Ortega Y Gasset: L’uomo e la gente. Società, reificazione e fenomenologia.

Ortega Y Gasset: L'uomo e la gente.

José Ortega y Gasset: L’uomo e la gente.

Ortega apre “L’uomo e la gente”1 sottolineando l’importanza della dimensione sociale e denunciando che la sociologia non è stata in grado di chiarirne la natura.2 Per rimediare a questa mancanza il filosofo spagnolo ripercorre le tappe principali con cui il discorso fenomenologico (si pensi a Husserl e a Heidegger) individua le realtà fondamentali del mondo in cui viviamo, arrivando a definire la società come un’architettura di usi. Nella prima parte dell’articolo proponiamo una nostra sintesi di tale riflessione.

Ortega ritiene che l’uso abbia una natura automatica, meccanica, cosale, e per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno prendere in esame il concetto di uso in relazione alla problematica della reificazione. Di questo tema ci occupiamo nella seconda parte dell’articolo.

Nella terza ed ultima parte introduciamo una metafora specifica per descrivere il pensiero che privilegia la dimensione autentica dell’essere, molto cara ad Ortega. Ne segue una riflessione sulla possibilità di coniugare l’autenticità con la dimensione relazionale.

1.LA SOCIETÀ COME ARCHITETTURA DI USI

I.PROLOGO CON LO SMARTPHONE

Ci sono alcuni brevi episodi che vorrei raccontare a riguardo del mio smartphone, e vedremo al punto successivo come questo ci possa tornare utile per introdurre la visione di Ortega.

Io vivo a Szeged, in Ungheria, e quando torno in Italia devo cambiare la SIM ungherese con quella italiana. Mi propongo sempre di farlo in anticipo, per esempio mentre sono in volo, ed invece finisco regolarmente per aprire il telefono nei momenti più sbagliati: in piedi nel corridoio dell’aereo, in coda ad aspettare il controllo dei documenti, oppure sulla panchina in attesa dell’autobus. Mi capita spesso di appoggiare lo smartphone, la SIM ed il guscio di gomma sulla coscia sollevata a novanta gradi, in equilibrio instabile. E c’è sempre qualcuno che mi osserva chiedendosi se tutto cadrà per terra.

Lo smartphone costa caro, e cercano di rubarlo. L’estate scorsa stavo sdraiato al sole nel parco di Dugonics tér, avevo i pantaloncini corti e non sapevo dove metterlo. Allora me lo sono appoggiato sulla pancia: così ne sentivo il peso e non potevano rubarmelo. Infatti quando il gentiluomo che passava di lì per caso me l’ha preso io sono scattato all’istante, l’ho afferrato per un braccio, e senza dir nulla mi sono ripreso il mio smartphone.

Sul lavoro uso molto lo smartphone per fare fotografie, alle macchine e alle chiusure lampo che produciamo, e mi capita a volte di aprire la cartella delle immagini in presenza degli amati colleghi. Ma devo starci attento, perché nello smartphone ci sono tante fotografie personali che saltano fuori quando non te l’aspetti. Soprattutto quelle delle donne.

II.NATURA DI UNA COSA: NEL BOSCO DELLE STORIE

Il mio smartphone è una cosa. In questo momento lo colgo appena con lo sguardo in un angolo del campo visivo, ma basta questo a sollevare tra i pensieri i ricordi delle storie e delle situazioni che ho appena descritto. Noi accediamo alle cose soprattutto per mezzo delle immagini visive, ma le cose sono fatte di comportamenti e di storie molto più che di immagini. Strutture temporali anziché componenti visive. La visione è insostituibile, ma non come dimensione essenziale, piuttosto come interfaccia d’accesso a una dimensione fatta di storie.

La tradizione fenomenologica dà meno importanza alle superfici visibili e più importanza a tutte le storie alle quali un oggetto può prendere parte. Lo sguardo fenomenologico non rimane incastrato nel visivo,3 ma coglie la dimensione temporale delle cose e del mondo da esse composto. Questo significa che nel vedere uno smartphone si è consapevoli delle storie ad esso collegate. Si è consapevoli delle storie, ricordate o immaginate, di cui lo smartphone è un personaggio.4

Dello smartphone, e più in generale di ogni cosa, in ogni momento noi possiamo vedere solo un lato, e solitamente un numero limitato di dettagli visivi. Possiamo però aver presente anche quello che in quel frangente non percepiamo direttamente. A questo fatto Ortega si riferisce col termine compresenza, preso da Husserl.5

III.LE COSE SONO TANTE, MILIONI DI MILIONI

Il mio smartphone è una cosa, e ci sono tante cose oltre al mio smartphone. Ci sono il netbook, lo zaino, la matita, gli occhiali; c’è Google, c’è gmail, c’è il treno, ci sono i piatti sporchi nel lavandino, c’è la lista di cose da fare sul lavoro. C’è la tessera sanitaria che scade e ci sono tutti i miei libri sulla scrivania. C’è la pianta grassa che sta morendo di sete, c’è l’essenza di eucalipto, ci sono i fiammiferi e le candele. Ognuna di queste cose si porta appresso il suo repertorio di storie, così come fa lo smartphone.

IV.NATURA DEL MONDO: ALICE COLPISCE ANCORA

Il mondo non è una prospettiva tridimensionale nella quale possiamo inscatolare ciò che vediamo. Non è un pavimento di mattonelle, non è un piano dove ci si può spostare di un metro esatto. Il mondo non è una stanza completa di tutto il proprio volume, ma un luogo in cui l’attenzione si concentra in alcuni punti. Il mondo in cui di volta di volta ci troviamo, o circostanza, è l’insieme di tutte le cose e delle loro interconnessioni.6 7 Il modo in cui l’uomo percepisce le cose nel mondo somiglia ad una luce che cerca nella notte piuttosto che ad un paesaggio illuminato a giorno. La luce è l’attenzione che soffermandosi ravviva i percorsi delle storie e provoca la nascita di oggetti e di idee nuove.

Il mondo insegnato dallo sguardo radicale8 non è poi così lontano da quello di Alice nel paese delle meraviglie. È una collezione di oggetti galleggianti. È un vestito di arlecchino inclusivo di una riflessione sulla cucitura delle pezze. Ma nel prenderlo in mano vi accorgete che la cucitura è elastica, provate a tirarla, e vi rendete conto che dentro, nel vestito, si nasconde qualcuno.

V.IMMERSI, TRA OSTACOLI E STRUMENTI, CHE NON CI DANNO RISPOSTA

Ecco dunque che ci troviamo collocati in un mondo fatto di cose. A queste cose non ci poniamo in modo neutro. Esse assumono sempre un ruolo nei nostri confronti, presentandosi come strumenti oppure come ostacoli.9 Noi interagiamo con esse, e da questa interazione nasce il repertorio di storie di cui le cose stesse sono costituite.10

Le cose però non rispondono alla nostra azione, là dove invece gli altri uomini sono in grado di farlo. Questa capacità di risposta è il fatto fondamentale della coesistenza. Noi impariamo a tenerne conto nelle azioni che rivolgiamo verso gli altri, motivo per cui la nostra relazione con loro è qualitativamente differente dalla relazione che abbiamo con le cose. Anche gli animali rispondono alle nostre azioni, ma la loro capacità di risposta è molto più ridotta rispetto agli uomini.11

VI.GLI ALTRI, I QUALI RISPONDONO, DA UN LUOGO NON VISTO

Dal fatto che gli altri danno una risposta alle nostre azioni, noi intuiamo l’esistenza di un pensiero individuale che è all’origine delle loro azioni. Non si tratta di una deduzione razionale, del risultato di una riflessione retrospettiva su ciò che accade con gli altri. Non si tratta soltanto di un fatto culturale che potrebbe anche non avere luogo, a seconda dell’istruzione che si riceve. L’intuizione dell’altro ha radici profonde nelle strutture biologiche dell’essere umano.12

Mentre possiamo gestire le cose materiali in modo diretto, considerandole costituite dalla percezione che ne abbiamo, noi ci rendiamo conto che c’è qualcosa degli altri a cui non possiamo attingere direttamente, ma solo attraverso quel che vediamo del loro comportamento.13 Potremmo dire che questo qualcosa è il loro pensiero, o la loro anima. Gli altri, al contrario delle cose, sono un tipo di realtà che ci trascende,14 che va oltre, nel senso che si posizionano in un luogo difficilmente raggiungibile, e nel senso che l’interazione con loro ci porta ad una profonda trasformazione personale.

