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I cinque stelle stavano perdendo punti per l’incapacità di compiere un discorso propositivo valido, ma la mossa di Rodotà è stata abile e ha consentito loro di recuperare dei punti. Adesso l’insediamento di un governo Letta dichiaratamente sostenuto da PD e PDL sarebbe per Grillo e Casaleggio un evento fortunato: li toglierebbe dall’impaccio di dover assumere un ruolo attivo e li collocherebbe nei panni degli oppositori in cui si trovano tanto bene. Senza contare che la crisi non si attenuerà minimamente nel futuro immediato, e sappiamo che nei momenti di difficoltà reale le forze d’opposizione guadagnano voti. La lega di Maroni non è più la lega di Bossi(1), e Vendola ha il problema di dover fare qualcosa di simile a Grillo ma senza dare l’impressione di seguirlo. Ne segue che i frutti politici della crisi sembrano destinati ad essere raccolti dai cinque stelle, sempre ipotizzando un governo Letta durevole.
Complessivamente il giocatore migliore in campo (che si faccia o meno il governo Letta) si è rivelato essere Berlusconi, perché il consenso recuperato se l’è guadagnato lui combattendo sul campo, mentre il successo di Grillo è dovuto in parte non trascurabile alle circostanze(2). Grillo (o chi lo consiglia) deve ancora dimostrare quello che vale(3). Renzi invece sarà anche bravo, ma l’accostamento che è stato fatto fra lui e Berlusconi è improprio e finisce per rivelare i limiti del sindaco di Firenze, che non ha spazio di manovra autonoma al di fuori del partito da cui proviene, a cui non può ordinare cosa fare. Il grande perdente, lo sanno tutti, è il PD. Perché pur essendo l’entità politica più programmaticamente devota allo straniero è quella che è riuscita a trarre meno vantaggio dalla debolezza del contesto interno.
(1) Campagne giudiziarie a parte, il Bossi di una volta saprebbe prendere Grillo di petto mettendone in luce i punti deboli più di quello che non sanno o non possono fare i leader oggi in campo.
(2) La forza della crisi
(3) Per quanto riguarda la posizione di Grillo sul 25 Aprile, la trovo consona al ruolo storico che fino ad ora è lecito attribuire ai cinque stelle: attirare le forze di protesta in un rumore privo di identità, dimentico della storia. Staremo a vedere se nel corpo del movimento si formeranno delle linee di pensiero dotate di maggiore coscienza storica; e soprattutto vedremo come G&C le gestiranno.
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RIFLESSIONI SULLO SCRITTO DI EMMANUEL TODD[1]: APRÈS LA DÉMOCRATIE (DOPO LA DEMOCRAZIA)[2]
(Sulla contrazione della domanda provocata dalla globalizzazione)
C’era una volta una grande Fattoria in cui i Cani compravano solo le merci prodotte dai Cani e i Gatti compravano soltanto quelle prodotte dai Gatti. I capi dei Cani non avevano interesse ad abbassare gli stipendi dei loro dipendenti Cani, perché altrimenti questi avrebbero comprato di meno dalle bancarelle del mercato dei Cani.
Poi venne un giorno in cui i capi di tutte le specie animali della Fattoria fecero una Riunione Generale in cui si decise una svolta verso il Libero Scambio. Il mercato dei Cani non sarebbe più stato diviso da quello dei Gatti, dei Conigli, dei Maiali e di tutti gli altri animali della Fattoria. Ognuno avrebbe potuto acquistare anche i prodotti degli altri animali, scegliendo liberamente quello di qualità migliore e al prezzo più conveniente.
Nei giorni successivi alla Riunione Generale, i capi dei Cani fecero una riunione segreta fra di loro, in cui qualcuno disse: “Perché tenere alto lo stipendio dei nostri dipendenti Cani se poi quelli lo usano per comprare anche le merci dei Gatti e dei Cavalli? Se noi gli abbassiamo lo stipendio i nostri prodotti costeranno di meno e potremo venderli anche sui mercati degli altri animali, vincendo la concorrenza!”.
