DA “ON INTELLIGENCE” DI HAWKINS: LA PREVISIONE CONTINUA

Riporto qui uno dei concetti che mi hanno ispirato leggendo On Intelligence di Jeff Hawkins. Come suggerisce il titolo, è un libro che si occupa della struttura dell’intelligenza.

L’attività fondamentale del cervello è completare degli schemi incompiuti. Lo facciamo ad esempio con le immagini, con le melodie, con le sequenze di comportamento e con le frasi. A partire da alcuni dettagli ricostruiamo intuitivamente l’intera figura, così come a partire dalle note iniziali di una canzone che conosciamo ci immaginiamo la parte successiva.

Di più: viviamo costantemente in una sorta di previsione del futuro basata sulla riproposizione di strutture distillate dall’esperienza passata. Tale attività di previsione si mantiene sullo sfondo come una sorta di ronzio automatico, fino a che non accade qualcosa di nuovo; ad esempio fino a che non notiamo che sul tavolo della stanza in cui ci troviamo c’è una tazzina di caffè blu. Allora la novità “rompe” la previsione e ci costringe a ritornare in pieno contatto con il presente per esaminarlo.

Non posso fare a meno di ricordare Nietzsche quando diceva che siamo molto più artisti di quanto crediamo.

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OBIEZIONE: “Potresti anche dire che l’intelligenza non fa altro che riproporre il passato: quindi siamo orientati dal passato e siamo meno artisti di quanto crediamo.”(1)

RISPOSTA: LA CREATIVITÀ STA NELL’INPUT?

Tutto sta a capire che aspetto del pensiero vuoi mettere in maggior luce. Se vuoi far notare come la percezione sia più un creare all’interno del pensiero che non un copiare dal mondo esterno, allora puoi dire che siamo artisti. Se vuoi evidenziare come la fonte della creatività sia il passato e che non ci troviamo mai di fronte ad una “vera creazione dal nulla”, allora sì, forse possiamo considerarci meno artisti. Ma ti faccio notare che il passato per essere impiegato e riproposto deve subire un’elaborazione mica da ridere, anzi, forse la creatività può essere localizzata proprio nei modi in cui immagazziniamo l’esperienza passata negli scaffali della mente.

 

OBIEZIONE: “L’intelligenza è passatista: la parte strutturalmente orientata al futuro è la volontà.”(1)

RISPOSTA: FRA FUTURO E PASSATO, LA VOLONTÀ COME INTELLIGENZA MODIFICATA?

Per quanto riguarda la volontà, io ho la tendenza a non vederla nettamente scissa dall’intelligenza. E mi viene da pensare che, se l’attività intelligente è una riproposizione di schemi distillati dal passato, la volontà possa essere intesa come un’intelligenza modificata. Nel senso che variando alcuni parametri nel processo ri-propositivo del passato si finisce per creare una rappresentazione che si discosta in modo più netto dalla realtà presente. Si producono così effetti qualitativamente differenti rispetto ad una rappresentazione sostanzialmente corretta che si discosta dal reale soltanto in una zona circoscritta (quella dove si è verificata la novità).

(1) Adattata dal newsgroup it.cultura.filosofia.moderato

 

 

 

L’occhio

L'occhio

L’occhio, la parte più mobile e sfuggente del corpo.

L’occhio è la porta attraverso la quale il mondo entra nello spirito. Noi guardiamo troppo: bisogna dare soltanto gli sguardi che servono, quelli che salvano le parti del mondo di cui ci vogliamo ricordare. Quello che non vale la pena salvare, quello non va guardato.

 

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La Maschera

La Maschera

La Maschera

Il senso della maschera sta nel poter impiegare la sensazione dei muscoli facciali come struttura stabile attorno alla quale organizzare le onde mutevoli del pensiero. Sia nella dimensione sociale sia da soli, in compagnia di se stessi.

 

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IL GOVERNO LETTA? GRILLO CI SPERA…

I cinque stelle stavano perdendo punti per l’incapacità di compiere un discorso propositivo valido, ma la mossa di Rodotà è stata abile e ha consentito loro di recuperare dei punti. Adesso l’insediamento di un governo Letta dichiaratamente sostenuto da PD e PDL sarebbe per Grillo e Casaleggio un evento fortunato: li toglierebbe dall’impaccio di dover assumere un ruolo attivo e li collocherebbe nei panni degli oppositori in cui si trovano tanto bene. Senza contare che la crisi non si attenuerà minimamente nel futuro immediato, e sappiamo che nei momenti di difficoltà reale le forze d’opposizione guadagnano voti. La lega di Maroni non è più la lega di Bossi(1), e Vendola ha il problema di dover fare qualcosa di simile a Grillo ma senza dare l’impressione di seguirlo. Ne segue che i frutti politici della crisi sembrano destinati ad essere raccolti dai cinque stelle, sempre ipotizzando un governo Letta durevole.
Complessivamente il giocatore migliore in campo (che si faccia o meno il governo Letta) si è rivelato essere Berlusconi, perché il consenso recuperato se l’è guadagnato lui combattendo sul campo, mentre il successo di Grillo è dovuto in parte non trascurabile alle circostanze(2). Grillo (o chi lo consiglia) deve ancora dimostrare quello che vale(3). Renzi invece sarà anche bravo, ma l’accostamento che è stato fatto fra lui e Berlusconi è improprio e finisce per rivelare i limiti del sindaco di Firenze, che non ha spazio di manovra autonoma al di fuori del partito da cui proviene, a cui non può ordinare cosa fare. Il grande perdente, lo sanno tutti, è il PD. Perché pur essendo l’entità politica più programmaticamente devota allo straniero è quella che è riuscita a trarre meno vantaggio dalla debolezza del contesto interno.

 

(1) Campagne giudiziarie a parte, il Bossi di una volta saprebbe prendere Grillo di petto mettendone in luce i punti deboli più di quello che non sanno o non possono fare i leader oggi in campo.
(2) La forza della crisi
(3) Per quanto riguarda la posizione di Grillo sul 25 Aprile, la trovo consona al ruolo storico che fino ad ora è lecito attribuire ai cinque stelle: attirare le forze di protesta in un rumore privo di identità, dimentico della storia. Staremo a vedere se nel corpo del movimento si formeranno delle linee di pensiero dotate di maggiore coscienza storica; e soprattutto vedremo come G&C le gestiranno.