VII.AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DELL’ALTRO

La parola che usiamo per rivolgerci all’altra persona che abbiamo di fronte è il pronome tu.15 Per quanto esposto, ci rendiamo conto che il tu arriva quando l’io non si è ancora visto. Il tu è più primitivo dell’io, il quale non è così strettamente necessario come potremmo pensare. Per relazionarci con le cose del mondo è sufficiente avere una percezione delle cose e qualche obiettivo da raggiungere. È soltanto dopo aver iniziato a concepire gli altri come individui che iniziamo a concepire noi stessi in modo simile. Noi formiamo l’io ad immagine e somiglianza del tu.16 17

VIII.GLI USI: ABITUDINI GARANTITE TRA I TU

Nel corso dell’interazione con gli altri riflettiamo sulle situazioni in cui ci veniamo a trovare e prendiamo decisioni su come comportarci, apprendendo molte abitudini al riguardo. Tipico dell’abitudine è passare dalla situazione alla decisione senza eseguire esplicitamente tutti i passi intermedi del ragionamento. Le abitudini verso gli altri possono essere apprese per imitazione, oppure possono essere stabilite da noi personalmente a seguito del ripetersi di situazioni e decisioni simili. Va precisato che anche le abitudini provenienti per imitazione dall’esterno hanno avuto origine in un individuo ben determinato, con un atto creativo che si pone a monte di una catena di trasmissioni interpersonali.

Con il termine uso ci riferiamo a tutte quelle abitudini riguardanti l’interazione con gli altri e garantite da una qualche forma di coercizione esterna.18 L’insieme degli usi, composto per la maggior parte da abitudini provenienti dall’ambiente esterno, costituisce la dimensione sociale, e la società è concepibile come un’architettura di usi. È questo il nocciolo teorico del libro di Ortega.19

IX.USI DEBOLI E FORTI: LA COLAZIONE E LO STATO

Esempi di usi sono il vestire, il mangiare, la lingua, l’opinione pubblica, ed anche i rapporti sociali correnti, fra i quali ad esempio il saluto. Possiamo dire che questi usi sono deboli e diffusi. Sono caratterizzati dal fatto che la loro instaurazione e la loro coazione avvengono lentamente; inoltre l’invito e la coazione non provengono da individui determinati. Per esempio, la coazione avviene “in forma di giudizi sfavorevoli e cose simili”.20

Al gruppo degli usi deboli e diffusi si oppone quello degli usi forti e rigidi, aventi caratteristiche opposte: instaurazione e coazione rapida, ed invito e sanzione provenienti da persone precise. Fra di essi troviamo gli usi economici, il diritto, lo stato.

Tra gli esempi più specifici di uso proposti da Ortega vi sono: il saluto pacifico, inteso come una sorta di set up in occasione dell’incontro fra due individui; il saluto bellico, qualitativamente ben distinto da quello pacifico; l’impiego del cappotto; la colazione.

2.USO E REIFICAZIONE

I.L’INCONSAPEVOLE SOTTO ACCUSA

Ortega pone come umano ciò che facciamo consapevolmente.21 Per contrapposizione è inumano tutto ciò che ha carattere di inconsapevolezza ed al quale si accompagnano l’essere meccanico, abituale, inautentico.22 Nel suo ragionamento il valore positivo (in quanto umano) assegnato al consapevole diventa valore negativo assegnato all’inconsapevole, e confluisce prima nell’uso (in quanto meccanismo inconsapevole), e da qui nel sociale (in quanto architettura di usi). L’individuo si trova così collocato in una società avente dei tratti fondamentalmente ostili a ciò che è più propriamente umano. D’altra parte Ortega stesso riconosce il valore positivo del sociale nel creare uomini e nell’oltrepassare problemi già risolti, dunque attribuire inumanità al sociale pare un appesantimento inutile nella descrizione della situazione umana. Non sembra il caso di partire con un’accusa che rende poi necessaria una riabilitazione.

Vero è che Ortega a tratti sembra dire delle cose che attenuano l’opposizione tra il nucleo individuale autentico ed il paesaggio sociale in cui questo si muove. Resta però il fatto, pesante, che Ortega fa un uso insistente di connotazioni negative atte a dare una grande rilevanza a tale opposizione.23 Lo si vede bene, ad esempio, quando pone l’accento sulla pericolosità e sul lato scuro del fare filosofia, in quanto forma di autenticità opposta al sociale,24 oppure quando mette l’accento sul ruolo della solitudine.25

II.RIABILITAZIONE DELL’ABITUDINE

(…) Questa parte del testo è stata omessa dalla pubblicazione online. Per avere gratuitamente la versione integrale potete scrivermi in messenger o tramite mail.

III.LA REIFICAZIONE CHE CI ABBASSA

Noi abbiamo un modo povero di guardare alle cose, ed è per questo che portare sull’uomo la stessa attitudine di sguardo che abbiamo per le cose provoca un’impoverimento dell’uomo. Lo sguardo fenomenologico nasce invece con una spiccata tendenza ad arricchire il modo in cui intendiamo le cose aggiungendovi spiritualità e senso. Per indicare la tendenza a concepire gli aspetti umani e sociali in modo simile agli oggetti materiali utilizziamo la parola reificazione, derivata dal latino res, che significa cosa.26 Quindi reificazione significa qualcosa di molto simile a cosalizzazione. Lo sguardo radicale tende a ridare vita alle cose rendendole più somiglianti al nucleo vitale dell’uomo, là dove il processo di reificazione fa l’opposto, sottraendo dall’umano tutto ciò che non è assimilabile alle cose, intese come entità sensibili, invarianti, oggettive, scientifiche, indipendenti, facilmente indicabili.27

Lo sguardo radicale rianima le cose alzandole verso l’uomo, mentre la reificazione toglie l’anima all’uomo abbassandolo verso le cose. Da questo punto di vista potremmo anche intendere lo sguardo radicale come una forma di neo-animismo.28 29

IV.UN PONTE VERSO UNA REGIONE

(…)

V.LE STESSE COSE MA IN MODO DIVERSO

(…)

VI.RIMANERE VIVI USANDO

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VII.LA BANDA DISPONIBILE

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3.ANALOGIE COL VISIVO

Abbiamo visto che Ortega accusa gli usi nel nome dell’autenticità Forse si può considerare questa mossa come la manifestazione di una tendenza concettuale più profonda. Mi propongo di fare un po’ di luce sulla natura di questo tema evidenziando alcuni aspetti della dimensione visiva e proponendo una metafora a questi collegata.

I.IL VISIVO ED I SUOI AMICI

(…)

II.RISIKO: REGIONI SEPARATE

(…)

III.METAFORA DEI PASSI E DELLA SUPERFICIE

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IV.L’ESEMPIO DEL SALUTO

(…)

V.PROVIAMO A TOGLIERE LA SUPERFICIE

(…)

VI.LA DIREZIONE DELLA DETERMINAZIONE

(…)

4.CONCLUSIONI

Assumere la parte consapevole di noi stessi come la parte migliore sembra intuitivamente plausibile, ma il modo in cui Ortega procede da questa assunzione ci conduce alla creazione di un dramma esistenziale gratis, consistente nella contrapposizione del nostro nucleo più umano con i tratti più specifici del sociale. Ci ritroviamo con un contrasto diretto tra la valorizzazione del singolo da un lato e gran parte della vita sociale dall’altro, ed è questa una venatura scura a cui vorremmo porre rimedio.

Ortega concepisce la società come architettura di usi, e proprio da questo presupposto si possono cercare nuovi equilibri tra l’individuo ed il sociale. Lasciando inalterata la consapevolezza individuale come polo pregiato, cerchiamo di materializzare al polo opposto il suo nemico in qualcosa d’altro rispetto al sociale, ovverosia nella reificazione, la quale potrebbe avere la sua origine in alcune dinamiche selezioniste intraspecifiche.

Per come abbiamo impostato il nostro discorso l’uso appare come un fatto più circoscritto ed elementare, mentre la reificazione si presenta come una proprietà sistemica. La reificazione è un tratto globale implicante una degradazione della dimensione spirituale, mistica, di interconnessione, relativa a tutti gli abitanti della fauna mentale, là dove invece ciascun uso è un animale specifico di tale fauna.

Il fatto riconosciuto che la relazione con l’altro sia un modo fondamentale di aggiungere ricchezza alla vita umana, questo fatto si pone in opposizione con la dimensione di povertà che è invece il punto di connessione più evidente fra la reificazione e la solitudine, quest’ultima intesa non come condizione pratica ma come difetto strutturale di accesso all’altro.