Così fecero. All’inizio alcuni dei dipendenti Cani protestarono per la riduzione dello stipendio, ma poi videro che con il Libero Scambio potevano comprare i collari ed i guinzagli dai Topi ad un prezzo molto più basso rispetto alle bancarelle dei Cani. Così i dipendenti Cani compensarono il ridimensionamento della busta paga con la disponibilità di prodotti più economici, in particolare quelli provenienti dai Topi, dalle Galline e dai Corvi.
I capi dei Cani erano tre volte contenti: potevano anche loro comprare dei prodotti a miglior prezzo, i loro dipendenti costavano meno, e avevano iniziato a vendere anche ai Maiali, alle Mucche ed ai Cavalli. C’era stata in particolare l’acquisizione di una commessa di carrozze che aveva portato buonumore nel quartier generale dei Cani; fu in quell’occasione che sui giornali dei Cani apparvero dei titoli che lodavano i successi del Libero Scambio, grazie al quale il Progresso ed il Benessere avrebbero regnato per sempre in tutta la Fattoria; soprattutto nella zona dove vivevano i Cani.
Ma era destino che le cose andassero diversamente. A distanza di un paio di mesi dalla Riunione Generale, anche i capi dei Gatti decisero di abbassare lo stipendio dei loro dipendenti per avere manodopera a basso prezzo, contrastando così la strategia dei Cani. A breve seguirono le Anatre e poi i Cavalli, che volevano riprendersi gli ordini di carrozze che avevano perso. Nel giro di una stagione tutti i capi delle diverse razze animali presenti nella Fattoria avevano deciso di abbassare lo stipendio dei loro dipendenti, ed i Cani persero il vantaggio competitivo che avevano acquisito sui mercati degli altri animali.
Ci fu allora un’altra riunione dei capi dei Cani in cui si decise un ulteriore abbassamento degli stipendi. Anche in quel caso il vantaggio acquisito fu solo temporaneo, perché i capi degli altri animali seguirono un’altra volta la strada intrapresa dai Cani. Gli animali dipendenti si lamentavano, perché a questo punto l’abbassamento dello stipendio prevaleva sul vantaggio di avere alcuni prodotti a minor costo; ma questo ai capi non interessava molto, perché abbassando gli stipendi riuscivano comunque a tener bassi i costi di produzione e ad aumentare i profitti delle loro aziende.
Si innestò così una spirale di riduzione degli stipendi che portò tutti gli animali dipendenti a guadagnare di meno. La conseguenza fu che ad un certo punto i mercati della Fattoria erano frequentati da animali più poveri ripetto all’epoca in cui era iniziato il Libero Scambio, e complessivamente le vendite di tutte le bancarelle della Fattoria erano notevolmente diminuite.
I capi degli animali avevano intrapreso una lotta fra di loro per aumentare la rispettiva fetta di mercato, ma avevano finito per provocare un restringimento del mercato nel suo complesso.
All’inizio della storia gli stipendi dei Cani non venivano abbassati perché i capi dei Cani sentivano il mercato dei Cani come una cosa propria, e sapevano che abbassando gli stipendi il mercato sarebbe diventato più debole e le industrie dei Cani poi avrebbero venduto meno prodotti. Con il Libero Scambio, i capi dei Cani non hanno più pensato che il mercato dei Cani in qualche modo gli appartenesse, perché anche gli altri animali potevano entrarvi a piazzare dei punti vendita per i loro prodotti.[4] Con il Libero Scambio, i capi dei Cani hanno iniziato a pensare ai dipendenti soltanto come ad un bene da sfruttare il più possibile per aumentare i profitti e abbassare il costo dei prodotti, destinati alla vendita in tutta la Fattoria, non soltanto ai Cani. Abbiamo visto come l’esito di questa strategia si sia rivelato fallimentare.
