Donald Winnicott, la psicoanalisi e il verbo più importante del mondo: indicare

Donald Winnicott si occupava dei bambini e del gioco. Presso il grande pubblico era diventato famoso grazie ad una serie di trasmissioni radiofoniche del secondo dopoguerra, nelle quali parlava dell’atteggiamento che la mamma dovrebbe/potrebbe tenere nei confronti del bambino. Winnicott è stato una figura molto importante nella psicoanalisi del novecento. Leggendo un suo libro, Gioco e Realtà,1 ho percepito la presenza di un filo rosso di significato che mi ha attratto particolarmente. Si tratta del modo in cui le persone possono crescere insieme, e proverò a parlarne in quest’articolo, a partire da un’esperienza personale.

Tanti anni fa, insegnavo ai nuovi assunti le operazioni manuali da fare per la produzione di chiusure lampo. Erano persone straniere, che venivano in azienda per fare i lavori di assemblaggio manuale durante i picchi stagionali. Mi mettevo vicino al tavolo del nuovo arrivato e prima di tutto mi dedicavo a sviluppare un linguaggio comune. Gli parlavo dei nomi usati per indicare le diverse parti della chiusura lampo. Poi gli spiegavo in che modo prendere il pezzo da assemblare, come ruotarlo, come posizionarlo rispetto agli altri componenti. Quindi gli chiedevo di provare a fare l’assemblaggio, osservavo il movimento della mano, ed intervenivo a correggere dove necessario. Ricordo ancora la mia curiosità nel constatare il modo diverso in cui le persone rispondevano alle stesse parole. Qualcuno capiva al volo, altri avevano bisogno di provare prima con dei movimenti lenti per poi modificare la torsione della mano, la presa con le dita, oppure il punto di appoggio del pezzo. Come dicevo, molte di queste persone erano extracomunitarie, e spesso parlavano poco l’italiano. Ciononostante, restandogli accanto ed osservandoli riuscivo a sintonizzarmi sul loro processo manuale, e spesso potevo rendere chiaro l’errore semplicemente fermando la persona al momento giusto e indicando col dito il problema. È questo il punto su cui mi interessa concentrarmi ora: l’affiancamento senso-motorio creava una situazione comune fra due persone, e tutto il significato di tale situazione si riversava nel semplice gesto dell’indicare col dito indice. Il collocamento in un contesto concreto poteva rendere molto più ricco e significativo un segno di per sé semplice. Dato quel contesto, il mio dito indice diventava capace di evocare la perfezione di un processo.

Winnicott: il premio dell’attesa

In Winnicott ho trovato un grande acume unito a una preziosa forma di modestia teoretica, che apprezzo molto. Winnicott nota che a volte l’analista prova soddisfazione nel dare al paziente l’interpretazione perfetta, perché così facendo mostra la propria intelligenza. Ma spesso sarebbe meglio attendere, guidando il paziente a trovare da solo l’interpretazione giusta. Winnicott dice che gli è servito molto tempo per imparare ad attendere.
Nel libro Gioco e Realtà Winnicott riporta alcuni resoconti delle sue sedute psicoanalitiche. Lì ci vedi l’uso della parola per curare. Nel corso di queste lunghe sedute si creano delle situazioni mentali che formano il presupposto per la formulazione di interpretazioni adeguate alla soluzione del problema del paziente. Sedendosi e parlando a lungo con l’analista, si creano delle situazioni nelle quali la frase giusta funziona come un dispositivo che convoglia i significati dandogli la possibilità di fluire in un canale nuovo.

A questo punto vorrei provare a dire qualcosa che forse mette insieme i racconti psicoanalitici di Winnicott con quei ricordi sulla fabbrica di chiusure lampo.

Nel corso di una seduta di psicoanalisi si sviluppa una situazione che consente di posizionare le parole in modo particolarmente efficace. La stessa interpretazione fornita a freddo non avrebbe lo stesso impatto, scivolerebbe via senza far presa. Quello che io mi chiedo è se non vi siano altri modi per posizionare le parole al punto giusto dove possano fare presa. E la risposta che mi do è che è necessario condividere una situazione. Così come osservare i movimenti dei lavoratori mi consentiva di usare il dito indice con una particolare significatività, così osservare da vicino il processo giornaliero di un altro uomo potrebbe consentirci di piazzare la parola giusta al momento giusto per notare in che modo le sue abitudini cognitive favoriscano lo sviluppo di dinamiche depressive piuttosto che la degradazione di un rapporto di coppia.

Nel dire questo, mi sto immaginando un paziente che accetti di farsi affiancare da un’analista in tutti i risvolti di un’intera giornata. D’altra parte, ad un certo punto noi vorremmo anche uscire dall’ottica di una relazione analista-paziente, e spostarci a considerare il vivere normale. La dimensione della psicoanalisi è molto utile per tenere ben viva l’idea di quanto sia possibile fare con la parola, ma poi questo modo di fare parola si vorrebbe importarlo nelle proprie relazioni quotidiane, senza lasciarlo confinato al patologico.

Uscendo dal rapporto medico-paziente non vi è più una patologia a recitare, per cosí dire, il ruolo del nemico da sconfiggere, e ci troviamo a coltivare dei risultati di natura più ambigua, perché non sappiamo ancora quali siano.

Eccoci dunque a parlare di Couchsurfing. Couchsurfing è un social network nel quale si ospitano persone e si viene ospitati senza scambio di denaro. Qualcuno è attratto soprattutto dalla possibilità di dormire da qualche parte senza pagare, ma il vero spirito di Couchsurfing mette al primo posto l’atmosfera dell’incontro.