Per rendere più chiaro un punto critico del ragionamento di Ortega abbiamo introdotto una metafora collegata alla strutturazione del dominio visivo. Per mezzo di tale metafora abbiamo indicato la possibilità di togliere alla riflessività l’obbligo di perseguire costantemente la costituzione di una profondità autentica collocata in direzione opposta alla socialità. Il momento creativo ha certo luogo nella dimensione intraindividuale, ma dovrebbe essere finalizzato anzitutto alla dimensione interindividuale. Data una struttura di usi, non è affatto detto che la direzione unica in cui cercarne una ristrutturazione debba essere l’interiorità privata, questo pare essere un pregiudizio. Che privata sia l’elaborazione va da sé, ma la zona in cui edificare le nuove strutture non sta per forza nel privato.

Nella misura in cui la struttura del visivo dovesse mostrarsi genetica (anche solo circolarmente) rispetto allo stile di determinazione che siamo portati a mettere in atto nella nostra cultura, ed a certi tratti di povertà dello spirito (ipotesi che qui poniamo soltanto), allora la prassi percettiva diventerebbe importante ai fini di una socialità migliorata.

Al di là di questa ipotesi, all’attitudine fenomenologica possiamo chiedere una ristrutturazione degli usi mirata alla realizzazione di un coro vivo, con l’attenzione posta ad evitare le trappole della reificazione e della solitudine, nel segno di una profondità diffusa.30

Szeged – agosto 2016

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N.B. Quello che avete letto é un estratto che include circa la metá dell’articolo originale. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail.

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BIBLIOGRAFIA

Craighero, Laila Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010).

Foucault, Michel, The order of things, (New York: Vintage Books, 1994). Titolo originale: Les Mots et les choses, 1966.

Honneth, Axel, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.

Ortega Y Gasset, José, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.

Panksepp, Jaak, and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

Quine, Willard Van Orman, Word and Object, (Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 1960).

Rawls, John, Una teoria della giustizia, (Milano: Feltrinelli, 1982). Titolo originale: A Theory of Justice, 1971. Traduzione di Ugo Santini.

NOTE

1José Ortega Y Gasset, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.

Nel seguito indicato con l’abbreviazione UG.

2“Si noti che tutte quelle idee (legge, diritto, stato, internazionalismo, collettività, libertà, giustizia sociale, ecc.), quando non lo manifestano già nella propria espressione, coinvolgono sempre, come loro ingrediente essenziale, l’elemento sociale, la società” UG, 30.

“È passato tanto tempo. Ma non dimenticherò mai la sorpresa, mista a vergogna e stupore, che ho provato quando, conscio della mia ignoranza, mi sono indirizzato, pieno di speranza e di illusioni, ai libri di sociologia. Ho scoperto una cosa incredibile: quei libri non dicono nulla di chiaro sul sociale, su ciò che è la società” UG, 30.

3“…sebbene ciò che è visibile ed il vedere si offrano come esempi di maggiore chiarezza per un primo approccio alla nostra teoria, sarebbe un grave errore supporre che la vista sia il “senso” più importante.” UG, 75.

4La presentazione delle cose come entità composte da storie o percorsi è una mia scelta, non presente in UG.

5“… alla presenza effettiva di ciò che è solo parte di una cosa si va unendo automaticamente il resto di essa. Questa porzione non ci è presentata, bensì ci è compresentata e compresente. […] L’idea è dovuta al grande Husserl.” UG, 68.

6Spesso in UG il termine ‘mondo’ è messo sullo stesso piano del termine ‘circostanza’. Cf. ad esempio “Dobbiamo ora studiare la struttura ed il contenuto dell’ambiente, circostanza o mondo in cui siamo chiamati a vivere.” UG, 67.

7Più precisamente Ortega in UG considera il mondo in questo modo: “La struttura del mondo risulta quindi un poco più complicata, poiché di esso abbiamo ora tre piani o termini: in primo luogo, la cosa che c’interessa, poi l’orizzonte sul quale la cosa appare, infine l’al-di-là latente.” e “L’orizzonte è la linea di frontiera tra la porzione evidente del mondo e la sua porzione latente.” UG, 70-71.

8Ortega utilizza spesso l’espressione ‘radicale’ per indicare qualcosa di molto prossimo alla dimensione cui si accede con l’indagine fenomenologica. “Chiamandola ‘realtà radicale’ […] intendo semplicemente dire che è la radice – di qui radicale – di tutte le altre” UG, 50.

Possiamo chiederci se l’essere radicale di un pensiero sia una questione stabilita una volta per tutte oppure soggetta al divenire storico dell’individuo e della società. Il pensiero che Ortega chiama radicale è un pensiero che nell’essere formulato si pone come radice capace di illuminare di comprensione gli altri pensieri che facevamo fino a quel momento. Ma se ci spostiamo di due o tre generazioni in avanti, considerando una certa sedimentazione del pensiero che oggi è radicale, ci troveremo forse ad affrontare una nuova struttura di pensiero consolidato per il quale si proporrà una nuova radicalità. È questo un tema chiaramente legato alla definizione (possibile?) di un limite tra il biologico ed il culturale.

9“La loro localizzazione in prospettiva e in regioni non deve farci dimenticare che al tempo stesso – né prima né dopo, bensì contemporaneamente – le cose sono per noi strumenti o ostacoli per la nostra vita, che il loro essere non è un essere per sé ed in sé , ma consiste solo in un essere per noi.” UG, 79.

10“Il mondo è una selva di faccende o cose importanti, in cui l’essere umano si trova – volente o no – impigliato. L’uomo, lo voglia o no, è destinato a nuotare in questo mare di faccende, delle quali è costretto senza tregua ad occuparsi.” UG, 66.

11In UG il concetto di coesistenza e di risposta è presentato inizialmente in riferimento agli animali: “L’animale mi appare, a differenza della pietra e della pianta, come una cosa che reagisce; in questo senso, come qualcosa che – esistendo anche io per esso – coesiste con me.” UG, 86.

“L’attributo caratteristico e primario di colui che denomino l’altro Uomo è che egli risponde, di fatto o potenzialmente, alla mia azione su di lui. Ciò impone al mio agire di tener conto in anticipo della sua reazione, della reazione dell’altro, la quale a sua volta dovrà tener conto della mia successiva reazione.” UG, 125.

12Cf. “…il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi ma è la chiave fondamentale per percepire gli oggetti che ci circondano e capire le azioni che vengono eseguite dagli altri. È stata una rivoluzione enorme, forse paragonabile a quella copernicana. […] la cosa sconvolgente è che gli stessi neuroni si attivano anche quando l’individuo è perfettamente fermo e semplicemente osserva qualcun altro eseguire la stessa azione con lo stesso scopo. Per i neuroni specchio non vi è differenza se l’azione è eseguita da me o da un altro.” Laila Craighero, Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010), 8.

13“La vita dell’altro infatti non è per me una realtà evidente come lo è la mia: la vita dell’altro, diciamolo pure senza eufemismi, è solo una presunzione o una realtà presunta o pretesa – infinitamente verosimile, probabile, plausibile quanto si vuole – ma non radicalmente, indiscutibilmente, primordialmente ‘realtà’.” UG, 92.

14“La presentazione indiretta o compresenza della vita umana di altri mi conduce e mi pone davanti a qualcosa che trascende la mia vita” UG, 91.

15Più precisamente Ortega riferisce l’uso del pronome tu ad una persona ben identificata. “…il TU non è semplicemente un uomo, ma un uomo unico, inconfondibile.” UG, 102.

16Nel nostro discorso abbiamo posto le cose come anteriori agli altri, ma questa è soltanto una comodità espositiva. Cf. “L’umano precede nella nostra vita l’elemento animale, vegetale, minerale. Vediamo tutto il resto come attraverso le sbarre di una prigione, attraverso il mondo degli uomini fra i quali nasciamo e viviamo.” UG, 99.

Basta pensare alla relazione del bambino con la madre per aver chiara la presenza primitiva dell’altro nella vita di ognuno. Ci sarebbe da discutere di un’eventuale percezione dell’altro nella vita prenatale. Ma non è questo il luogo, e non ne ho le competenze. Accenno però al fatto che la relazione con l’altro si fonda sulle strutture emotive, le quali sono presenti nelle parti più antiche del cervello già nella vita prenatale. Cf. Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

17“Al contrario di ciò che si potrebbe credere, la prima persona è l’ultima ad apparire.” UG, 103.

18“L’altro attributo dell’uso è che noi ci sentiamo costretti ad esercitarlo, a seguirlo. […] Vedremo in seguito che in ciascun tipo di uso la coercizione assume una forma diversa.” UG, 189.

19“Come si vede, gli usi si articolano e si basano gli uni sugli altri, formando una grandiosa architettura. Tale architettura è precisamente la Società.” UG, 185.

20UG, 180.