La soluzione a questo stato di cose esiste, ed è che in tutta la Fattoria ci sia un’unica assemblea dei capi che decida gli stipendi. Così facendo l’assemblea dei capi potrà tornare a pensare che tutelando gli stipendi di chi produce si tutela la forza del mercato a cui si vendono i prodotti. Il nesso fondamentale che emerge dalla favola è che ci dev’essere una corrispondenza fra l’estensione del mercato e la struttura decisionale che regola il mercato, fra spazio economico e spazio politico. E visto che il progresso tecnologico ed il contesto internazionale hanno creato dei mercati più ampi, ne segue che anche la struttura politica si deve ampliare.
A questo punto il pensiero potrebbe scivolare facilmente nell’idea di un unico governo mondiale che risolva alla radice il problema, ma non è questa la via che ci indica Emmanuel Todd.
Il libro di Todd si intitola “Dopo la democrazia”, analizza la società francese, e si preoccupa del futuro. Alcune delle problematiche che tratta sono la mancanza di valori collettivi e la divisione della popolazione in una fascia di istruzione elevata e in una di livello inferiore, la natura irresponsabile delle élite al potere e la possibile deriva politica in direzione razzista o antisemita.
Secondo Todd, il problema principale che minaccia il proseguimento dell’esperienza democratica in Francia come in Europa è la compressione indefinita dei salari, la quale è conseguenza della dottrina del Libero Scambio impostosi come pensiero unico a partire dagli anni Ottanta: “Si tratta di sfuggire all’incubo attuale: la caccia alla domanda esterna, la contrazione indefinita dei salari per far abbassare i costi della produzione, l’abbassamento conseguente della domanda interna, la caccia alla domanda esterna, etc., etc.”[5]
Come abbiamo visto sopra la soluzione può essere una ritrovata coincidenza fra lo spazio economico e quello politico, ma non a livello mondiale: “La democrazia planetaria è un’utopia. La realtà è che, all’opposto, abbiamo la minaccia di una generalizzazione delle dittature. Se il Libero Scambio dovesse generare uno spazio economico planetario, la sola forma politica concepibile alla scala mondiale sarebbe la «governance», designazione pudica di un sistema autoritario in gestazione. Ma perché allora, visto che esiste uno spazio economico europeo già ben integrato, non si può elevare la democrazia al suo livello?”[6]
Secondo Todd dunque la Fattoria giusta in cui unificare il governo non è il mondo ma l’Europa, e naturalmente questa Fattoria non deve praticare il Libero Scambio nei confronti delle altre Fattorie, altrimenti il gioco perverso verrebbe semplicemente spostato ad una scala maggiore. Stiamo dunque parlando di protezionismo a livello europeo.
I teorici statunitensi fanno l’elenco dei danni che il Libero Scambio ha arrecato agli Stati Uniti, ma poi concludono la loro analisi dicendo che non c’è alternativa, in quanto negli Stati Uniti la struttura industriale si è deteriorata eccessivamente e rende inverosimile una rapida ricostituzione della capacità produttiva, che sarebbe necessaria in uno scenario protezionista. Al contrario l’Europa è ancora in grado di produrre di tutto, e si trova ad essere, fra il declino degli Stati Uniti e la crescita della Cina, la maggior concentrazione di competenze tecniche del pianeta.[7]
Il protezionismo di cui parla Todd non è una chiusura netta: “Per quanto mi concerne, spingo la moderazione del protezionismo fino a distinguere accuratamente, al contrario degli ideologi della globalizzazione mascherati da economisti, il movimento delle merci da quello dei fattori di produzione. Da buon discepolo di Friedrich List, sono favorevole alla libera circolazione del capitale e del lavoro.”[8] [9]
L’obiettivo primario del protezionismo europeo è di opporsi alla crisi economica e di salvare la democrazia evitando il dramma di una continua diminuzione dei salari.: “Lo scopo del protezionismo non è, fondamentalmente, di respingere le importazioni provenienti dai paesi esterni al privilegio comunitario, ma di creare le condizioni per una crescita dei salari.”[10] “La crescita dei redditi implica un rilancio della domanda interna europea, che comporta di per sé stessa un rilancio delle importazioni.”[11]
Posto il protezionismo europeo come obiettivo, Todd fa un gioco di simulazione (da un punto di vista Francese) per capire come lo si possa raggiungere. Per quanto riguarda l’Inghilterra, Todd dice che inizialmente non potrà accettare una svolta in senso protezionistico perché il Libero Scambio è una parte troppo importante dell’identità nazionale inglese. La Germania sta al centro del suo ragionamento: la Francia dovrebbe affrontarla in modo diretto convincendola a preoccuparsi di più del mercato interno europeo e invitando i tedeschi a una svolta verso il protezionismo a livello europeo. Se si rifiutano, la Francia dovrebbe minacciare la propria uscita dall’Euro, che provocherebbe in modo quasi automatico la stessa mossa da parte dell’Italia.