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IL GRILLO STUDENTE

Il sondaggio con cui il movimento 5 stelle ha proposto dei nomi per il Quirinale obbliga a una mossa scomoda PD e PDL. Accettare la proposta di Grillo significherebbe concedergli una grande vittoria. Rifiutandola però il consenso dell’establishment non ne guadagnerebbe, in particolare per la modalità “democratica” della scelta dei nomi. Quanto velocemente Grillo sta imparando a fare politica? Al di là di quello che è stato il movimento 5 stelle prima delle elezioni, è utile chiedersi cosa diventerà, perché ormai si tratta di una presenza parlamentare consistente destinata ad avere delle conseguenze. Quali leggi voteranno? A quali parti reali del paese si accosteranno? Grillo e Casaleggio hanno la stoffa per cavalcare il consenso così come hanno saputo fare per tanto tempo Bossi e Berlusconi? E dunque: sapranno anche loro prendere per il naso l’incapacità strategica cronica della sinistra italiana?

 

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DANCING ATTITUDE FASE 1: IL PRIMO SLOGAN

In attesa dell’apertura del nuovo sito sulle mie ispirazioni danzanti, dancingattitude.com, pubblico qui il primo slogan sulla danza:

“Vuoi una rivoluzione?
Non ascoltare i politici,
ascolta il tuo corpo: danza!”

Vuoi una rivoluzione? Danza!

Vuoi una rivoluzione?
Non ascoltare i politici,
ascolta il tuo corpo: danza!

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JACQUES MONOD: IL CASO E LA NECESSITÀ

RIFLESSIONI SUI CONCETTI PRINCIPALI DEL LIBRO DI JACQUES MONOD: IL CASO E LA NECESSITÀ.[1]

LE TRE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEI VIVENTI
LA DIFFERENZA FRA TELEONOMIA ED INVARIANZA
LA STRUTTURA DELLE PROTEINE
IL CASO
LA NECESSITÀ NEL DISCORSO SELEZIONISTA
IL BISOGNO DI SPIEGAZIONI
IL CONFLITTO FRA LA SCIENZA E LE SPIEGAZIONI
CONCLUSIONI: VERITÀ O VOLONTÀ?
NOTA BIOGRAFICA

LE TRE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEI VIVENTI

Jacques Monod - foto

Jacques Monod

Jacques Monod inizia questo libro proponendosi di stabilire come distinguere gli oggetti naturali dagli oggetti artificiali prodotti da una creatura intelligente. Inizialmente prende in considerazione la regolarità e la ripetizione come proprietà tipiche degli oggetti artificiali, ma finisce per constatare che questi criteri strutturali non sono adeguati allo scopo, in quanto presenti anche negli esseri viventi (i quali sono considerati come oggetti naturali), oltre che nei cristalli e nei prodotti di alcuni animali, come ad esempio i favi delle api.

Successivamente Monod sposta l’attenzione sulla definizione di alcune proprietà di carattere diacronico[2] che consentono di individuare in modo oggettivo gli esseri viventi. La prima caratteristica fondamentale dei viventi, a cui viene dato il nome di teleonomia,[3] è che sono oggetti dotati di un progetto. Questa proprietà non è però sufficiente da sola a distinguere gli esseri viventi dagli oggetti artificiali, in quanto anche questi ultimi sono dotati di un progetto.
Il passaggio successivo consiste nell’osservare che, mentre la costruzione degli oggetti artificiali avviene principalmente per mezzo dell’azione di agenti esterni, gli esseri viventi si costruiscono da sé. Questa proprietà viene chiamata morfogenesi autonoma.[4]
La terza caratteristica degli esseri viventi è costituita dal “potere di riprodurre e di trasmettere l’informazione corrispondente alla loro struttura”[5] e viene denominata riproduzione invariante, o semplicemente invarianza. Essa si riferisce chiaramente al DNA che i viventi si tramandano di generazione in generazione.

LA DIFFERENZA FRA TELEONOMIA ED INVARIANZA

Riflettendoci, viene la tentazione di considerare la teleonomia come un sottinteso dell’invarianza e di ritenere il progetto teleonomico equivalente all’informazione trasmessa col DNA, la quale è denominata “contenuto di invarianza”.[6] Ma quando si parla di teleonomia il progetto che ha in mente Monod non è il codice sorgente del DNA, bensì il fatto che le varie parti del corpo sono strutturate in funzione di uno scopo: le gambe sono costruite per camminare, le ali per volare, e l’occhio per captare immagini.[7] Con il concetto di progetto teleonomico ci si riferisce all’insieme delle prestazioni tipiche del vivente compiuto, “che si possono considerare come aspetti o frammenti di un unico progetto primitivo, cioè la conservazione e la moltiplicazione della specie.”[8]

Per rimarcare la differenza fra questi due concetti, Monod porta ad esempio il confronto fra l’uomo ed il topo: per quanto riguarda l’invarianza notiamo che il DNA di questi due esseri viventi ha dimensioni e contenuto molto simili, mentre per quanto riguarda l’aspetto teleonomico osserviamo che molte prestazioni dell’uomo sono inesistenti nel topo, e si pongono su di un livello qualitativo completamente differente. Il fatto che il topo e l’uomo abbiano un contenuto di invarianza molto simile ma prestazioni teleonomiche molto differenti indica che l’invarianza e la teleonomia costituiscono due caratteristiche ben distinte.

A questa osservazione di Monod si potrebbe obiettare che l’insieme delle prestazioni teleonomiche del vivente è già dettagliatamente descritta nel codice sorgente del DNA, e che dunque anche la differenza fra le prestazioni deve per forza di cose essere già inclusa nel DNA.[9] Se guardando l’uomo ed il topo vediamo due DNA molto simili e due corpi dalle prestazioni molto differenti, forse è per via del fatto che non siamo in grado di apprezzare a sufficienza la portata delle differenze presenti nel DNA umano rispetto al topo, o forse perché sovrastimiamo la differenza fra l’uomo ed il topo, che si ridimensiona se li mettiamo entrambi a paragone con il mondo inorganico.

Ciò che è evidente è che esiste una trasformazione esatta la quale dal DNA conduce al corpo, e che nel corso di questa trasformazione certe differenze vengono amplificate, almeno dal punto di vista della capacità osservativa umana. Non disponiamo ancora di un linguaggio formale per descrivere significativamente il DNA, l’insieme delle prestazioni del corpo e la trasformazione che li lega, ma in una certa misura possiamo considerare il progetto teleonomico come il risultato di una trasformazione che ha come input il contenuto di invarianza del DNA. Ciò sembrerebbe richiedere un ulteriore esame per esplicitare meglio le relazioni fra questi due concetti che possono essere considerati distinti ma non indipendenti.