21“A tal fine, ci conviene mantenere fermo il chiaro concetto che in noi è propriamente umano solo quel che pensiamo, vogliamo, sentiamo ed eseguiamo con il nostro corpo, come soggetti creatori; o ciò che a noi stessi, come tali, accade. Il nostro pensare quindi è umano, solo se pensiamo qualcosa per conto nostro, rendendoci conto di ciò che significa.” UG, 64.

22“La realtà autentica del vivere umano contiene il dovere del frequente ritiro nel fondo solitario di se stessi. Tale ritiro – durante il quale esigiamo che le mere verosimiglianze in cui viviamo, quando non sono semplici inganni o illusioni, ci presentino le loro credenziali di autentica realtà – è ciò che si chiama con un nome di maniera, ridicolo e confusionario, filosofia.” UG, 94.

“[…] è costitutivo degli usi l’aver perso il loro significato; ossia l’essere stati un tempo azioni umane interindividuali ed intelligibili, azioni con un’anima, e l’essersi poi svuotati di senso, l’essersi meccanizzati, automatizzati, come mineralizzati, l’essere ormai senz’anima. Sono stati autentiche ‘vivenze’ umane che dopo, a quanto pare, sono divenute sopravvivenze, esseri umani putrefatti.” UG, 169.

23Cf. “ […] la teoria di Durkheim è beata e la mia è tremenda, ossia mette proprio paura.” UG, 155.

24“La filosofia è ritirata, anabasis, regolamento dei conti, nella spaventosa nudità, davanti a se stessi.” UG, 94.

“La filosofia è quindi critica della vita convenzionale, critica che l’uomo si vede obbligato a fare di tanto in tanto, portando tale vita davanti al tribunale della sua vita autentica, della sua inesorabile solitudine.” UG, 95.

25“Dal profondo della solitudine radicale che è senza dubbio la nostra vita, emergiamo costantemente con un’ansia, non meno radicale, di compagnia.” UG, 58.

26Per una ricognizione storica sul concetto di reificazione (in particolare per una comparazione della concezione di reificazione in Lukács, Heidegger, Dewey) si veda Axel Honneth, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.

27In precedenza avevamo introdotto la capacità di rispondere come la specificità per mezzo della quale l’altro entrava in scena, e potrebbe venire quindi il dubbio che la reificazione, in quanto cosalizzazione, sia da ricondurre ad una mancata percezione (negli altri) della capacità di rispondere. Se è vero che la percezione di questa capacità di rispondere è di sicuro un modo di arricchire l’oggetto della nostra osservazione, è anche vero che la capacità di rispondere di per sé può essere inglobata in una percezione complessiva della situazione molto meccanizzata, oggettivata, reificata appunto. Monodimensionale, per dirlo con Marcuse.

La povertà di spirito collegata alla reificazione è una questione più diffusa e profonda rispetto alla capacità di risposta, che per quanto importante appare più caratterizzata come un’abilità circoscritta.

28Cf. “’Cose’ significa nel linguaggio corrente tutto ciò che ha il suo essere in sé e per sé, che esiste indipendentemente da noi. Ma le componenti del mondo vitale sono tali solo per e nella mia vita, non sono per sé ed in sé. […] l’essere ‘cose’ stricto sensu viene dopo, è secondario ed in ogni caso è molto discutibile.” UG, 67.

29Il tema della reificazione chiama in causa il problema del riduzionismo inteso come impoverimento della concezione dell’uomo. Trovo opportuno precisare che la mia posizione personale è quella di un’identificazione completa tra stato mentale e stato cerebrale, là dove però questo non implica minimamente un’attitudine riduttiva. Lo stato mentale può essere descritto in termini di atomi fisici (in senso lato) così come può essere descritto in termini fenomenologici. Il passaggio da un tipo di descrizione all’altra va visto in termini di traduzione più che di riduzione. Descrivere uno stato mentale in termini di atomi fisici equivale a descrivere un desktop in termini di bit o in termini di pixel. Ma questo è estremamente scomodo, è molto più performante una descrizione in termini di icone, sfondo, barra di stato, puntatore del mouse. Quest’ultima corrisponde ad una descrizione fenomenologica dello stato mentale.

30La solitudine può avere un senso pratico, ma non come destino fondamentale. Questo esperimento è stato già vissuto e vorremmo evitare dolorose ripetizioni. Il profeta della solitudine è stato Nietzsche. Non c’è bisogno di recitare ancora quel ruolo.

La reificazione e la natura del cervello: dalle neuroscienze alle atmosfere

Stanislas Dehaene è un ricercatore a capo del più importante laboratorio francese di neuroimaging. Nel suo libro Coscienza e Cervello (di cui ho pubblicato una sintesi in un altro articolo) parla della relazione fra coscienza ed inconscio, ed ha modo di mettere a fuoco alcuni aspetti del funzionamento del cervello che sono a mio avviso interessanti dal punto di vista della reificazione.

Il cervello descritto da Dehaene non è un luogo di quiete in attesa dell’arrivo degli stimoli, delle perturbazioni dal mondo esterno. Al contrario è in un continuo stato di attività generata autonomamente. Le risposte generate a seguito dagli stimoli esterni costituiscono solo una parte minima dell’attività del cervello:

Di fatto, un’attività organizzata spontanea è onnipresente nel sistema nervoso. Chiunque abbia mai visto un EEG lo sa: i due emisferi generano costantemente una massiccia quantità di onde elettriche ad alta frequenza, che la persona sia sveglia oppure addormentata. Quest’eccitazione spontanea è talmente intensa da dominare il panorama dell’attività cerebrale. In confronto, l’attivazione evocata da uno stimolo esterno è a malapena rilevabile, e affinché questa possa essere osservata, è necessario un notevole lavoro di calcolo delle medie. L’attività evocata dallo stimolo rende conto soltanto di una piccola parte dell’energia totale consumata dal cervello, probabilmente meno del cinque per cento. Il sistema nervoso agisce, in primo luogo, come un meccanismo che genera i suoi stessi schemi di pensiero.”1

Da questa descrizione del cervello vediamo che i pensieri definiti non emergono come un oggetto disegnato su un foglio bianco. Il punto di partenza non è una tabula rasa, ma una nuvola rumorosa, e per passare da questa indefinitezza iniziale alla definitezza di un pensiero cosciente il temporaneo silenzi amento di alcuni neuroni è almeno tanto importante quanto l’attivazione di altri neuroni. L’oggetto posto in uno spazio originariamente vuoto è una sorta di presupposto del nostro ragionare razionale, ma sembra che la natura profonda del cervello prenda più facilmente le mosse da un ribollire diffuso. Lo stato normale del cervello non è una piattezza su cui lo stimolo risalta. Lo stimolo che ha raggiunto la coscienza può essere pensato meglio come un elemento d’ordine che si è propagato con successo in una foresta di processi, anziché come un suono che accade nel silenzio. Per noi uomini adulti e razionali il foglio bianco è la metafora del punto di partenza, ma la selezione, l’architetto che ha creato la nostra mente, sembra avere gusti diversi dai nostri. Sembra che questo architetto preferisca partire da un brusio cui dare ascolto.

Da quanto detto traiamo l’osservazione che la cosalità non è necessariamente il formato migliore per comprendere le dinamiche dei pensieri. Con la parola cosalità ci riferiamo alle caratteristiche degli oggetti materiali. Gli oggetti materiali si pongono come oggetti densi in uno spazio vuoto, ma si tratta di un modo di pensare che non è dato dalla nascita, bensì è una modalità di pensiero che si instaura nel corso dei primi mesi di vita dell’individuo. Prima si ha una situazione in cui si ripresentano situazioni fra loro riconoscibili, ma non assimilabili ad oggetti permanenti.

Gli oggetti materiali sono personaggi indispensabili sul palcoscenico della nostra vita quotidiana, ma vi è anche molto altro, che appartiene alla dimensione più riflessiva, spirituale, emotiva. Quando invece si tende a ridurre ogni fenomeno del mondo riducendolo alle dinamiche degli oggetti materiali, si perde qualcosa della profondità del mondo. Questa polarizzazione della visione del mondo attorno alla natura dell’oggetto materiale, alla cosalità delle cose, la chiamiamo reificazione, dal latino res che significa, appunto, cosa.

Chi scrive ritiene che la reificazione sia un problema della società contemporanea. Vedere che la natura del pensiero cosciente si discosta dal formato degli oggetti materiali dovrebbe aiutarci a svincolarci dal pregiudizio della necessità pervasiva di interpretare tutto riportandolo al piano degli oggetti materiali, favorendo invece una decostruzione della reificazione e la coltivazione di una sensibilità alle atmosfere, alle proprietà sistemiche, alla dimensione olistica e spirituale.