Gli economisti che parlano in televisione fanno finta di non conoscere il problema dell’impoverimento dei mercati descritto nella favola, perché altrimenti dovrebbero ammettere che il Libero Scambio genera dei problemi e smetterebbero di essere economisti alla moda (e di prendere sovvenzioni dai capi dei Cani).
Questi economisti dicono che il protezionismo è una cosa vecchia e che non fa parte del futuro luminoso verso cui ci siamo incamminati, ma forse si sbagliano. Emmanuel Todd ci invita a riflettere su di un protezionismo intelligente esteso dalla Gran Bretagna alla Russia: “Lo spazio politico e quello economico coincideranno di nuovo. La nuova forma politica così creata sarà di un genere nuovo, implicante delle modificazioni istituzionali complesse. Ma si può affermare che in questo caso, e solo in questo caso, dopo la democrazia, ci sarà ancora la democrazia.”[12]
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RIFLESSIONI SUL LIBRO DI GIULIO TREMONTI.[1]
1 – PRIMO FLASHBACK: NASCONO I DERIVATI
2 – SECONDO FLASHBACK: IL NOSTRO RISPARMIO VIENE MESSO IN GIOCO ANNULLANDO LA SEPARAZIONE BANCARIA
3 – IL DISCORSO DI GIULIO TREMONTI
4 – LA SOLUZIONE ALLA CRISI
Il 24 Marzo 1989 la petroliera Exxon Valdez devia dalla rotta usuale per evitare degli iceberg e finisce contro gli scogli nello stretto del Principe William, in Alaska, riversando in mare quarantamila metri cubi di petrolio. Per le conseguenze di questo disastro ecologico la compagnia petrolifera Exxon rischia di dover pagare un risarcimento di cinque miliardi di dollari, e per tutelarsi chiede alla banca JP Morgan di concederle una linea di credito adeguata: se Exxon dovrà pagare i danni, i soldi le verranno prestati da JP Morgan. JP Morgan accetta per non perdere Exxon come cliente, ma non è contenta, perché rischia di dover prestare una somma enorme che forse Exxon non sarà in grado di restituire. Inoltre JP Morgan è costretta dalle regole bancarie a compensare il rischio di cinque miliardi di dollari che si è assunta tenendo bloccate parecchie centinaia di milioni di dollari come riserva di sicurezza, e quindi non può impiegare tale denaro in altre operazioni più redditizie.
L’idea che verso la fine del 1994 consente a JP Morgan di sbloccare questo denaro è di scambiare[2] quel grosso rischio da cinque miliardi con la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che se lo assume ricevendo in cambio un determinato premio in denaro da JP Morgan, ovviamente di importo inferiore rispetto alla cifra complessiva. Questa operazione è di tipo nuovo, e le viene dato il nome di Credit Default Swap, che si abbrevia in CDS e che in italiano potrebbe suonare come “Scambio del (rischio di) Fallimento di un Credito”.