Un altro argomento che Monod utilizza per sostenere la distinzione fra invarianza e teleonomia è che tale distinzione corrisponde a quella fra le due classi principali di macromolecole presenti nelle cellule. Infatti l’invarianza si realizza per mezzo degli acidi nucleici che compongono il DNA,[10] mentre la realizzazione delle strutture corporee che consentono le prestazioni del progetto teleonomico avviene per mezzo delle proteine.[11]

LA STRUTTURA DELLE PROTEINE

Esistono proteine filamentose e proteine globulari. Queste ultime sono le più importanti per il funzionamento dell’organismo, e sono costituite da una catena di amminoacidi che si ripiega spontaneamente su sé stessa a formare un gomitolo dalla struttura molto precisa.[12]

I legami fra gli atomi si dividono in legami covalenti e legami non covalenti. I primi sono quelli in cui due atomi mettono in comune un elettrone che con i suoi percorsi li avvolge entrambi, mentre i secondi sono quelli dove ogni elettrone rimane a percorrere orbite limitate al proprio atomo. Il legame non covalente è molto più debole di quello covalente, di circa dieci volte;[13] per via di tale debolezza, il legame non covalente può sussistere solo quando gli atomi che si legano si trovano ad una distanza molto bassa.
I legami covalenti sono quelli che tengono insieme gli anelli della proteina, mentre i legami non covalenti sono quelli disposti “lungo il bordo della catena proteica”; sono questi ultimi quelli che determinano il modo esatto in cui la proteina si ripiega.

Immaginatevi ora la superficie di una proteina una volta che si è ripiegata nella sua forma definitiva. Su tale superficie, ricca di creste e avvallamenti, ci sono atomi predisposti a formare legami non covalenti, ma perché questo accada sarà necessario che la proteina incontri un’altra proteina con una superficie combaciante con la propria, in modo che gli atomi sul fondo delle proprie valli possano essere vicini agli atomi che si trovano sulle creste dell’altra proteina, e viceversa.

La debolezze dei legami non covalenti fa sì che due proteine riescano a legarsi solo quando le loro superfici si accoppiano in modo preciso, e le rende così capaci di riconoscersi in base alla forma. Possiamo esprimere questo concetto dicendo che le proteine hanno un comportamento stereospecifico.[14]

La conseguenza è che all’interno di un ambiente in cui sono presenti miriadi di composti chimici è possibile che una proteina formi dei legami soltanto con certe altre proteine di tipo ben preciso. Ciò rende fattibile la coesistenza di innumerevoli processi chimici fra loro indipendenti, il che è un presupposto importante per l’esistenza di una cellula altamente organizzata.

jacques monod - il caso e la necessità

jacques monod – il caso e la necessità

IL CASO

Dopo aver dedicato ampio spazio alle notevoli caratteristiche delle proteine, Monod ci fa notare che la sequenza degli amminoacidi che formano una proteina è del tutto casuale, nel senso che “conoscendo esattamente l’ordine di centonovantanove residui in una proteina che ne comprende duecento, è impossibile formulare una regola, teorica o empirica, che consenta di prevedere la natura del solo residuo non ancora identificato.”[15]

Le mutazioni che nel corso del tempo hanno portato il DNA di ogni specie allo stato attuale sono essenzialmente casuali, sia perché derivano dal confluire di avvenimenti molecolari tra loro indipendenti, sia perché la mutazione è un avvenimento dai caratteri quantistici e quindi è intrinsecamente imprevedibile per via del principio di indeterminazione.[16] [17]

Nella concezione di Monod il ruolo del caso è molto rilevante non solo per quanto riguarda la formazione del DNA e quindi delle proteine in esso codificate, ma anche per quanto riguarda l’origine della vita e l’esistenza stessa della biosfera: “Secondo la tesi che presenterò qui, la biosfera non contiene una classe prevedibile di oggetti o di fenomeni, ma costituisce un evento particolare, certamente compatibile con i primi principi, ma non deducibile da essi e quindi essenzialmente imprevedibile.”[18] [19]

LA NECESSITÀ NEL DISCORSO SELEZIONISTA

Tutto il ragionamente di Jacques Monod è inscritto in una concezione selezionista: “…si tratta dell’idea darwiniana che la comparsa, l’evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della propria invarianza, e quindi capace di conservare il caso e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.”[20] [21]
Il termine necessità assume una funzione precisa nel discorso selezionista di Monod là dove viene riferito alla raffinata e precisa organizzazione a livello molecolare destinata a garantire la riproduzione di un’informazione genetica identica all’originale. Potremmo dire che tale necessità, riproducendo per sempre ciò che è avvenuto una volta per caso, è il mezzo grazie al quale il caso diviene la sorgente da cui si possono sviluppare strutture altamente organizzate come i viventi.[22]

Monod specifica come la giusta interpretazione del selezionismo non sia quella di una lotta per la vita; la normale azione del selezionismo non è tanto l’eliminazione dei più deboli, quanto la promozione degli individui che all’interno della specie si riproducono maggiormente.[23] [24] Per quanto riguarda l’uomo però, a partire da quando si è raggiunto un livello di evoluzione tale da dominare l’ambiente circostante, si è creato il presupposto per la lotta fra gruppi distinti all’interno della specie: la guerra.[25]

Un’altra precisazione di Monod è che la selezione non proviene soltanto dall’ambiente esterno, ma è fortemente condizionata anche dalle precedenti scelte evolutive della specie oltre che dalle sue strutture e prestazioni specifiche.[26] In particolare, la notevole autonomia dell’uomo rispetto all’ambiente ha fatto sì che nel suo caso il comportamento orientasse la selezione più che negli altri esseri viventi.

jacques monod - citazione

jacques monod – citazione

IL BISOGNO DI SPIEGAZIONI

Monod osserva che per un tempo lunghissimo dell’evoluzione umana la forte integrazione nel gruppo sociale è stata un carattere premiante, e che quindi ci deve essere stata una selezione in grado di promuovere la coesione sociale. Monod è convinto che ci siano dei caratteri genetici che determinano l’angoscia esistenziale, la quale costringe l’uomo a cercare il significato dell’esistenza creando miti e storie. Questi si pongono a fondamento della legge che garantisce il funzionamento e l’unità del corpo sociale. “Come spiegare”, altrimenti, “l’universalità nella nostra specie del fenomeno religioso su cui si basa la struttura sociale?”.