La struttura della corteccia cerebrale e la psicologia dello sviluppo ci parlano di una processualità composita dal quale gli oggetti emergono. L’indefinitezza si pone così come un piano più originario rispetto a quello dell’oggetto ben formato. Questo sapere di natura scientifica si può coniugare con una meditazione che mira a scalzare il dominio del formato di pensiero di un oggetto materiale troppo solido e sicuro di sé, mostrandone le aperture e arrivando a porlo come una possibilità fra le altre.

1Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, 2014, Milano, Raffaello Cortina Editore. Titolo originale: Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Traduzione di Pier Luigi Gaspa. pp. 252-253.

Cicerone: un amico contro l’insonnia

Come ti dicevo, ho ascoltato il video di Wes Cecil su Cicerone, e sono andato a leggermi la lettera sull’amicizia. Potrei dirti che Cicerone il soggetto del suo discorso te lo introduce, te lo indica, te lo annuncia col cappello in mano. Dopo aver fatto un solenne riferimento agli antenati stende il tappeto che conduce alla soglia, e una volta entrato ti invita a sederti mentre lui sta ancora apparecchiando la tavola. Insomma, non è esattamente una sintesi incalzante e non mette la penna nella piaga del concetto. Potresti anche annoiarti dei convenevoli.

Ma se gli dai fiducia, ci trovi qualcosa. Ci trovi la chiarezza che viene dall’aver steso bene tutti gli argomenti come quando hai poca nutella per coprire il pezzo di pane. Ci trovi una visione che emerge con calma, come un minestrone che ha tempo di cuocere. Ci trovi frasi che leggi come un filo d’olio che scorre, ma che poi ti rendi conto hanno detto qualcosa. E te le salvi. Ci trovi, soprattutto, la persona che ti parla. Il tono dell’amicizia. Pensavo che dovresti leggerlo la sera, prima di dormire, perché è un palcoscenico dove gli attori sanno cosa è l’amicizia. È un antidoto al senso di solitudine.

Cicerone, non dimentichiamolo, è una radice indispensabile di ciò che poi si è chiamato umanesimo, di ciò che già al tempo era chiamato humanitas. E sai quanto questi temi mi interessano, anche per il discorso del Romanticismo Positivo. Ma leggendo Cicerone, come già ti dicevo, desidero non condividere ingenuamente l’attitudine verso ciò che significava per lui Roma, che era il punto più alto cui convergevano tutti i suoi valori e gli argomenti. Ai nostri tempi, invece, ogni atto di fiducia e partecipazione sembra aver bisogno di accompagnarsi ad un atto di diffidenza e separazione. Soprattutto in presenza di una classe dirigente che non sa prendersi cura. Lo so, sto solo facendo cenno ad un problema che è più complesso di così. Il punto è che mi interessa recuperare lo sguardo che lui aveva per i suoi pari tentando di importarlo in una situazione di partecipazione politica molto differente. Perché lui sapeva vedere in un uomo la possibilità di un amico, per questo il suo sguardo è così prezioso. Per questo voglio essere guardato da lui.

Herbert Marcuse e l’uomo a una dimensione

Riflessioni sull’avanzata della logica formale

Questo articolo è una riflessione su “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse.1 L’uomo a una dimensione è un individuo il cui pensiero è reso sistematicamente meno profondo e che è incapace di concepire seriamente un’alternativa all’ordine costituito. Vi sono nel linguaggio degli aspetti formali che hanno una natura distinta dall’essenza del pensiero; tali aspetti formali vengono rinforzati dall’interazione con gli oggetti materiali e dalla competizione intraspecifica. La situazione dell’uomo a una dimensione è vista come il frutto dell’avanzata di queste strutture formali, le quali si realizzano nel sistema tecnologico e scientifico e vengono impiegate dai vertici del potere come strumento di dominio.

Una possibile linea guida da seguire per cambiare questo stato di cose è rendere più visibile l’interiorità del pensiero per mezzo di un vocabolario spirituale adeguato, che al tempo stesso sappia mantenersi in relazione col patrimonio di sapere oggettivo fornito dalla scienza.

(…)

I DISPOSITIVI LINGUISTICI BLOCCANTI

Un vincolo eccessivo sull’aspetto formale del linguaggio può rendere più difficoltoso l’accesso al tessuto delle idee, alla meditazione, allo sviluppo di un pensiero profondo. Marcuse individua alcuni dispositivi linguistici che hanno un effetto simile sul pensiero. Due di essi sono: 1) la concatenazione meccanica di parole e formule descrittive sempre uguali2 3 e 2) la fissazione dei concetti per mezzo di immagini4 5. Entrambi tendono a creare un percorso prestabilito per il pensiero, che resta soddisfatto nel pronunciare la solita frase fatta o nel ricostruire in sé stesso l’immagine citata. La robustezza di questo percorso prestabilito rende improbabile che il pensiero prenda delle vie laterali e si soffermi a riflettere sui modi diversi in cui si può considerare la situazione in esame.

Un altro dispositivo che tende a bloccare l’approfondimento del pensiero è la riduzione dei termini generali a situazioni particolari. Marcuse porta l’esempio della frase “lo stipendio degli operai è troppo basso” che viene ridotta a “lo stipendio di John non gli basta per pagare la bolletta della luce” (Marcuse trae questo esempio da uno studio di sociologia industriale6).

Se nell’analizzare una certa situazione si utilizzano delle frasi o dei termini generali, l’analisi non avrà valore soltanto per quella specifica situazione, ma anche per tutte le altre situazioni riferibili a quei termini generali. Si parla in questo caso di transitività del significato, nel senso che quanto si dice non rimane bloccato al caso specifico che si sta analizzando ma si trasferisce anche su una serie di circostanze differenti, migliorando la conoscenza complessiva del sistema che si sta esaminando.7

Le formule ripetitive, la fissazione di immagini e la riduzione a circostanze particolari sono metodi linguistici che hanno una valenza politica, perché impediscono la costruzione di una critica approfondita dello status quo. Bloccano il pensiero e rendono difficile vedere i fattori storici che stanno dietro i fatti.8

Una volta che il discorso è stato steso in modo da rispettare le regole formali, la logica formale non ha la possibilità di contestare un discorso che fa uso di questi dispositivi. In questo senso la logica formale non è direttamente colpevole, ma è complice del loro utilizzo. Per contestare questi dispositivi linguistici è necessario riferirsi al loro effetto sociale e spostare l’esame ad uno stadio antecedente del ragionamento, non chiedendosi se la frase è stata formata col rispetto dei criteri formali, ma se i termini sono stati scelti nel modo migliore.

L’UOMO A UNA DIMENSIONE

Il mondo del lavoro è fatto di fornitori, clienti, fatture, pagamenti, macchinari, trasporti, materie prime e prodotti finiti. Il mondo della casa è fatto di pranzi, vestiti, docce, sensualità, arredamenti, incontri con gli amici e progetti di coppia. Il mondo della scuola è fatto di lezioni, professori, voti, esami, libri, cancelleria.

Ognuno di noi può vivere in tanti mondi differenti. Ognuno di questi mondi costituisce una dimensione particolare costituita da oggetti, azioni e concetti specifici. Le frasi che uso nel mondo del lavoro difficilmente possono essere usate in una cena romantica. L’esistenza di dimensioni diverse in cui viviamo è collegata all’esistenza di modi di parlare differenti adatti a ciascuna di queste dimensioni.

Ciò che descrive Marcuse è l’avvento di un grande discorso che da solo è in grado di spiegare ogni aspetto della vita e del mondo. È un discorso fondato sulla scienza e gestito, almeno in parte, dai vertici del potere.

L’uomo a una dimensionale è l’uomo che ha un unico modo di pensare con cui può spiegare tutto. È un uomo che vive in un unico discorso. Di per sé avere un unico modo di pensare equivale ad essere coerenti, a saper ricondurre tutto a un unico schema di riferimento, ad avere una profonda comprensione del mondo. In questo senso poter rendere conto del mondo intero con un unico discorso è una cosa positiva. Il problema è che per ottenere questo risultato si sono lasciate perdere delle parti importanti di sé e del mondo.

NON TRASCENDE

L’uomo a una dimensione fatica ad accedere al tessuto delle idee. Le parole sono un grande progresso dell’uomo, ma il modo migliore di usarle è quello di mantenere l’attitudine ad andare dietro di esse. L’atto di staccarsi dalle parole per tornare al pensiero fluido è una forma di trascendenza. La trascendenza è un andare oltre, un cambiamento del modo di vedere.