Ispirata da quanto accaduto, nel 1997 JP Morgan mette a punto un prodotto finanziario che spezzetta alcuni grandi rischi simili a quelli del caso Exxon in una miriade di parti molto piccole rimescolandole poi fra di loro ottenendone tante polpette composte da frammenti di rischio di provenienza diversa. Il rischio di ciascuna polpetta è mediamente basso, in quanto ognuno dei singoli grandi rischi di partenza ne può svalorizzare solo una piccola frazione. Tali polpette appaiono abbastanza sicure da poter essere proposte ad un ampio pubblico il quale si fa garante del rischio che costituisce le polpette in cambio di un premio costante. Proviamo a pensare ad una polpetta da 1.000 euro per la quale il cliente riceve ogni mese un euro: se qualcosa va storto nel rischio X a monte della polpetta, il cliente deve rimborsare al produttore della polpetta la parte corrispondente al rischio X, per esempio 40 euro.
Ecco, questi sono i moderni derivati finanziari. L’aggettivo “derivati” si riferisce alle formule matematiche con cui si fa derivare il valore dei titoli commerciabili (le polpette) dal valore originario di una serie di eventi che stanno a monte, come il rischio di Exxon o la possibilità che certe grandi organizzazioni, nazioni incluse, smettano di pagare i loro debiti.
Il lavoro delle banche è fare prestiti, e ad ogni prestito è connesso il rischio di una mancata restituzione. La messa a punto di uno strumento finanziario che consenta di “vendere” il rischio dopo averlo reso “meno rischioso” è un’invenzione in grado di fare epoca, perché permette di diminuire il rischio nei bilanci delle banche. Di conseguenza diminuisce la quantità di soldi che vanno obbligatoriamente tenuti accantonati come scorta, e tali soldi possono essere destinati ad operazioni che offrono profitti maggiori.
Ma ci deve essere stato un errore di messa a punto in quelle formule, perché il rischio sminuzzato e mescolato non cambia affatto il suo peso totale. Non c’è una diminuzione complessiva del rischio ma soltanto una sua distribuzione, alla quale avrebbe dovuto corrispondere un’analoga distribuzione delle scorte di sicurezza, non una loro diminuzione. Tutto va bene finché solo pochi rischi si trasformano in un danno effettivo. Tutto inizia ad andare male quando ci si trova di fronte ad una crisi sistemica con ondate di fallimenti e un aumento drastico del rischio di tutte le polpette.
Nel primo decennio degli anni duemila si fa un utilizzo eccessivo di strumenti finanziari simili a quello descritto, e le cifre collegate diventano astronomiche. È come se una banda di scommettitori avesse puntato una somma 10 volte più grande del mondo[3] su alcuni disastri considerati improbabili ma che adesso stanno accadendo. In questo scenario la finanza ha ben altro di cui preoccuparsi che non della sua funzione sociale originaria, quella di portare i soldi là dove ci sono attività produttive che ne hanno bisogno. E di fronte a cifre così grandi la vita di qualche uomo in più o in meno non rappresenta un fattore che viene preso seriamente in considerazione. Purtroppo per noi.
Uno dei provvedimenti più importanti varati in America per rimediare alla crisi del 1929 è la legge Glass-Steagall (si pronuncia: “glass-stigall”) del 1933, la quale divide le banche ordinarie che gestiscono i risparmi dalle banche d’affari che conducono rischiose operazioni speculative.[4] Nel 1998 Citicorp e Travelers si uniscono a formare il nuovo colosso Citigroup. La legge Glass-Steagall implica la non validità di tale fusione, ma ci sono due anni di tempo prima che gli effetti della legge diventino operativi. I dirigenti della neonata Citigroup si danno da fare e con una campagna di convincimento nei confronti dei politici riescono in ciò che già altre volte era stato tentato senza successo dalla comunità finanziaria. Il 4 Novembre del 1999 la legge Glass-Steagall viene abrogata con 90 voti contro 8 dal senato degli Stati Uniti d’America.[5] [6]
Con i derivati le banche hanno iniziato a giocare un gioco più grosso; in seguito, annullando la divisione fra credito ordinario e speculazione, sono riuscite a mettere in palio anche i nostri risparmi.