(Prima di Couchsurfing c’era Servas, che è un sistema nato nel secondo dopoguerra per facilitare lo sviluppo di rapporti internazionali, allo scopo di prevenire la guerra. Non c’era internet, e si usavano liste su carta con gli indirizzi. Al centro vi era l’idea di condividere un paio di giorni di vita. Servas esiste ancora, e mi sto informando per iscrivermi.)

Ora, detto molto semplicemente, io mi chiedo se sia possibile impiegare la rete di Couchsurfing per realizzare una condivisione di esperienza come quella descritta sopra. Una condivisione di esperienza per scoprire e per farsi scoprire. Per rendere visibili le forme del nostro vivere, e creare così l’opportunità di indicarle. Perché l’atto dell’indicare riesce a convogliare la coscienza in un luogo circoscritto, che prima di essere indicato era sì presente, ma senza essere percepito come un’unità a sé stante. Come la statua nel blocco di marmo non ancora scolpito.

Adesso proviamo a togliere tutto. Togliamo l’indice che addestra alle chiusure lampo, togliamo la tradizione psicoanalitica cui Donald Winnicott appartiene, e togliamo anche Couchsurfing e Servas. Cosa rimane di tutto questo discorso?

Domanda sbagliata. La domanda giusta è: “Cosa vogliamo che rimanga di tutto questo discorso?”.

Se io sapessi già la soluzione di questo piccolo enigma, allora potrei fare a meno di scriverla, e aspettare che il lettore ci arrivi da solo, così come faceva Winnicott coi suoi pazienti. Ma non è così, noi siamo qui per provarci insieme, e la mia idea non si qualifica come una formula che risolve, bensì come un dispositivo da mettere alla prova. Per vedere dove funziona, e dove invece servono correzioni.

Il centro del nostro discorso stava dunque già nel titolo. Il verbo più importante non è il verbo essere, ma il verbo indicare. Lo facciamo quasi da sempre. A partire da quando riusciamo a ricordarci un collegamento fra due cose che si susseguono, la prima viene ad avere la seconda come significato, e la può dunque indicare.

Il problema nostro (o almeno, il problema di molti occidentali ad inizio 21mo secolo) è che ci troviamo a vivere in un mondo di cose isolate e di concetti costruiti come termini isolati. Il che ci porta a vivere come individui (troppo) separati.

I modi dell’indicare sono un luogo privilegiato per fuggire dalla prigione dei termini separati. È ampliando la base concreta in cui si radica l’indicazione che potremo pronunciare parole evocative, parole che fanno la differenza, parole che trasfigurano.

 

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1 Donald W. Winnicott, Gioco e realtà (Roma: Armando Editore, 1974). Titolo originale: Playing and Reality, London, 1971. Traduzione di Giorgio Adamo e Renata Gaddini.

 

 

 

La doppia natura della depressione, fisica e razionale

Ció che va messo a fuoco della depressione é che si tratta di un malessere fisico e che quindi non puó essere messo a posto con un ragionamento, cosí come una gamba rotta non puó essere aggiustata con la riflessione. Allo stesso tempo peró la depressione é il risultato della stratificazione di abitudini di comportamento e di ragionamento sbagliate. Per questo motivo la depressione puó essere affrontata con la ragionevolezza, ma non con quella ragionevolezza che mostra nulle i giudizi neri della persona depressa, bensí con una ragionevolezza che ci dica quali abitudini cambiare per eliminare le condizioni sistematiche che hanno provocato la depressione. Nel dire abitudini, ripetiamolo, ci si riferisce sia ai comportamenti fisici che al tipo di concetti che usiamo per interpretare il mondo.
Per quanto detto la depressione appare caratterizzata da una doppia natura. Da un lato si tratta di un problema concreto, molto piú solido dei ragionamenti fatti di parole, dall’altro é possibile attaccare la riflessione assumendo una adeguata visione del mondo e mantenendola a lungo, in modo che abbia modo di propagare i suoi effetti stratificandoli pian piano in tutte le regioni del nostro vissuto.

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Panksepp ha voglia di giocare

Il libro di Panksepp non vale tant’oro quanto pesa. Di più. Molto spesso utilizza i dati scientifici di base per delle considerazioni su come affrontare i principali “malfunzionamenti” mentali dell’uomo, come depressione, rabbia e mancata felicità in genere. L’importanza di queste considerazioni non sta nella loro novità assoluta, ma nel fatto che sono fondate sulla conoscenza della struttura fisica del cervello che si è andata accumulando nelle ultime decine di anni. Non sono soltanto “valide impressioni”, ma punti di riferimento consolidati. Traduco qui l’ultimo spunto interessante che ho trovato:

“Come vedremo nel prossimo capitolo, la giocosità, che è la sorgente di uno dei più positivi sentimenti sociali-affettivi che la nostra mente possa generare, non è ancora sistematicamente o adeguatamente impiegata nei contesti psicoterapeutici. Ci sono sicuramente dei modi per rendere questo robusto affetto positivo un aspetto comune delle interazioni psicoterapeutiche. Dovremmo ricordarci la famosa idea di Norman Cousin’s (1983): che la risata potrebbe essere una delle nostre migliori medicine.”

Ma gli angeli giocosi, per essere tali, non dovranno prima imparare ad usare i coltelli contro i cani arrabbiati?

Testo originale in inglese:
“As we will see in the next chapter, playfulness, which is the source of one of the most positive social-affective feelings our brain can generate, is not yet systematically or well used in psychotherapeutic contexts. There are surely ways to make this robust positive affect a more common aspect of therapeutic intereaction. We may be wise to remember Norman Cousin’s famous idea: Laughter may be one of our best medicines.”

Da: The Archaeology of mind – Neuroevolutionary Origins of Human Emotions.
Jaak Panksepp e Lucy Biven