ALIENATO

L’uomo a una dimensione è alienato. Le parole arricchiscono il pensiero, ma essendo altro dal nocciolo del pensiero possono anche essere usate in modo perverso, senza rispettare la natura più intima dell’essere umano. In questo modo diventano una gabbia. Una gabbia che è disposta attorno al nocciolo e che ci impedisce di accedervi. Il concetto di alienazione nasce per descrivere il senso di estraniamento prodotto nella classe operaia da condizioni di lavoro fisicamente e psicologicamente pesanti. Nel mondo descritto da Marcuse l’alienazione non sparisce grazie al benessere materiale, perché l’uomo è costretto a vivere nella gabbia monodimensionale di un discorso unico che è altro dal nocciolo intimo. È una forma diversa di estraniamento da sé stessi.9

POSITIVISTA E ANTIMETAFISICO

L’uomo a una dimensione è un positivista. Marcuse parla dell’origine storica del positivismo ponendone il primo utilizzo nella scuola di Saint Simon10, e ne descrive i tratti fondamentali come segue: la conoscenza costruita dal pensiero viene convalidata dall’esperienza dei fatti; le scienze fisiche vengono prese a modello di certezza ed esattezza, ed il progresso della conoscenza viene considerato dipendente da tali caratteristiche; la tendenza del positivismo è quella di fermarsi ai fatti e di considerarli come il fattore positivo che promuove la conoscenza.

(…)

LE ALTERNATIVE ADDOMESTICATE

Nel mondo dell’uomo a una dimensione l’arte è diventata una provincia del discorso unico e non è più in grado di essere portatrice di una vera alternativa di vita.11 Gli istinti sono organizzati in modo da potersi esprimere, ma in modi predefiniti che non portino a contestazioni dello status quo.12 Una vera trasgressione non è più possibile.13 È stata annullata la dimensione interiore da cui potrebbe nascere un pensiero che si oppone all’ordine costituito,14 ed una vera opposizione politica è assente.15

La monodimensionalità è una caratteristica che si riscontra in parti diverse della società, sottoforma di disattivazione dei meccanismi che potrebbero portare alla concezione di sistemi sociali alternativi a quello corrente. Il risultato è un mondo in cui tutto è ordinario16, una superficialità felice che non ha bisogno di pensare ad altro ma che è solo apparenza.17

(…)

TECNOLOGIA PER CONTROLLARE

L’epoca contemporanea è caratterizzata dal ruolo fondamentale della tecnologia. Questa è costruita sul sapere scientifico ed è impensabile senza l’uso estensivo della logica formale, matematica inclusa. Marcuse analizza il ruolo dominante delle strutture della logica formale nel mondo a lui contemporaneo. Sono queste strutture che si agganciano in modo coerente fino a comporre il discorso unico della tecnologia e della scienza, il quale rende monodimensionale il mondo.18 19 20 21

In termini odierni potremmo descrivere l’avanzata dei sistemi caratterizzati dall’esattezza formale come una sorta di informatizzazione del mondo, e vediamo che si tratta di una tendenza che non accenna ad indebolirsi. Il problema è che l’uomo dovrebbe essere in grado di usare questi sistemi formali per il proprio progresso, mentre accade il contrario. La struttura tecnologica non è usata per ridurre il tempo di lavoro degli uomini, ma è gestita politicamente per mantenere necessario il lavoro. Questo fatto è indicato da Marcuse come la grande contraddizione insita nella nostra società: abbiamo degli strumenti razionali (quelli della tecnologia) e li usiamo per fini che non sono razionali (mantenere l’uomo schiavo del lavoro).

L’approfondimento del dominio sulla natura e sulla società consente di gestire anche i nostri bisogni, dei quali solo una parte è necessaria, mentre il resto è sviluppato storicamente e socialmente. È creando e promuovendo dei bisogni non necessari che si mantiene l’uomo legato alla necessità di lavorare.22

La strategia di dominio dei vertici politici include la promozione dello sviluppo di una società di uomini monodimensionali, incapaci di elaborare visioni storiche alternative e che non siano consapevoli del funzionamento del sistema e delle dinamiche storiche che lo hanno prodotto.

La competizione fra gruppi umani diversi si risolve nel dominio esercitato da parte di una minoranza organizzata, che fa uso dei sistemi formali come strumento di dominio sul resto della società. Ma il cattivo uso dei sistemi formali non è dovuto alla loro natura intrinseca. Essi non hanno una volontà propria e non agiscono contro l’uomo. Il problema è la competizione intraspecifica tipica della razza umana.

MONODIMENSIONALI OGGI

Che validità ha oggi il pensiero di Marcuse? Gli indici finanziari di cui parlano i telegiornali sono un esempio perfetto di un’interpretazione eccessivamente formale dei fatti che non è in grado di spiegare i fattori del cambiamento sociale e che viene utilizzata in modo politico per far fare alla gente quello che vogliono i massimi vertici del potere. Sui canali di comunicazione principali viene imposta questa interpretazione dei fatti che fa capo al cosiddetto pensiero unico23, il quale può spiegare tutto e non ci fa capire niente.

Poi ci sono i canali di comunicazione secondari che non possono essere gestititi direttamente dai vertici del potere perché sarebbe troppo laborioso. Su di essi non è necessario che venga imposta l’interpretazione desiderata. È sufficiente assicurarsi che ci sia abbastanza confusione da impedire l’emersione di una visione chiara dei fatti.

La visione standard viene sostenuta attivamente sui canali principali e viene protetta dal rumore imposto sui canali secondari.

L’uomo che crede al pensiero unico è l’uomo a una dimensione del giorno d’oggi. La differenza rispetto al mondo di Marcuse è che oggi ognuno di noi ha la possibilità di accedere a molteplici fonti di sapere; questo è un bene, ma la visibilità delle buone alternative è limitata dal proliferare delle alternative false. Per uscire dalla visione standard serve un atto di fantasia, ma la reputazione della fantasia è rovinata dalla presenza di molte alternative inconsistenti. L’uomo che rifiuta il pensiero unico si trova a dover affrontare una situazione di opinioni molto ingarbugliata.

Rispetto al mondo descritto da Marcuse è venuta oggi a mancare la figura del nemico permanente, e con ciò si è capito che il benessere diffuso dei decenni passati era il risultato di una particolare situazione politica e non l’effetto necessario del progresso della tecnologia e dell’incessante miglioramento della produttività. Caduta la paura del sistema sovietico (che era un’alternativa vera, e non soltanto immaginata), oggi non c’è più il bisogno di far contenta la classe media, perché tanto questa non ha più a disposizione un’alternativa vera da votare.24

(…)

LA SCIENZA CHE DEFINISCE I VALORI

Marcuse pronuncia un rifiuto molto netto nei confronti della società in cui vive, senza però indicare chiaramente una via da percorrere.25 Egli è scettico rispetto alla possibilità di un cambiamento verso il meglio, principalmente per via della mancanza di un gruppo sociale in grado di promuovere la contestazione dello status quo. Nondimeno prova ad individuare una possibilità di cambiamento sociale a partire da un cambiamento del ruolo della scienza: questa dovrebbe occuparsi di definire autonomamente i valori, senza farseli imporre dal sistema politico. Marcuse parte dal presupposto che la produzione dei beni debba essere una funzione centralizzata, e si immagina che il compito della scienza sia quello di definire gli output del sistema produttivo.26 In realtà la definizione di questi parametri non appare come un fatto molto significativo. In fondo si tratta soltanto di un calcolo a partire da necessità fisiche individuali ben definite.

Forse oggi è possibile vedere in che modo la scienza si possa porre in modo qualitativamente diverso nei confronti dei valori.

EMOZIONI FONDANTI, NON ISTINTI DA REPRIMERE

I rettili sono caratterizzati da quattro emozioni fondamentali: la paura, la rabbia, l’eccitazione sessuale e una propensione di base alla ricerca e all’azione. Il passo successivo dell’evoluzione sono i mammiferi, che oltre a quelle già esistenti nei rettili hanno tre emozioni nuove: il prendersi cura degli altri, il senso di solitudine ed il gioco. Le nuove emozioni dei mammiferi servono a costruire i sistemi sociali. Le sette emozioni fondamentali sono delle strutture fisicamente presenti nel cervello di tutti i mammiferi e quindi degli esseri umani.

La ragione ed il linguaggio degli esseri umani nascono dalla corteccia cerebrale e rimangono i nostri tratti peculiari, ma un uomo privato della corteccia cerebrale può sopravvivere, mantenendo un comportamento e delle emozioni, là dove, al contrario, un uomo privato delle strutture emotive non può sopravvivere. Questo ci aiuta a capire quanto sono profonde dentro di noi le strutture emotive.2728

Il pensiero di Marcuse, nella tradizione della scuola di Francoforte, prende ispirazione dall’impostazione psicologica di Freud, e vede gli istinti come un elemento che deve essere contrastato dalla società affinché la società possa sopravvivere. Al contrario i sistemi emotivi appena nominati si pongono come elementi fondanti della società, in particolare quelli introdotti dai mammiferi.

