblicare un articolo più specifico su come è possibile gestire gli attacchi di panico.

Genesi della depressione e degli attacchi di panico attraverso la pena della solitudine. Schema semplificato.

Genesi della depressione e degli attacchi di panico attraverso la pena della solitudine. Schema semplificato.

* vedi nota a pie di pagina11

Le informazioni qui riportate non sostituiscono il parere del medico. In presenza di una patologia mentale è opportuno rivolgersi ad un professionista abilitato, il quale potrà fornire la preziosa esperienza maturata affrontando un gran numero di casi fra loro simili.

 

BIBLIOGRAFIA

American Psychiatric Association. Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5®). American Psychiatric Pub, 2013.

Keefe, John R., et al. “Treatment of anxiety and mood comorbidities in cognitive-behavioral and psychodynamic therapies for panic disorder.” Journal of psychiatric research 114 (2019): 34-40.

Goldberg, David. “The heterogeneity of “major depression”.” World Psychiatry 10.3 (2011): 226.

Migone, Paolo. “Quanto è efficace la psicoterapia per i disturbi d’ansia? Una revisione della letteratura.” Il Ruolo Terapeutico 113 (2010): 56-69.

Panksepp, Jaak, and Lucy Biven. The archaeology of mind: neuroevolutionary origins of human emotions (Norton series on interpersonal neurobiology). WW Norton & Company, 2012.

Rudden, Marie, et al. “Panic disorder and depression: A psychodynamic exploration of comorbidity.” The International Journal of Psychoanalysis 84.4 (2003): 997-1015.

Woo, Jungmin, et al. “Bidirectional Association between First-Episode Panic Disorder and Major Depressive Disorder in a Nationwide General Population Survey in Korea.” Journal of Korean medical science 34.26 (2019).


1Nel DSM 5 (una sorta di “catalogo ufficiale” delle patologie psichiche), si fa riferimento all’interesse in uno dei due criteri principali per la diagnosi della depressione maggiore: “Interesse o piacere marcatamente diminuiti in tutte, o quasi tutte, le attività, durante la maggior parte del giorno, per quasi tutti i giorni (come indicato da un resoconto soggettivo oppure dall’osservazione)”

American Psychiatric Association 2013, p. 160

2“I pazienti con il disturbo da attacchi di panico (PD), specialmente quelli con agorafobia, si presentano solitamente con delle comorbiditá psichiatriche. Alcune delle più comuni comorbiditá sintomatiche collocate sull’Asse I, nel disturbo da attacco di panico con agorafobia, sono la depressione maggiore (MDD, 38,5%), l’ansia sociale (SAD 23,5%), e il disturbo da ansia generalizzata (GAD, 15%).”

Keefe et al. 2019, p. 34

3“La comorbiditá fra il disturbo da attacchi di panico (PD) e la depressione maggiore (MDD) è comune sia nelle situazioni cliniche che in quelle non cliniche. In base a uno studio precedente, il 55,6% di pazienti con PD e l’11,2% di quelli con MDD fanno esperienza dell’altro disordine nel corso della loro vita. (…) l’associazione fra di essi è molto più forte di ogni altra comorbiditá dei disordini psichiatrici. In un recente studio, il 98% dei pazienti con PD ha avuto esperienza di una o più comorbiditá nell’arco della propria vita, e la MDD era la comorbiditá più comune.”

“Alcuni studi precedenti hanno evidenziato soltanto che la sindrome da attacchi di panico aumenta il successivo rischio di depressione maggiore, là dove i nostri risultati mostrano una evidenza aggiuntiva per la quale la depressione maggiore accresce il successivo rischio di sviluppare il disordine da attacchi di panico.”

Dopo aver effettuato le necessarie correzioni dovute al verificarsi di altre patologie, l’aumento di rischio è risultato pari a 3,8 volte.

Entrambe le citazioni riportate in questa nota provengono da Woo et al. 2019.

4Per questa visione degli schemi emotivi vedi il nostro articolo su Carroll Izard.

