Quando si sente solo e abbandonato l’uomo può scoppiare in pianto. E se nessuno gli risponde, se il pianto si esaurisce senza consolazione, allora può subentrare una forma di quiete molto triste. Una quiete simile ad un ritiro dal mondo ed imparentata con la depressione.
La mancanza delle persone a cui siamo legati può provocare una forma più o meno intensa di dolore psichico. È questo un fenomeno profondo a cui tutti gli uomini sono predisposti. Le neuroscienze affettive lo riconducono a un sistema emotivo fondamentale: la pena della solitudine (in inglese: grief). Si tratta di una modalità del sentire particolarmente intensa nei bambini piccoli, che rimane attiva anche negli individui adulti, benché mediata dalla riflessività, dalla cultura e dall’esperienza personale.
La sofferenza psichica generata dall’isolamento sociale ha una manifestazione particolarmente evidente nel bambino che piange quando si rende conto di essere rimasto da solo senza la mamma. In tale situazione è evidente come il pianto sia un richiamo. Chi piange sta chiamando qualcuno in aiuto.
Il pianto è una reazione immediata ad un’intensa sensazione di solitudine e di mancanza. Se però tale sensazione si prolunga nel tempo, ad un certo punto i tentativi di chiamare le persone che ci stanno a cuore tendono a quietarsi e si entra in una fase di inattività. Si abbassano l’interesse per il mondo ed il coinvolgimento nella situazione in cui ci troviamo. In un certo senso, è come se l’intenso investimento di energie nel pianto si rivelasse improduttivo, e si passasse quindi ad una modalità caratterizzata da attività ridotta, più adatta a preservare le energie corporee.1
Se il dolore psichico della solitudine si presenta in modo particolarmente intenso o continuativo, allora l’abbassamento di interesse per il mondo può tramutarsi in un aspetto cronico della vita mentale, andando ad alimentare il fenomeno della depressione.
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A questa visione suggerita dalle neuroscienze affettive fa riscontro quanto emerge da alcuni studi sul pianto e sulla depressione, secondo i quali il pianto è più tipico delle fasi di depressione lieve, là dove negli stati più intensi di depressione si tende quasi a perdere la capacità di piangere.
Nel parlare di mancanza dei nostri simili, bisogna tener presente che per sentirci vicini alle altre persone non è sufficiente la loro presenza fisica. Ci si può sentire soli anche quando si è in mezzo alle persone. Ciò che da luogo alla vicinanza reale è il verificarsi di una sintonia, ovvero di un incontro. Il momento dell’incontro è forse il fenomeno più direttamente contrapposto alla sensazione della solitudine, ed uno degli effetti del pianto è proprio quello di favorire l’incontro e la comprensione emotiva con la persona che assiste al nostro pianto.
Abbiamo sviluppato più a fondo il tema dell’incontro in questo articolo: “Edward Tronick, le emozioni nei bambini e il momento dell’incontro”.
L’idea che il pianto possa aiutarci a stare meglio è piuttosto diffusa, ma è stata sottoposta a verifica sperimentale soltanto di recente. Sembra che il pianto abbia l’effetto di migliorare l’umore quando si è in presenza di una singola persona con cui si ha confidenza, ma non quando si è da soli o quando si è in presenza di molte persone, specialmente se queste disapprovano il pianto. Quando si prova vergogna di piangere, inoltre, il pianto non aiuta. Piangere aiuta di meno anche in caso di conflitto (quando è presente l’emozione della rabbia) e quando si piange per la sofferenza degli altri. L’efficacia del pianto è minore quando il pianto è meno intenso e quando l’umore è ad un livello generale più basso.2
Una modalità del pianto che può creare problemi di interpretazione è il pianto di gioia. Se il pianto è una forma di richiamo che si manifesta quando ci sentiamo abbandonati, allora perché si piange quando, per esempio, ci ricongiungiamo con una persona dopo una lunga separazione? Due studiosi italiani, Miceli e Castelfranchi, suggeriscono la seguente soluzione.
Quando la persona amata o desiderata non è presente, può succedere che ci impediamo di riflettere sulla sua mancanza per tener lontani il male e la nostalgia. Se poi però accade un ricongiungimento, in tale momento può succedere di vedere meglio quanto eravamo soli nella fase precedente. Le lacrime di gioia deriverebbero quindi da una forma di empatia per il precedente stato di mancanza che potrebbe infine essere riconosciuto. che potrebbe infine essere riconosciuto.3
La tendenza al pianto nelle donne è generalmente considerata maggiore rispetto agli uomini. C’è una pubblicazione molto interessante del 2011 che ha esplorato questa dimensione della personalità con uno studio condotto in 37 nazioni differenti. Le differenze fra cultura e cultura sono notevoli, ma la tendenza al pianto risulta sempre nettamente superiore nelle donne rispetto agli uomini.
Secondo alcuni dei presupposti teorici dello studio citato, nelle società più tradizionali si sarebbe dovuta riscontrare una differenza di genere più marcata fra uomini e donne.4 I risultati ottenuti sembrano però dare indicazioni diverse. Il benessere sociale e materiale appare collegato a una accresciuta predisposizione al pianto nelle donne (più che negli uomini), e dunque ad una maggiore differenza di genere.