A questa dinamica sarebbero riconducibili tutte quelle visioni del mondo che Monod cataloga come animistiche, le quali spiegano l’intero percorso evolutivo del cosmo riconducendolo a un progetto complessivo in cui l’uomo ha un posto d’onore. In questa categoria troviamo “tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, che sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza.”[27] In quest’ottica, un’attenzione particolare è data da Monod al materialismo dialettico,[28] che viene riassunto all’incirca nei termini che seguono.[29]

Secondo il materialismo dialettico c’è un solo principio che governa l’evoluzione del mondo intero, che si tratti della materia o dello spirito. Dunque, visto che lo spirito è accessibile alla nostra introspezione, noi possiamo osservare come esso si comporta e poi dire che il mondo si comporta allo stesso modo.[30] Kant, in precedenza, ha ritenuto di dover compiere un’analisi dello strumento con cui l’uomo indaga il mondo: la ragione. Ciò però non va d’accordo con il materialismo dialettico, secondo il quale lo spirito è intimamente connesso al mondo materiale: l’analisi di Kant implica che la ragione abbia dei limiti e che essa non sia “lo specchio perfetto”[31] di ciò che accade nel mondo.
L’idea di un’analisi della ragione si accorda invece con l’esistenza di un sistema nervoso che elabora i dati dei sensi prima di presentarli alla mente. Monod sottolinea che inizialmente l’idea di una critica della ragione era stata propria solo dei filosofi, mentre in seguito questa esigenza iniziò ad essere sentita anche dagli uomini di scienza, nella fase immediatamente precedente l’avvento della teoria della relatività e della meccanica quantistica.

IL CONFLITTO FRA LA SCIENZA E LE SPIEGAZIONI

Il fondamento della scienza, secondo Monod, è il principio di oggettività, che viene fatto risalire a Galileo e Cartesio e coincide con l’assenza di un progetto che governa il divenire del mondo materiale e degli esseri viventi.[32] [33] Questo fa sì che la scienza non possa accettare le storie che raccontano il divenire del cosmo riconducendolo ad un progetto universale assegnando un posto di rilievo agli esseri viventi e all’uomo in particolare.

Alla sua comparsa l’evoluzionismo lasciava una possibilità di mantenere una visione antropocentrica nel pensare l’uomo come erede ultimo e necessario del processo evolutivo, ma a partire dalla seconda metà del novecento questo non sarebbe più possibile, in quanto una ipotetica teoria universale potrebbe prevedere la possibilità degli esseri viventi ma non la loro necessità.

Il problema centrale che oggi ci troviamo di fronte è che la scienza su cui la nostra società è basata entra in conflitto con i nostri sistemi di valori, nel senso che distrugge le storie[34] che li giustificano:
“È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente, poiché essa non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, dagli aborigeni australiani ai dialettici materialistici, ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni.”[35]

Si evidenzia dunque una netta distinzione fra il discorso dei valori, l’etica, e il discorso della conoscenza. Noi perseguiamo dei valori il cui fondamento è negato dai tratti distintivi di una conoscenza di cui non possiamo fare a meno. Con queste premesse si possono impostare dei discorsi autentici soltanto tenendo chiara ed esplicita la distinzione fra il campo dell’etica e quello della conoscenza.[36]
Per eliminare alla radice il problema, Monod propone di adottare un’etica che ponga il raggiungimento della conoscenza oggettiva come obiettivo ultimo: “Essa impone istituzioni votate alla difesa, all’ampliamento, all’arricchimento del Regno trascendente delle idee, della conoscenza, della creazione.”[37]
Dando uno sguardo utopico verso il futuro, trovo possibile intravedere un progresso in cui, una volta risolte le necessità più stringenti del corpo, il sapere diventi il cibo più raffinato con cui formare lo spirito, ma personalmente non condivido l’idea di un’etica della conoscenza così come è stata impostata da Monod. Benché l’acquisizione del sapere sia un importante momento di formazione dello spirito, il sapere mantiene anche una ineliminabile dimensione strumentale, e mi risulta difficile porlo come unico fondamento di un’etica.[38]

CONCLUSIONI: VERITÀ O VOLONTÀ?

Questo libro è un discorso che ruota attorno alla natura degli esseri viventi: prende in esame le loro caratteristiche distintive ed il processo selezionista da cui si sono originati. Tale processo è caratterizzato dall’azione congiunta del caso e della necessità che Monod mette in luce con un esame dettagliato delle strutture cellulari fondamentali: le proteine globulari e il sistema del DNA.
L’esame degli esseri viventi viene condotto sottolineando il rispetto del metodo scientifico, il quale presuppone l’assenza di un disegno predefinito che governa l’evoluzione del cosmo. Il metodo scientifico stesso diviene oggetto del discorso là dove se ne prende in esame la compatibilità con le credenze dell’uomo, le quali sono da considerarsi influenzate dalla storia evolutiva dell’uomo stesso.

Monod ha uno stile scorrevole e fornisce informazioni scientifiche e interpretazioni di grande interesse, ma forse la sua argomentazione non è abbastanza precisa e puntuale per poter dire che abbia sviluppato una teoria solida come sarebbe stato lecito aspettarsi.

Personalmente mi trovo d’accordo con Jacques Monod là dove critica i facili antropocentrismi promossi dal marketing popolare delle concezioni animistiche che garantiscono l’illusione di un paradiso in cambio di una mano alzata, ma penso che l’alternativa non stia tanto nella ricerca della verità (a cui l’etica della conoscenza di Monod assomiglia molto), quanto nell’esercizio della volontà.

Se mettiamo la conoscenza oggettiva dinanzi a tutto, non è difficile immaginarsi creature naturali o artificiali in grado di soppiantare l’uomo. Il regno della conoscenza oggettiva non offre garanzie per la creatura uomo,[39] e ci rendiamo conto che se vogliamo un umanesimo dobbiamo costruircelo. L’umanesimo non è gratis, e l’uomo non può semplicemente credere nell’uomo: l’uomo deve volere l’uomo.[40]

NOTA BIOGRAFICA

Jacques Monod

Jacques Monod nasce a Parigi nel 1910 da una famiglia protestante. Il padre è ammiratore di Darwin e appassionato di musica. A metà degli anni trenta passa un anno al California Institute of Technology di Pasadena. Al ritorno ha la tentazione di fare il musicista per professione, ma alla fine sceglie di essere biologo. Nel corso della II guerra mondiale partecipa alla resistenza contro i tedeschi. Dal 1953 è capo laboratorio all’Institut Pasteur. Nel 1965 raggiunge la popolarità grazie al Nobel per la medicina per le ricerche sulla regolazione cellulare. Nel 1970 pubblica “il caso e la necessità”. Muore nel 1976, 4 anni dopo la moglie.