5Vedi Panksepp e Biven 2012, p. 340-341

6“…le grida del bambino che si è perso hanno l’inconfondibile suono e l’urgenza del panico. Il sentimento che si manifesta, sembra aver poco a che fare con l’ansia che può essere generata dal nostro sistema della PAURA. Il bambino non si nasconde e non fugge come farebbe da una fonte di pericolo. Non si immobilizza in un tentativo di non essere notato da un predatore. Piuttosto, il bambino è incline a correre intorno freneticamente (…) piangendo ed attirando attenzione.”

Panksepp e Biven 2012, p. 316

In questo passo (ed anche altrove) Panksepp tende a escludere l’effetto della paura dal comportamento che si verifica nel corso di un attacco di panico. Noi abbiamo preferito mantenere una visione più aperta al contributo della paura. Tale scelta ci sembra più adatta a 1) creare una descrizione concettuale compatibile con le interpretazioni correnti più diffuse dell’attacco di panico e 2) tener conto di tutte le molteplici manifestazioni emotive che si possono manifestare nel corso delle dinamiche mentali che precedono e accompagnano l’attacco di panico.

Escludere nettamente il concetto di paura potrebbe creare delle difficoltà anche nello stabilire un dialogo con i pazienti che hanno esperienza di attacchi di panico. Se anche fosse possibile dimostrare in modo rigoroso che il sistema emotivo della paura non avesse assolutamente nessuna parte nella dinamica di un attacco di panico, bisognerebbe comunque tenere conto del modo in cui la parola paura viene impiegata nel linguaggio di tutti i giorni. Potremmo anche riconoscere che dietro ciò che ordinariamente chiamiamo paura si cela una parte di contributo affettivo che proviene dal sistema emotivo della pena della solitudine.

7“Quando le persone più anziane sono private di compagnia, tendono a sentirsi sole e tristi piuttosto che terrorizzati come i bambini piccoli. Naturalmente, questo è solo il riflesso dei processi terziari di riflessione degli adulti, che hanno avuto una vita intera per adattarsi cognitivamente alla perdita sociale, lezioni che i bambini piccoli devono ancora ricevere.” Panksepp e Biven 2012, p. 315.

8L’espressione “paura dell’abbandono” si presta bene a indicare il quadro concettuale che stiamo descrivendo, ma con un’avvertenza. La forma verbale di questa frase potrebbe lasciare intendere che la paura dell’abbandono sia un caso particolare della paura. Bisogna però tener presente che il sentimento dell’abbandono ha radici tanto profonde quanto quelle della paura. Sembra dunque meglio pensare ad un aggregato dei due sentimenti della paura e dell’abbandono, piuttosto che ad una sottospecie della paura.

9La pervasività di questi meccanismi si capisce meglio se non ci si limita a considerare gli effetti più palesi ed evidenti della rabbia, ma si prendono in considerazione anche forme più generali di auto-affermazione come ad esempio la conquista della propria indipendenza.

Quando i pazienti hanno compreso il proprio evitamento delle situazioni competitive e di indipendenza, percepite come pericolose e aggressive, e hanno iniziato a tollerare queste fantasie ed azioni, la colpa e la svalutazione narcisistica si sono alleviate di conseguenza.”

Rudden e altri 2003, p. 1002.

10Rudden e altri 2003, p. 1002.

11A rigore, tutti i nessi causali indicati nello schema non sono strettamente ed oggettivamente necessari. Si tratta piuttosto di linee di interpretazione che consentono di organizzare in modo comprensibile e significativo l’insieme dei dati sperimentali, i quali sì appartengono di diritto al dominio dell’oggettività. Nondimeno, il fattore circondato dalla linea tratteggiata potrebbe essere caratterizzato da valori di correlazione statistica inferiori rispetto alle altre relazioni indicate nello schema. Bisogna sempre ricordarsi che stiamo trattando di temi su cui la ricerca non è ancora giunta a definire (ammesso che ciò sia possibile) un’interpretazione definitiva. La bontà dell’interpretazione che abbiamo fornito va misurata nella capacità di fare da ponte fra l’evidenza oggettiva correntemente disponibile e l’autocomprensione di chi affronta un percorso di terapia o di crescita personale.

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