L’impiego estensivo dei derivati e l’abrogazione della legge Glass-Steagall in America costituiscono due aspetti caratteristici della deregolamentazione dei mercati finanziari che si è svolta in particolare negli anni novanta del secolo scorso e che ha contribuito in modo sostanziale alla crisi finanziaria in cui ci troviamo. È stata promossa una campagna ideologica che ha fatto sembrare la deregolamentazione come un tratto tipico del progresso[7] nonostante il sistema finanziario abbia dimostrato storicamente di avere bisogno di regole più degli altri settori.
Con l’ondata di fusioni e acquisizioni rese possibili dalla deregolamentazione gli istituti bancari sono diventati grandi a tal punto che il loro fallimento viene considerato come un’eventualità tanto disastrosa da utilizzare i soldi dei contribuenti per evitarlo. Sapendo di avere le spalle coperte questi istituti possono assumere rischi considerevoli a cuor leggero: se la scommessa funziona ne derivano bonus consistenti per i manager, se la scommessa va male invece, il peso va a finire sui bilanci dello stato che lo gira ai cittadini con le tasse.
Non è corretto affidare la risoluzione della crisi corrente alle istituzioni finanziarie, perché la causa primaria della crisi sono loro, complice la corruzione dei singoli e la ricerca smodata del profitto. Lasciare che la partita si giochi in casa della finanza significa dare un’altra volta a questa gente la possibilità di favorire i propri interessi, allontanando nel tempo la risoluzione dei problemi maggiori. Per questo Tremonti considera un errore l’avere affidato la gestione della crisi al Forum di Stabilità Finanziaria,[8] a riguardo del quale dice: “È successo che […] ha funzionato da cavallo di Troia, fabbricato dalla finanza per entrare nella politica e batterla sul suo stesso campo.” Il risultato dell’attività del FSB è che “dopo una breve penitenza le giurisdizioni non cooperative contano più o meno come prima, […] a mercati e agenzie di rating viene restituita appieno la sacralità del giudizio inappellabile; i bonus dei banchieri hanno raggiunto nuovi livelli record.”[9]
Per quanto riguarda le agenzie di rating, nell’ambito di una crisi in cui sono stati fatti dei gravissimi sbagli nella sfera contabile, è naturale porsi degli interrogativi sul loro ruolo. Il parere di queste agenzie è considerato vincolante da molte importanti organizzazioni internazionali, senza però che nessuna legge stabilisca delle sanzioni per i loro “eventuali” errori. “Se il rating avesse un valore legale diretto, così come ha valore legale la certificazione di bilancio, episodi come il crac della Lehman Brothers non sarebbero rimasti senza conseguenze per le agenzie di rating. L’Arthur Andersen, una potente società di revisione contabile, venne rasa al suolo proprio per aver certificato i bilanci falsi di Enron.”[refPag 75[/ref]
Secondo Tremonti è sbagliato aspettarsi che a “salvarci” dalla crisi possa essere una grande inflazione, in quanto questa non è voluta dalla BCE ma soprattutto non è “voluta dalla Cina che, essendo largamente creditrice, con una grande inflazione che ne svaluta i crediti ci perderebbe economicamente e, di riflesso, si destabilizzerebbe socialmente.” E nemmeno è lecito sperare che sia una guerra a risolvere la situazione, perché le guerre hanno un effetto acceleratore “solo se sono guerre mondiali e non locali, tragedie strutturali e non espedienti congiunturali. No, grazie.” È sbagliato anche pensare che la crisi dell’Europa sia dovuta all’azione ostile degli Stati Uniti d’America: “Invece di sospettare degli altri è meglio capire […] che oggi è l’Europa che si fa male da sola.”[10]