 

 

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  1. [1]Monod, J. (1997) Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano, Mondadori, Oscar classici moderni. Titolo originale: Le hasard et la nécessité, 1970.
    Dove non è indicato diversamente, i riferimenti di pagina nelle note seguenti sono riferiti a quest’opera.
  2. [2]Questo aggettivo non è utilizzato da Monod.
  3. [3]Dal greco télos che significa scopo, e nomia, che indica governo: la teleonomia indica un organizzazione mirata allo scopo. Il termine teleonomia fu introdotto da Colin Pittendrigh nel 1958* per rendere disponibile un termine per indicare che un sistema è organizzato in modo da favorire il raggiungimento di un obiettivo, ma senza che tale obiettivo possa essere considerato la causa che ha dato origine all’organizzazione del sistema.
    La questione presenta delle sfumature più complesse di quanto non sembrerebbe a prima vista; Pittendrigh aveva proposto la parola teleonomia in opposizione alla teleologia di Aristotele, ma secondo Mayr** questa non è un’impostazione del tutto corretta.
    * Pittendrigh, C. S. (1958) Adaptation, Natural Selection and Behavior, in Behavior and Evolution, ed. Roe, a. Simpson, G. G. New Haven, Yale University Press, pp. 390–416; p. 394
    ** Mayr, E. (1965) Cause and Effect in Biology, in Lerner, D. Cause and effect. New York, Free Press, pp. 33–50
  4. [4]Morfogenesi: dal greco morphé=forma. In senso lato è il processo da cui si genera la forma. In embriologia è “l’insieme dei processi che portano al differenziamento dei tessuti e degli organi da elementi indifferenziati” (Enciclopedia Treccani)
  5. [5]Pag. 17
  6. [6]Pag. 18
  7. [7]“… sarebbe arbitrario e sterile voler negare che […] l’occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini)” Pag. 14
  8. [8]Pag. 19
  9. [9]Potremmo forse più correttamente dire: “nel sistema DNA-cellula”, in modo da tener conto che il DNA è significativo solo se associato al proprio sistema di conversione in proteine.
  10. [10]Andrebbe però notato che l’invarianza può aver luogo solo in un processo dove la partecipazione delle proteine è indispensabile. Si potrebbe forse dire che ad essere strettamente legata agli acidi nucleici non è tanto l’invarianza, quanto il contenuto di invarianza.
  11. [11]C’è un ulteriore argomento che Monod porta in favore della distinzione fra invarianza e teleonomia: “Oggetti capaci di riproduzione invariante, ma sprovvisti di qualsiasi apparato teleonomico sono perlomeno concepibili: le strutture cristalline ne sono un esempio” (Pag. 21). Ma il fatto che i cristalli siano sprovvisti di qualsiasi apparato teleonomico è opinabile; è possibile infatti considerare la semplice sussistenza del corpo cristallino come una funzione teleonomica elementare, in quanto influenza la crescita del cristallo (e là dove non la influenza, allora l’informazione della struttura cristallina non può essere considerata come riprodotta, e dunque non c’è riproduzione invariante),
    D’altronde, dopo aver definito “l’unico progetto primitivo” come “la conservazione e la moltiplicazione della specie”(Pag. 19)*, affinché ci sia invarianza riproduttiva senza teleonomia serve che l’informazione corrispondente alla struttura venga riprodotta inizialmente senza poi dar luogo a nessun nuovo corpo, nemmeno alla semplice ulteriore copia di sé, altrimenti la prima copia dell’informazione potrebbe essere considerata il mezzo per giungere alla seconda e assumerebbe così una funzione teleonomica.
    Forse sarebbe meglio considerare come esempio, al posto del cristallo, una cellula rotta la quale non fa altro che riprodurre il proprio DNA mandandolo all’esterno; in questo modo potremmo dire che la cellula non ha funzione teleonomica perché la sua attività non porta alla creazione di altre cellule. L’importante in questo caso è però che il DNA rimanga considerabile come informazione della struttura cellulare pur non disponendo più della possibilità effettiva di essere proiettato in una nuova struttura cellulare. Ciò sembra collegato al modo in cui definiamo il concetto di informazione.
    *Dopo aver parlato dell’”unico progetto primitivo”, Monod riformula il progetto teleonomico essenziale come “la trasmissione da una generazione all’altra del contenuto di invarianza caratteristico della specie” (Pag. 19). In questo modo il concetto di teleonomia si sposta ulteriormente verso quello di invarianza.
  12. [12]Monod sottolinea che nel DNA è scritta la sequenza degli amminoacidi, mentre il modo in cui avviene il ripiegamento è una conseguenza automatica di tale sequenza e dell’ambiente in cui avvengono le reazioni.
  13. [13]“Con una certa semplificazione e precisando che si considerano qui solo reazioni in fase acquosa, si può ammettere che l’energia assorbita o liberata, in media, da una reazione in cui compaiono legami covalenti è dell’ordine di 5-20 kcal (per legame). In una reazione in cui compaiono solo legami non covalenti l’energia media varierebbe da 1 a 2 kcal.” Pag. 54
  14. [14]Stereospecifico: dal greco stereo che indica tridimensionalità. Si ricollega al fatto che i legami chimici in questione si formano in base alla configurazione tridimensionale delle proteine.
  15. [15]Pag. 90
  16. [16]Il principio di indeterminazione implica l’impossibilità di conoscere in modo completo lo stato in cui si trovano le particelle elementari, e di conseguenza rende impossibile prevedere in modo esatto la loro evoluzione.
  17. [17]Non sono un esperto della materia, ma mi risulta che, nonostante le mutazioni casuali rimangano il paradigma di riferimento per l’origine del DNA, non sia più possibile considerare come completamente casuali le sequenze di amminoacidi nelle proteine. Per approfondire:
    http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3296660/?tool=pubmed Tiessen, A. e Pérez-Rodriguez, P. e Delaye-Arredondo, L.J. (2012) Mathematical modeling and comparison of protein size distribution in different plant, animal, fungal and microbial species reveals a negative correlation between protein size and protein number, thus providing insight into the evolution of proteomes