La psicologia potrebbe avviarsi ad una ristrutturazione basata sulla definizione dei sistemi emotivi dell’uomo e dell’architettura fondamentale del cervello29. Fornendo una tale descrizione dell’uomo, la scienza potrebbe assumere un ruolo più importante nel discorso sui valori30. Con ció non voglio dire che la scienza possa arrivare a dirci cosa fare, ma che si sta formando una regione di sapere oggettivo potenzialmente adatta a sostenere una tradizione spirituale tesa a favorire l’arricchimento dell’esperienza di vita della persona.

UNA QUESTIONE DI VISIBILITÀ

L’invisibilità del nocciolo più interiore del pensiero ne ha provocato uno svantaggio selezionista a favore degli oggetti materiali, per questo alla scienza chiediamo di renderlo più visibile. Gli oggetti materiali hanno insegnato alla parola come comportarsi, ma le esigenze del nocciolo sono di natura diversa; rendendolo più visibile, le parole potrebbero imparare a dargli un rispetto maggiore. Tale visibilità si può ottenere non soltanto con un’analisi oggettiva delle parti, ma anche costruendo delle linee narrative e rintracciando le migliori metafore per comunicare tale analisi. La consapevolezza della struttura del nocciolo ci serve anzitutto a produrre delle argomentazioni per difenderlo dai nostri errori e dalle influenze esterne negative. Ci serve poi ad utilizzare meglio le potenzialità della nostra mente per comprendere la nostra posizione nella storia, per scegliere i termini più adatti a descrivere i contesti in cui operiamo e per usare la tecnologia senza venirne usati. Dove per tecnologia si intendono tanto i computer, quanto gli indici finanziari, quanto le parole.

Il peccato originale a cui riparare è l’invisibilità del contenuto più prezioso: i gomitoli interiori dell’essere. Senza bisogno di andare nella fantascienza di menti in comunicazione diretta, già l’impiego di un vocabolario spirituale adeguato, connesso con l’evidenza oggettiva corrente, costituirebbe un passo avanti.

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Se ti è piacuto quest’articolo potresti essere interessato anche a leggere i seguenti:

Ortega Y Gasset: L’uomo e la gente. Società, reificazione e fenomenologia.

Jürgen Habermas: una legge per l’Europa

La reificazione e la natura del cervello: dalle neuroscienze alle atmosfere

N.B. Quello che avete letto é un estratto dell’articolo originale, nel quale sono presenti anche delle riflessioni sulla pressione selezionista e sulla trasformazione in senso operativo dei concetti, oltre che un’estesa introduzione sul modo in cui la dinamica della parola si forma in accordo con la dinamica degli oggetti materiali. Per avere l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger o tramite mail.

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1Herbert Marcuse, One-dimensional Man, Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society. (Boston:Beacon, 1964).

2 Ibid., 73.

3 Ibid., 81.

4 Ibid., 76.

5 Ibid., 81.

6 Si veda la nota a pagina 84, in cui viene indicato il libro: Roethlisberger and Dickson, Management and the Worker (Cambridge: Harvard University Press, 1947).

7 Ibid., 83.

8 Ibid., 77.

9 Ibid., 19.

10 Ibid., 126.

11 Ibid., 55, 56.

12 Ibid., 65, 66.

13 Ibid., 67.

14 Ibid., 19.

15 Ibid., 25.

16 Ibid., 60-61.

17 Ibid., 64.

18 La varietà dei dispositivi concettuali sottesi dall’espressione “logica formale” trova la sua unità nell’essere una rete la cui natura è altra (più visibile e definita) dal nocciolo più originario e libero del pensiero. In Marcuse il polo che si contrappone all’insieme delle strutture formali è la logica dialettica: “The contemporary mathematical and symbolic logic is certainly very different from its classical predecessor, but they share the radical opposition to dialectical logic. In terms of this opposition, the old and the new formal logic express the same mode of thought.” Ibid., 103.

19 Ibid., 101.

20 Ibid., 101.

21 Ibid., 123.

22 Ibid., 15.

23 Ignacio Ramonet, “La pensée unique,” Le Monde diplomatique, gennaio 1995.

24 In Marcuse il benessere crescente è presentato essenzialmente come conseguenza della produttività crescente e dell’avanzata tecnologica (“…a rising standard of living is the almost unavoidable by-product of the politically manipulated industrial society, once a certain level of backwardness has been overcome.” Herbert Marcuse, One-dimensional Man, 45), ma è anche indicata la relazione con la presenza di un nemico strutturale (“The economic and political connection between the absolute enemy and the high standard of living […] is transparent enough, but also rational enough to be accepted.” Ibid., 65).

25 Ibid., 181-182.

26 Ibid., 163.

27 Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

28 Manuel Cappello, Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche, 2017.

29 Per esempio in base alla suddivisione proposta da Panksepp fra 1) livello primario delle emozioni, 2) livello secondario dell’apprendimento e della memoria e 3) livello terziario delle funzioni superiori. Ibid., 9.

30 Marcuse non ha espresso chiaramente una posizione simile a quella appena descritta, e non aveva visto esattamente il modo in cui la scienza poteva costruire un discorso sui valori, ma aveva individuato la tendenza per cui la scienza stava conquistando anche il dominio della metafisica “…on technological grounds, the metaphysical tends to become physical.” Herbert Marcuse, One-dimensional Man, 162.

“Coscienza e cervello” di Stanislas Dehaene: sintesi dei concetti fondamentali

Nel suo libro Coscienza e Cervello1, Stanislas Dehaene ci parla di come sono organizzati lo spazio cosciente e l’elaborazione inconscia dell’informazione. All’inizio del nostro articolo daremo subito una descrizione concisa di queste strutture e delle cosiddette firme del pensiero cosciente. Parleremo quindi di alcuni fenomeni sperimentali significativi e delle applicazioni cliniche, finalizzate ai pazienti nei quali il normale funzionamento dello stato di veglia è compromesso. Vedremo come questa visione del cervello si interseca con la nostra comprensione dei mondi di vita del bambino, dell’animale e della malattia (più in particolare della schizofrenia). Accenneremo infine al modo in cui la visione “cognitiva” di Dehaene potrebbe incontrare quella delle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp.

 

COSCIENZA ED INCONSCIO

Dehaene insegna psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France ed è a capo del più avanzato laboratorio francese di neuro-imaging. Il suo cognome si pronuncia Dehan, con l’acca aspirata e l’accento sulla e. Se Jules Verne ha scritto Viaggio al centro della Terra, Dehaene ci racconta il viaggio degli stimoli che dalla periferia degli organi di senso riescono ad attraversare i territori dell’elaborazione inconscia, fino ad accedere alla coscienza centrale. È un viaggio lungo in termini di complessità attraversata, ma dura soltanto alcune frazioni di secondo.

I processi inconsci di elaborazione degli stimoli sono circoscritti in zone specifiche del cervello, come è il caso, ad esempio, della corteccia visiva o di quella uditiva. Questi processi inconsci sono soggetti ad un rapido decadimento, a meno che riescano a coalizzarsi in strutture più estese e a penetrare attraverso regioni successive della corteccia cerebrale. La zona di elaborazione inconscia è popolata da una moltitudine di stimoli che in frazioni di secondo si originano e tentano la via verso la coscienza, la quale si configura come uno spazio di condivisione globale dell’informazione. Solo pochi dei processi inconsci però, riescono a raggiungerla: la maggior parte di essi ricade nell’indifferenziazione da cui si erano sollevati.

Nel corso di una festa per esempio, vi sono molte voci che arrivano all’apparato uditivo e subiscono una prima elaborazione inconscia, ma di queste solo la voce su cui siamo concentrati arriva alla coscienza, oppure la voce di qualcun altro che ha appena pronunciato il nostro nome (il quale viene riconosciuto a livello inconscio). L’elaborazione del contenuto verbale di tutte le altre voci si ferma in qualche stadio di elaborazione inconscia e non entra in coscienza. Qui è evidente come i processi di elaborazione inconscia costituiscano una sorta di pre-selezione del materiale destinato ad essere elaborato dallo spazio cosciente.