Il medesimo studio ha preso in esame anche le componenti psicologiche della personalità, ed è emerso che l’estroversione è generalmente collegata a livelli maggiori di pianto, sia negli uomini sia nelle donne.5 Complessivamente i risultati di questo studio supportano la concezione generale che il pianto sia una forma comunicativa tendente a diventare più frequente col crescere del benessere e dell’espressività.
Una curiosità: fra le 37 nazioni studiate, quella in cui i maschi avevano una maggiore tendenza al pianto era l’Italia, con un valore di 4,46. Seguivano la Turchia (4,04) il Brasile (3,97), il Perù (3,95) e la Germania (3,89).6
Naturalmente bisogna sempre ricordare che questo tipo di studi riguarda il valore medio statistico, e che le differenze personali possono giocare un ruolo notevole.
I risultati dello studio citato sembrano compatibili con l’idea che il pianto sia un tentativo di esprimere (e riparare) il dolore dell’abbandono. Quest’ultimo costituisce un modo estremamente umano di stare al mondo, ed è insieme una debolezza preziosa (perché ci unisce agli altri) e un desiderio estremamente intimo di cui tenere conto.
Come possiamo rapportarci a tale modo del sentire? È probabile che non sia possibile dare una risposta di tipo scientifico a tale domanda, sembra piuttosto necessario compiere una scelta di valori di cui ciascuno deve prendersi la propria responsabilità. Per quanto ci riguarda, noi intravediamo due modi di vivere il mondo fra loro opposti, i quali possono incidere sul modo in cui percepiamo la mancanza di altri esseri umani attorno a noi.
Il primo consiste nel pensare che gli uomini vivano anzitutto in un mondo fatto di cose materiali. Ed il mondo, in tal caso, si trasforma velocemente in un deserto. Le cose materiali, se prese a misura del mondo, ci dividono facilmente uno dall’altro e creano una sorta di insoddisfazione cronica del nostro bisogno innato di socialità.
Un approccio alternativo è abituarsi a pensare che noi viviamo anzitutto in un mondo di persone, di emozioni e di desideri. E le cose, allora, finiscono per essere soltanto una traccia degli uomini che le hanno rese possibili. Tutto, intorno a noi, inizia a parlarci di ciò che fanno gli uomini e di ciò che desiderano gli uomini. È come se anche le cose avessero una voce; e allora l’uomo non è più solo.
C’è un verso latino che porta con sé un frammento di questa sensibilità. “V’è nelle cose un pianto”, diceva Virgilio.7
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Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico.
BIBLIOGRAFIA
Baker, Marc. “Recent advances in the crying literature.” PsyPAG Quarterly 107 (2018): 15-19.
Bylsma, Lauren M., et al. “When and for whom does crying improve mood? A daily diary study of 1004 crying episodes.” Journal of Research in Personality 45.4 (2011): 385-392.
Miceli, Maria, and Cristiano Castelfranchi. “Crying: Discussing its basic reasons and uses.” New ideas in Psychology 21.3 (2003): 247-273.
Panksepp, Jaak, and Lucy Biven. The archaeology of mind: neuroevolutionary origins of human emotions (Norton series on interpersonal neurobiology). WW Norton & Company, 2012.
Van Hemert, Dianne A., Fons JR van de Vijver, and Ad JJM Vingerhoets. “Culture and crying: Prevalences and gender differences.” Cross-Cultural Research 45.4 (2011): 399-431.
Vingerhoets, Ad JJM, et al. “Is there a relationship between depression and crying? A review.” Acta Psychiatrica Scandinavica 115.5 (2007): 340-351.
1“…dopo un periodo di intenso stress da separazione con proteste vocali , indicative di un iniziale risposta di panico, che aiuta i genitori a rintracciare la prole perduta, potrebbe essere adattivo regredire in uno stato di afflizione comportamentalmente inibita o in una fase di infelicità in modo da conservare le risorse corporee.”
Panksepp e Biven 2012, p. 339.
2Bylsma et 0l 2011, p. 390-391.
3“A nostro avviso, uno speciale tipo di impotenza (helplessness) è implicata nel pianto di gioia. Si tratta, per cosí dire, della memoria della propria (o della vittima) impotenza, o, più esattamente, di una ricostruzione retrospettiva delle passate vicissitudini in termini di impotenza.”
Miceli e Castelfranchi 2003, p. 257.
4“…il modello del ruolo sociale (…) predirebbe che le le differenze di genere dovrebbero essere maggiori in società più tradizionali in opposizione alle culture moderne anziché la situazione opposta.” (van Hemert 2011, p. 422.
5Si tenga presente che nello studio citato erano presenti due distinte misure di estroversione (EPQ e BIG FIVE). Di queste, quella più legata al pianto (BIG FIVE) era quella collegata al comportamento assertivo (e quindi all’espressività), anziché quella collegata all’essere amichevole e socievole.
Vedi van Hemert et al. 2011, p. 415-417.
6Fra le donne i valori più alti sono stati riscontrati in Svezia (6,96) Brasile (6,88), Germania (6,61), Spagna (6,59). Per le donne italiane è stato riscontrato un valore di 6,25.
7Il verso originale è “sunt lacrimae rerum”. La traduzione, piuttosto libera, compariva in un libro di storia di cui non siamo riusciti a rintracciare il titolo.