  18. [18]Pag. 44
  19. [19]A riguardo dell’origine della vita, bisogna notare che Monod prendeva come punto di riferimento un primo essere vivente equivalente ad una cellula dotata già del DNA e del relativo sistema di traduzione costituito di proteine, come negli esseri viventi odierni. Ma a seguito di alcune scoperte, a partire dai primi anni ottanta ha preso sempre più consistenza l’ipotesi di un RNA-world iniziale in cui sia il codice genetico che il meccanismo di traduzione erano costituiti da strutture simili all’attuale RNA (che garantisce una minore fedeltà nel riprodurre l’informazione). Dunque nei primissimi viventi sarebbe stata assente la dicotomia fra acidi nucleici e proteine. Per approfondire:
    http://www.arn.org/docs/odesign/od171/rnaworld171.htm Mills, G.C. e Kenyon D. (1996) The RNA world: a Critique.
    http://www.ploscompbiol.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pcbi.1002024 Takeuchi, N. e Hogeweg, P. e Koonin, E.V. (2011) On the Origin of DNA Genomes: Evolution of the Division of Labor between Template and Catalyst in Model Replicator Systems.
  20. [20]Pag. 26
  21. [21]Per Monod il fatto che l’invarianza sia antecedente alla teleonomia è un punto decisivo* ed è ciò che rende il selezionismo adatto al discorso scientifico. Ma cosa succede se ci chiediamo da dove è originariamente venuta l’invarianza destinata ad accogliere il caso facendone un agente di costruzione? Il fatto di considerare la comparsa dell’invarianza come un eccezionale frutto del caso (l’atteggiamento spesso assunto da Monod) taglia la questione sul nascere, mentre l’individuazione di eventuali passaggi intermedi fra l’assenza del meccanismo di riproduzione invariante e la sua presenza potrebbe forse comportare la necessità di riformulare in modo più sfumato l’affermazione in base alla quale l’invarianza precede la teleonomia. Ad esempio ponendo come punto di partenza un meccanismo invariante più semplice che poi si è evoluto in quello attuale.
    * “…dell’unica ipotesi che la scienza moderna considera accettabile, cioè che l’invarianza precede di necessità la teleonomia.” Pag. 26
  22. [22]“Ancora oggi molte persone d’ingegno non riescono ad accettare e neppure a comprendere come la selezione, da sola, abbia potuto trarre da una fonte di rumore tutte le musiche della biosfera. In effetti, la selezione agisce sui prodotti del caso e non può alimentarsi altrimenti; essa opera però in un campo di necessità rigorose da cui il caso è bandito.” Pag. 110
  23. [23]Pag. 111
  24. [24]La selezione a livello macroscopico avviene comunque soltanto dopo che ogni mutazione ha dovuto sottostare ad una sorta di test d’ingresso che avviene a livello microscopico: “noi abbiamo, della potenza, della complessità e della coerenza della cibernetica intracellulare […] un’idea abbastanza chiara, un tempo sconosciuta, che ci consente di comprendere […] che ogni ‘novità’ sotto forma di alterazione di una struttura proteica, verrà innanzitutto saggiata riguardo la sua compatibilità con l’insieme di un sistema già assoggettato a innumerevoli vincoli che controllano l’esecuzione del progetto dell’organismo.” Pag. 111
  25. [25]Pag. 147
  26. [26]A tal riguardo Monod propone un’ipotesi interessante a riguardo dell’origine dell’intelligenza che distingue l’uomo dagli altri esseri animali. Monod ipotizza che la causa dell’aumento di volume del cervello umano sia stata l’acquisizione del linguaggio. Infatti, senza linguaggio non c’è un grande vantaggio nell’essere più intelligenti, mentre in presenza del linguaggio l’intelligenza maggiore conferisce un vantaggio rilevante. Pagg. 119 e seguenti.
  27. [27]Pag. 44
  28. [28]Monod è attratto dall’idea socialista, ma ritiene che questa debba sganciarsi dalla teoria marxista, verso cui assume una posizione molto critica.
  29. [29]A Monod non interessa una ricostruzione precisa della teoria di Engels e Marx, ma individuare “il significato che di essa rimane nello spirito dei suoi seguaci e che le attribuiscono gli epigoni”. (Pag 37). A maggior ragione il mio brevissimo riassunto non può che essere un’ulteriore semplificazione di tale teoria.
  30. [30]Almeno in una certa misura ciò significa, aggiungo io, negare l’alterità del mondo, la quale è scomoda al pensiero umano, e questo concorda con l’interpretazione del materialismo dialettico come visione consolatoria dell’animo umano.
  31. [31]Pag. 38
  32. [32]Da notare che ciò si pone in contraddizione con il fatto gli esseri viventi sono dotati di un progetto, Monod lo evidenzia (pag. 25), ma non è molto chiaro nell’affrontare la questione. In particolare non distingue in modo preciso fra un progetto chesemplicemente corrisponde alla struttura del divenire ed un progetto perseguito da una volontà attiva; tra una finalità debole ed una finalità forte.
  33. [33]Il postulato di oggettività è un concetto definito da Jacques Monod, e si pone in un ruolo simile al più noto principio di causalità.
  34. [34]“È facile rendersi conto che le ‘spiegazioni’ su cui si fonda la legge, placando così l’angoscia, sono tutte ‘storie’ o più esattamente ontogenie.” Pag. 153.
  35. [35]Pag. 157
  36. [36]Pag. 159
  37. [37]Pag. 163
  38. [38]Sono più prossimo a considerare la conoscenza come un valore derivato: partendo da un’assegnazione di valore allo spirito, il sapere deriva il suo valore dall’essere un arricchimento per lo spirito. E tale valore risulta spostato più verso il processo di acquisizione del sapere da parte dell’uomo (e quindi anche verso la forma in cui il sapere è definito) che verso il processo di accumulo di un sapere fine a sé stesso.
  39. [39]A proposito dell’etica della conoscenza, Monod dice che “essa è anche un umanesimo, poiché rispetta nell’uomo il creatore e il depositario di questa trascendenza”. (Pag. 163) Come si capisce da quanto ho scritto sopra, a me pare che questa garanzia di umanesimo sia piuttosto debole.
  40. [40]Cfr: “Non si può credere nell’uomo. Bisogna volere l’uomo.” Cappello, M. (2011) Aforismi di un futuro, Brescia, Manuel Cappello. Aforisma N°759 pag. 80

