Una pedagogia del gioco? Scelta, meraviglia e godimento

È da circa un anno che sono impegnato in una ricerca interdisciplinare sul gioco. Una parte degli articoli che ho letto riguardano l’impiego del gioco a diversi livelli del processo educativo. Dall’asilo nido fino all’istruzione universitaria, c’è una tematica che sembra essere ricorrente in questi lavori. Da un lato si vorrebbe arruolare il gioco tra i metodi d’insegnamento, per trarre vantaggio dal suo carico di affettività positiva e dalla sua capacità di promuovere il coinvolgimento. D’altra parte ci si trova, anche nel contesto educativo, a fronteggiare una tendenza diffusa a perseguire risultati “commerciabili”, precisi e misurabili, là dove invece i vantaggi ottenibili con le attività di gioco sono di carattere generale e non facilmente misurabile.

In questo post vorrei riportare il punto di vista di un bell’articolo1 che affronta la situazione in modo concreto. Si tratta di un documento prodotto da Project Zero (un centro di ricerca basato ad Harvard) in collaborazione con una scuola danese e la fondazione LEGO. L’obiettivo degli autori è quello di sviluppare alcune indicazioni pratiche adatte a definire la situazione di un apprendimento basato sul gioco. L’articolo si intitola, significativamente, “Verso una pedagogia del gioco”, e sottolinea l’importanza di raggiungere un punto di vista condiviso su come il gioco possa essere impiegato in ambito pedagogico. La tesi principale è che al fine di realizzare una situazione di apprendimento basato sul gioco si debbano soddisfare i tre criteri di Scelta, Meraviglia, Godimento2 (in inglese Choice, Wonder, Delight).

La dimensione della scelta implica che i partecipanti “decidano gli obiettivi, sviluppino e condividano idee, facciano e modifichino le regole, e negozino le sfide. Inoltre scelgono i collaboratori ed i ruoli, per quanto tempo lavorare o giocare, e quando muoversi.”

La dimensione della meraviglia “implica un’esperienza di curiosità, novità, sorpresa e sfida, che può coinvolgere ed affascinare colui che apprende. Dal punto di vista di un osservatore, un senso di meraviglia comporta improvvisazione o esplorazione, creazione od invenzione, simulazione o immaginazione, il prendersi dei rischi o l’imparare da prove ed errori.”

La dimensione del godimento (che potremmo anche tradurre come piacere, o diletto) “include eccitazione, gioia, soddisfazione, ispirazione, anticipazione, orgoglio e appartenenza.”

Come si nota dalla varietà dei termini citati, non siamo di fronte ad una definizione cristallina ed univoca, e questo riflette la difficoltà ampiamente riconosciuta di definire esattamente il fenomeno del gioco. Nondimeno si tratta di un approccio, in fase di sviluppo, che fornisce riferimenti concreti a chi si propone di impiegare il gioco in campo educativo.

Andando oltre quanto sostenuto nell’articolo in oggetto vorrei proporre alcune osservazioni utili a ricollegare i tre criteri sopra citati ad un modello più astratto e generale di cosa sia il gioco.

La dimensione del godimento e del diletto fa riferimento al fatto comunemente accettato che il gioco sia un’esperienza affettivamente positiva, ossia una forma di piacere. Questo non basta però a definire il gioco, come si può comprendere facilmente tenendo presente che esistono altre forme di piacere molto differenti dal gioco. Penso ad esempio alla soddisfazione della fame e della sete, oppure al piacere dell’esercizio fisico e all’erotismo.

Dal modo in cui sono descritte la dimensione della scelta e della meraviglia comprendiamo che il tipo di piacere con cui abbiamo a che fare è un piacere di natura cognitiva, che riguarda il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Dalla dimensione della meraviglia si nota anche in modo evidente come questo tipo di piacere sia sostenuto dalla novità. Nella dimensione della scelta riscontriamo invece l’impostazione autonoma di un obiettivo arbitrario. E vediamo che il piacere cognitivo si esercita nel coordinare i mezzi a disposizione verso il soddisfacimento di questo obiettivo.

Ci troviamo dunque a descrivere una forma di piacere di origine cognitiva, che è promossa dal senso di novità, e che si manifesta nel perseguimento di uno scopo scelto in autonomia. Messa così la descrizione può apparire piuttosto astratta, motivo per cui vorrei provare a ricondurla ad una situazione di gioco concreto, al di là del contesto educativo. Vygotskij, ad esempio, parla di due sorelle che un giorno decidono di giocare a fare le sorelle. In questo caso lo scopo (scelto perché se ne trae immediato piacere) è quello di rendere evidente l’essere sorelle, ed uno dei mezzi con cui viene perseguito é vestirsi e parlare in modo simile.3

Le osservazioni riportate in questo post sono preliminari ad un discorso più completo sul gioco che al momento è in fase di sviluppo. Chi scrive adotta una concezione del gioco sviluppata a partire dalla visione delle neuroscienze affettive, che intendono il gioco come una delle sette emozioni di base. Per altre considerazioni teoriche sul gioco si possono leggere questi post:

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

L’assimilazione nel pensiero di Jean Piaget. In vista del gioco.

“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

1Mardell, B., Wilson, D., Ryan, J., Krechevsky, M., Ertel, K., & Baker, M. (2016). Towards a Pedagogy of Play. Cambridge, MA: Harvard Graduate School of Education.

2La traduzione di Delight con Godimento non è priva di rischi. Ho scelto di impiegare la parola Godimento perché denota il senso di intima partecipazione tipico del gioco (Vedi anche la voce Godimento nel vocabolario Treccani: “Sentimento di soddisfazione e di intima contentezza, che si prova nel possesso, nella partecipazione o nella contemplazione di un bene fisico o spirituale, e più genericam. piacere, diletto”)

3La natura cognitiva del piacere di questo gioco sta nel fatto che la fonte di piacere è il rappresentasi come sorelle. L’episodio citato si trova menzionato in quest’articolo: Vygotsky, L. (1978). The Role of Play in Development (pp. 92-104). In Mind in Society. (Trans. M. Cole). Cambridge, MA: Harvard University Press.