La crisi in cui ci troviamo ha avuto sì origine negli Stati Uniti d’America, ma sta avendo effetti peggiori in Europa per via della divisione politica del vecchio continente. In aggiunta alla sua debolezza politica l’Europa è anche penalizzata dalla mancanza di una vera banca centrale: la BCE “non ha la funzione principale e tipica che è storicamente e sistematicamente propria di una vera banca centrale: la missione di agente del governo, di garante di ultima istanza.”[11]
Tremonti ci ricorda gli alti livelli di integrazione economica e finanziaria delle nazioni d’Europa, e parla da convinto sostenitore dell’ideale europeo. Dopo aver esaminato i pro e i contro del ruolo della Germania in Europa[12] prende in considerazione alcune ipotesi sulla gestione della crisi: la variante peggiore è l’immobilismo passivo destinato a condurci ad un catastrofico dissolvimento dell’euro, mentre la soluzione preferibile è una riorganizzazione costituzionale dell’Europa ispirata ad una “Nuova Alleanza” tra popoli e Stati.[13]
Secondo Tremonti la BCE deve diventare una vera banca centrale dotata degli strumenti per affrontare la crisi, e vanno avviati dei progetti per la costruzione di infrastrutture europee per mezzo degli Eurobond. Va sostenuta l’adozione del decalogo OCSE sui principi di trasparenza e integrità dell’economia.[14] Vanno abrogate le leggi con cui è stata messa in atto la deregolamentazione finanziaria, ritornando ad una sana divisione fra credito ordinario e attività speculativa oltre che al divieto dell’impiego di strumenti finanziari simili ai derivati.[15]
Non basta: la gravità della situazione richiede una riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario.[16] Bisogna verificare i crediti e i debiti dei maggiori istituti finanziari per eliminare quelli privi di garanzie.[17] Si evidenzieranno delle grandi perdite, e l’intenzione condivisibile di Tremonti è quella di farle pagare a chi ha tratto i maggiori profitti dalle speculazioni degli ultimi decenni.[18]
L’uscita di sicurezza proposta da Giulio Tremonti consiste nel prendere il toro per le corna, rimettendo la politica e lo stato al di sopra della finanza, riportando quest’ultima al suo ruolo che è quello di fornire capitali alle attività produttive. La dimensione esagerata concede alle organizzazioni finanziarie una potenza paragonabile a quella degli organi di governo, senza che siano soggette a nessun tipo di controllo democratico. Mettersi contro di loro non è facile, ma con la crisi e con gli scenari oscuri che stanno diventando lo sfondo abituale dei nostri giorni ci saranno sempre più persone disposte a rischiare. Sarebbe un peccato se quelli che vogliono agire rimanessero senza esempi di coraggio e di visione, se scendessero in piazza senza sapere per cosa, soltanto per lanciare qualche sasso ignorante. In questo contesto il ritorno “alle vecchie gloriose leggi bancarie modellate sul tipo della legge Glass-Steagall del 1933”[19] è un obiettivo politico ambizioso ma allo stesso tempo concreto e semplice da spiegare alla gente.
Ci sono nella rete degli uomini che dicono cose giuste, ma il loro nome è conosciuto solo in un ambito ristretto, non hanno esperienza di governo, e sono mescolati ad altra gente che dice le cose opposte rovinando i giovani con dei sogni sbagliati.[20] Giulio Tremonti invece è stato per molti anni alla guida di una delle dieci economie più grandi del mondo, parla di cose che conosce per esperienza diretta ed indica in modo preciso le cause della crisi, cosa che molti altri in una posizione simile alla sua non hanno il coraggio di fare. Questo è il motivo per cui il suo libro è importante.[21]
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