HEIDEGGER, LA METAFISICA, L’ESSERCI E L’AZIONE

RIFLESSIONI SU “CHE COS’È METAFISICA?”

“Che cos’è metafisica?”[1] è un breve testo del 1929 in cui Heidegger tocca molti dei temi che saranno tipici del suo pensiero. In esso, allo scopo di mostrare cosa sia la metafisica, si tenta di rispondere alla seguente domanda: “Che ne è del niente?”. Quelle che seguono sono le mie riflessioni al riguardo.[2] I punti 1, 2 e 3 hanno una valenza introduttiva, mentre quelli successivi hanno un contenuto più tecnico.

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?
2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA
3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI
4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE
5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA
6 – IL NIENTIFICARE OSCURO
7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO
8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA
9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER
10 – INTEGRAZIONE

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?

Gli oggetti che ci stanno intorno sono la fisica, “meta” significa oltre, e la metafisica è un discorso che oltrepassa gli oggetti smettendo di guardarli. Noi non vogliamo la metafisica, perché non ci piacciono le astrazioni insipide e gli avvocati del ragionamento. Questi rendono il mondo sbiadito, mentre noi desideriamo stare immersi nel contesto concreto dei corpi delle donne e delle cene con gli amici. Abbiamo un debole per le onde del mare, per le fiamme del fuoco e per il fumo di sigaretta. Dunque Metafisica No, perché noi vogliamo il mondo.
Ma noi non ci accontentiamo di vivere il mondo lasciandolo immutato, come personaggi separati dal paesaggio: noi vogliamo una trasfigurazione. Il lavoro e lo studio producono una conoscenza la quale ci porta oltre la superficie degli oggetti materiali presente ai sensi, verso interpretazioni che si articolano fra concetti ed esperienze. Dunque Metafisica Sì, perché il nostro sguardo rende trasparente il mondo, e lo trasforma in un cielo composto dalle idee e dalle storie che abbiamo visto o vissuto.

A volte c’è una differenza evidente tra la metafisica che indebolisce il mondo e quella che lo trasforma in una situazione vivace di cristalli arcobaleno; altre volte la distinzione è più difficile da individuare. Sembra quest’ultimo il caso della prosa di Heidegger.

2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA

Heidegger scrive in modo simile ad altri tedeschi, che chiudono gli occhi e si lasciano sprofondare in sè stessi, come dentro al mondo misterioso del dio del mare. Scendono dalle acque ancora chiare verso il profondo scuro, e nel corso di questa lenta discesa si guardano in giro e prendono nota minuziosamente di tutti i pesci che vedono da tutti i punti di vista. Ne descrivono il retro in relazione al davanti, commentano le differenze fra il sopra ed il sotto, annotano la posizione dei dettagli rispetto all’insieme. Gli piace di inventarsi nuovi nomi per ogni scorcio caratteristico della fauna o dei fondali. Non so se sono dei buoni scrittori, di certo sarebbero dei buoni fotografi.

Il risultato di questa attività di scrittura è un volume di parole che fa una certa impressione ma che non sembra un prodotto finito; assomiglia piuttosto ad un semilavorato da inviare ad una fase successiva di sfrondamento e riordinamento. Potremmo descrivere questo metodo come una narrativa automatica per elencazione, non creata da un istinto artistico: non c’è una preparazione dei personaggi prima della loro entrata in scena, ma un’esposizione minuziosa dei punti di vista che produce in automatico una massa di concetti fra loro collegati. Se tieni duro mentre leggi, alla fine ne ricavi qualcosa di buono.

Queste mie critiche sono una sorta di caricatura umoristica di alcune difficoltà che non arrivano ad intaccare il valore filosofico di Heidegger, ma che vanno tenute presenti avvicinandosi ai suoi testi. C’è la possibilità che il miglior approccio non sia una scalata faticosa in cui ogni nuovo termine costituisca lo spuntone di roccia da oltrepassare sul percorso che conduce alla vetta. Forse, sarebbe meglio non cominciare con la pretesa di avere ragione di ogni risvolto, ma con un atteggiamento più lieve, simile ad una passeggiata in un campo di fiori, per avere una vista d’insieme del paesaggio senza perdersi troppo nei dettagli. Ci sarà poi tempo per una riflessione che torni sui passi come un agronomo per assaggiare il terreno, come un botanico per prender nota dei fiori e delle erbe, o come un geometra per stendere una mappa del campo.

3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI

Passiamo gran parte della nostra esistenza percorrendo le nostre abitudini senza fare caso ad altro. Persi negli automatismi del pensiero non abbiamo percezione della struttura del mondo. Invece di riflettere sull’essenza degli oggetti li utilizziamo per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissati.

“Esserci” è un termine chiave del pensiero di Heidegger. Potremmo concepirlo come il nocciolo del pensiero cosciente che si ottiene quando si tenta (senza mai riuscirci del tutto) di eliminare dalla mente ogni figura visibile o udibile, ed anche ogni pensiero invisibile. Questo modo di porre in silenzio la mente interrompe i processi abituali del pensiero, e ci costringe a guardare al di fuori degli schemi forniti dall’abitudine, la quale passa oltre i propri contenuti senza soffermarsi sulla loro essenza.

C’è un altro modo in cui l’esserci concorre ad oltrepassare l’automatismo, portandoci ad assaporare l’intimità delle cose: utilizzando un termine inusuale per indicare un’abitudine consolidata si porta la riflessione a soffermarsi su tale abitudine. Impiegando il termine “esserci” per indicare quell’aggregato di abitudini consolidate che è l’individuo, si invita il pensiero ad esplorare i meccanismi della coscienza che solitamente si trovano nei retroscena della mente. L’impiego di un gergo particolare ha l’effetto di portare tali meccanismi alla ribalta. Il linguaggio originale di Heidegger consente di ricreare le scintille della novità, risvegliando l’attenzione per parti del pensiero altrimenti trascurate. D’altra parte l’allontanamento dal linguaggio comune rende i suoi testi accessibili soltanto ad una cerchia ristretta.

4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE

Le parole sono abituate a gestire gli oggetti; di conseguenza, delle parole a riguardo del niente maneggeranno il niente come se fosse un oggetto. Ciò è in contraddizione con la concezione tradizionale del niente inteso come un non-ente, come l’opposto di ogni oggetto. Domandare del niente […] significa tradurre l’oggetto della domanda nel suo contrario.[3] Più in generale, il pensiero stesso è sempre pensiero di qualcosa, e come pensiero del niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza.[4]

Per evitare tale impasse, Heidegger impone che il niente sia più originario della negazione.[5] Di conseguenza considerare il niente come la negazione dell’ente diventa un fatto secondario, e non l’atto fondamentale di definizione del niente. Inserendo il niente in un contesto di parole o nel pensiero, la contraddizione comunque accade; ma essa smette di costituire un’obiezione totale alla possibilità di accedere al niente, possibilità che viene affidata a metodi diversi dal pensiero proteso alla definizione razionale.

5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA

Heidegger utilizza i sentimenti come parte fondamentale del proprio discorso. Io non penso per questo ad una filosofia che diventa meno rigorosa; credo invece che vada modificata la percezione del sentimento, togliendolo dalla nebbia del romantico e considerandolo come funzione della specie umana.[6]

L’angoscia, con l’indeterminatezza che le è propria, è lo stato d’animo che porta l’uomo più vicino alla percezione del nulla. L’esperienza che si prova nell’angoscia è quella degli oggetti che perdono consistenza, ed è in tale occasione che il nucleo più intimo del pensiero ha modo di relazionarsi agli enti come ad un qualcosa di diverso da sè, perché li vede allonanarsi anziché essere perso in essi come capita nel quotidiano. Il niente è tale rinvio verso l’insieme delle cose che si allontanano dall’individuo.[7] In tal senso il niente diventa il presupposto grazie al quale il nocciolo della coscienza percepisce gli enti differenziati da sè stesso.[8]
Il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano. Pag 71[/ref] Se non vedessimo mai gli oggetti del mondo separati da noi stessi, non potremmo costruirci un’idea di noi stessi distinta da un’idea del mondo.

L’angoscia è la situazione in cui l’attività usuale di determinazione degli oggetti mentali è per qualche motivo compromessa; il senso più profondo del niente è la percezione di tale processo nel momento della sua difficoltà, mentre la norma è che esso funzioni come un buon automatismo senza dare nell’occhio.

6 – IL NIENTIFICARE OSCURO

È opportuno soffermarsi sulla terminologia utilizzata nel paragrafo precedente. Heidegger parla di un’attività nientificante del niente: Il niente nientifica ininterrottamente, senza che noi, col sapere in cui quotidianamente ci muoviamo, veniamo veramente a sapere di questo accadere.[9]Questo modo di esprimersi mi pare eccessivamente oscuro. Io preferisco ipotizzare un’attività positiva complementare a tale azione nientificante del niente, chiamandola attività di determinazione continua.[10] Se vi è più chiaro potete pensare ad un processo ininterrotto di costruzione di struttura.

7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO

Tirando le somme, anziché un recupero del niente tradizionale inteso come negazione dell’ente, l’operazione di Heidegger sembra una ridefinizione del significato del niente, che forse torna ad avvicinarsi alla sua essenza più antica,[11] staccandosi dall’idea di negazione dell’ente che è stata introdotta dai meccanismi linguistici in tempi più recenti. Tale ridefinizione del significato sembra giustificata proprio nella misura in cui consente l’accesso a strutture più originarie, e nel suo essere progressiva là dove rende possibile un discorrere sensato sul niente, scavalcando un vicolo cieco dell’intelletto.

8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA

La domanda attorno al niente è metafisica in quanto provoca un andare oltre l’ente, là dove implica un ragionare che interrompe il consueto stato mentale nel quale l’uomo vive usando gli enti, rimanendo loro molto vicino e per così dire sovrapposto, senza arrivare a concepirsi come distinto da essi. Di più: il niente è il presupposto dell’esserci[12] e la metafisica è intrinsecamente contenuta nella struttura dell’esserci[13]
La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. Pag 77[/ref] il quale ha la caratteristica di trascendere l’ente, di differenziarsi da esso.[14]

Oltre a ciò, la domanda relativa al niente ha un’importanza particolare per la metafisica, in quanto ci costringe a porci dinanzi al problema dell’origine della negazione, cioè, in fondo, dinanzi alla decisione sulla legittimità del dominio della “logica” nella metafisica.[15]

9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER

Sul finire del proprio discorso, anche Heidegger prende in mano quel famoso teschio e rinnova la domanda che vorrebbe rintracciare il motivo per scegliere a favore dell’ente contro il niente: …la domanda fondamentale della metafisica, a cui il niente stesso costringe: perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?[16]

La pretesa di portare il pensiero a cogliere la struttura dell’essere, l’essenza delle cose, è in cotrapposizione con l’utilizzo degli enti al fine di raggiungere un obiettivo, nel senso che per usare le cose in modo efficace è richiesta un’attitudine mentale differente da quella richiesta per indagarne la struttura. L’uomo d’azione e l’uomo della conoscenza hanno meccanismi di pensiero differenti. Heidegger richiede una meditazione che rischia di uccidere l’azione. Ed Amleto è esattamente questo, perciò ho utilizzato l’immagine del teschio.[17]

10 – INTEGRAZIONE

La domanda che ci chiede di scegliere fra l’ente e il non-ente è stimolante per alcune volte, ma poi la destrutturazione che induce diviene simile ad una malattia. La decomposizione delle strutture determinate che formano il pensiero probabilmente si inserisce nel progresso dell’uomo,[18] ma forse non è necessario scendere continuamente ad un livello zero in cui gli effetti del niente impediscano l’azione. Bisogna aver conosciuto il nulla, ma non continuamente ritornarci.

L’angoscia ha reso esplicita per la prima volta la differenza sostanziale fra gli enti e il nucleo attivo dello spirito che è l’esserci. Dunque tale differenza ha avuto bisogno di una struttura dedicata[19] per venire definita inizialmente. Ma non è possibile che in seguito essa sia continuamente evocata e presente alla coscienza anche senza tale struttura dedicata? È possibile integrare la percezione della struttura dell’essere nell’ambiente produttivo quotidiano? È possibile abituarsi a cogliere la struttura dell’essere anche nei momenti d’azione?

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  1. [1]Heidegger, Che cos’è metafisica? – “Segnavia”, Biblioteca Filosofica, Adelphi 1987, a cura di Franco Volpi, Friedrich-Wilhelm von Herrmann . Pagg 59-77. Le indicazioni di pagina riportate nelle note successive sono riferite a questa edizione.
  2. [2]Io non sono un professionista del settore filosofico, e non ho una conoscenza approfondita dei testi scritti da Heidegger. Di conseguenza le mie parole derivano essenzialmente da un lavoro on-the-book, non dal raffronto del contenuto del testo in oggetto con altri lavori di Heidegger o di altri autori.
  3. [3]Pag 63
  4. [4]Pag 63
  5. [5]Da parte nostra affermiamo che il niente è più originario del “non” e della negazione. Pag 64
  6. [6]Senza che ciò comporti una perdita di complessità o di bellezza da parte del sentimento: io non sono riduzionista.
  7. [7]Questo rinviare […] all’ente nella sua totalità che si dilegua […] è l’essenza del niente. Pagg 69-70
  8. [8]L’essenza del niente […] sta in questo: è anzitutto esso che porta l’esserci davanti all’ente come tale. Pag 70
  9. [9]Pag 72
  10. [10]Come si evince dai termini impiegati, mi è parso opportuno mantenere il carattere della continuità, a meno di temporanee disfunzioni e/o inibizioni.
  11. [11]Mi riferisco ad un contesto che non sono in grado di definire con precisione, ma che immagino antecedente al “mondo antico”.
  12. [12]L’esserci, in quanto esserci, già da sempre proviene dal niente. Pag 70
  13. [13]L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Pag 77
  14. [14][…] l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. […] Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Pag 70
  15. [15]Pag 75
  16. [16]Pag 77
  17. [17]Ho utilizzato l’immagine del teschio per richiamare Amleto che pronuncia il famoso dilemma, ma in realtà il teschio non è in scena mentre Amleto si interroga sul da farsi.
  18. [18]A questo riguardo sarebbe utile un confronto con il pensiero di Konrad Lorenz nei passi dove parla di una maggiore scomposizione dei movimenti in sottoparti accessibili alla volontà.
  19. [19]L’angoscia.