Come già accennato, i processi inconsci di elaborazione iniziale degli stimoli sono specifici e fra loro isolati, nel senso che possono accedere soltanto ad altri processi limitrofi, e non sanno ciò che avviene nelle parti lontane del cervello. Lo spazio cosciente invece ha per caratteristica quella di condividere l’informazione proveniente da molte zone diverse del cervello fra loro distanti.2 Le informazioni che entrano a far parte della coscienza possono essere mantenute attive per un intervallo prolungato di tempo, indipendentemente dalle circostanze esterne. Tali informazioni diventano disponibili per le altre regioni del cervello e ne influenzano l’azione. La capacità di produrre espressioni verbali è un tratto caratteristico dello stato di integrazione rappresentato dallo spazio cosciente.3

Da un punto di vista anatomico, la struttura dello spazio cosciente condiviso si fonda su di un sistema di connessioni a lunga distanza (parecchi centimetri). Questa rete è costituita dai neuroni piramidali, caratterizzati da un corpo cellulare di dimensioni notevoli, da assoni molto lunghi per trasmettere i segnali, e da ramificazioni dendritiche con migliaia di spine ricettive.4

La rete di connessione a lunga distanza è caratterizzata dalla reciprocità, per cui se vi sono delle connessioni dal punto A al punto B della corteccia cerebrale, solitamente ve ne sono anche in direzione opposta, dal punto B al punto A. Vi è inoltre la tendenza a formare connessioni triangolari (e quindi a formare dei percorsi ad anello), nel senso che se vi sono connessioni dal punto A al punto B e dal punto A al punto C, allora si avranno facilmente connessioni anche tra il punto B e il punto C. Queste forme di reciprocità connettiva tendono ad avere un effetto auto-stabilizzante.5

Gli stimoli che riescono a compiere solo la parte iniziale del percorso di elaborazione sono chiamati subliminali, e non sono accessibili da parte della coscienza. Gli stimoli denominati precoscienti sono invece quelli che hanno compiuto dei passi ulteriori per accedere allo spazio centrale. Questi stimoli non sono ancora coscienti, ma dirigendo in modo opportuno la nostra attenzione è possibile recuperarli.6

Dehaene prende in esame il modo in cui i frammenti di informazione entrano nel dominio cosciente. Si tratta di un discorso centrato sul processo percettivo, con la possibilità dunque di costruire esperimenti in laboratorio. Gli stimoli sono il punto di partenza esterno chiaramente osservabile, mentre l’osservazione dell’output (lo stato del cervello) può compiersi con i metodi di brain-imaging. Dehaene si occupa meno di ciò che si intende per inconscio quando con questa parola ci si riferisce all’influenza di antiche memorie. In tal caso infatti vi è una sorgente di informazione interna alla mente (le strutture della memoria), più difficile da gestire in una situazione sperimentale.

Dalla nostra lettura di Dehaene sembra plausibile che il modo in cui le memorie entrano in coscienza sia assimilabile al modo in cui entrano in coscienza gli stimoli sensoriali. Ne segue che l’inconscio non si presenterebbe come una sorta di scantinato nel quale si aggira una personalità nascosta che ad un certo punto può saltare fuori. È solo nella sfera cosciente che sussisterebbe una personalità completa, attiva ed integrata. L’inconscio inteso come sedimentazione delle nostre esperienze di vita esisterebbe sì, ma non come un giardino dove i ricordi continuano una loro vita attiva indipendente, bensì piuttosto come un ricco deposito di impronte che tornano vive quando noi vi accediamo deliberatamente (là dove è possibile) o quando vengono risvegliate dall’attivazione di connessioni inconsce.7 8 9

Leggendo Dehaene – La fioritura del pensiero cosciente
Mi piace immaginare il brulicare dei processi inconsci come una schiera di germogli fluidi che si avvicendano tentando l’accesso alla zona cosciente, la quale offre loro la possibilità di integrarsi al resto della vita mentale giungendo a piena fioritura. (Bisognerebbe aggiungere dei fiori già sbocciati ma sbiaditi e nascosti negli anfratti, a simboleggiare le tracce delle memorie di vita che possono essere recuperate a nuova vita)

LA RILEVAZIONE DELLA NOVITÀ ED IL BRUSIO DI FONDO

Nel corso della sua esposizione Dehaene ha modo di richiamare l’attenzione su un paio di modalità di funzionamento tipiche della corteccia cerebrale. La prima di esse è la tendenza…

(… parte omessa nella pubblicazione web. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail…)

LE FIRME DELLA COSCIENZA

Ciò che Dehaene chiama firme della coscienza sono delle proprietà dell’attività neurale che corrispondono non tanto a uno stato continuo di veglia o di vigilanza, quanto all’ingresso nella coscienza di una specifica informazione. Le firme della coscienza non si attivano invece quando l’elaborazione dello stimolo si arresta ad un livello precosciente.

La prima firma della coscienza è costituita semplicemente dall’invasione di molte regioni del lobo parietale e di quello prefrontale da parte del segnale sensoriale. La seconda firma della coscienza è data dalla cosiddetta onda P3. Si tratta di un intenso voltaggio rilevato nella parte superiore della testa. Tale intensità è da intendersi relativamente, trattandosi comunque di pochi microvolt. Quest’onda comincia circa 3 decimi di secondo dopo la presentazione dello stimolo, ma si presenta soltanto se lo stimolo viene riconosciuto a livello cosciente.

La terza firma della coscienza è un aumento notevole dell’attività elettrica del cervello nelle frequenze alte, quelle sopra i 30 Hertz, chiamate onde gamma. La quarta firma è la sincronizzazione di parti del cervello poste a grande distanza fra loro (parecchi centimetri). Questa sincronizzazione avviene alle basse frequenze (alfa e beta), e costituisce un presupposto per la comunicazione reciproca fra tali aree. Anche la terza e la quarta firma emergono con un terzo di secondo di ritardo rispetto alla presentazione dello stimolo.

Il ritardo dell’onda P3 e delle altre firme della coscienza corrisponde al fatto che la nostra rappresentazione del mondo esterno viaggia con un ritardo di almeno tre decimi di secondo rispetto alla realtà circostante. Questo ritardo è compensato in parte dall’esistenza di molti servo-circuiti incoscienti che gestiscono l’esecuzione di azioni automatiche in modo più rapido rispetto all’elaborazione cosciente.10 Per mantenere il coordinamento con la realtà esterna inoltre, il nostro cervello costituisce continuamente un’anticipazione sensomotoria di ciò che sta per accadere.11 Quando si verifica un imprevisto succede dunque che ci troviamo, per un istante, nella posizione di apprezzare una sfasatura fra la realtà corrente e la nostra previsione. Dehaene fa l’esempio del bicchiere di latte che cade perché urtato accidentalmente. Vorremmo prenderlo al volo, ma possiamo solo osservare la lentezza della nostra reazione.

ALCUNI FENOMENI SPERIMENTALI

Dehaene descrive una grande varietà di fenomeni sperimentali, tra i quali particolarmente significativi sono le immagini subliminali, la rivalità binoculare, la cecità disattenzionale, la visione ceca, la valutazione di appropriatezza al contesto.

Le immagini subliminali sono immagini presentate al di sotto (sub-) di un certo tempo limite (limen), che corrisponde a circa 50 millisecondi. A causa del brevissimo tempo di presentazione queste immagini non arrivano alla coscienza, ma riescono comunque ad accedere alle prime zone del cervello dedicate all’elaborazione visiva, lasciando una traccia del loro accesso per un breve periodo di tempo, circa un secondo. Nei cosiddetti esperimenti di priming subliminale la presentazione subliminale di una parola accelera il successivo riconoscimento di quella stessa parola, se la seconda presentazione avviene entro un secondo dalla prima. L’accelerazione è dovuta al fatto che alcuni circuiti nervosi inconsci erano si già sintonizzati su quello stimolo.

La rivalità binoculare si ha quando si presentano all’occhio sinistro e all’occhio destro due immagini fra loro scollegate, ad esempio per mezzo di un sistema di specchi o con degli schermi opportunamente allestiti. Ciò che succede è che la visione oscilla tra un oggetto e l’altro, ad esempio tra un volto e una casa. L’oscillazione avviene a livello inconscio, ed è al di fuori della portata della decisione consapevole di seguire una o l’altra immagine.

Un esperimento interessante che si può fare è presentare il volto e la casa con immagini oscillanti a frequenze diverse, così che poi si possa riscontrare la traccia di una o dell’altra immagine per mezzo di un elettroencefalogramma. Nelle prime fasi dell’elaborazione visiva sono presenti contemporaneamente entrambi gli stimoli (la casa ed il volto), mentre a partire da un certo punto del processo di elaborazione è presente soltanto uno stimolo oppure l’altro, che si alternano nel tempo.

La cecità disattenzionale consiste nel fatto che quando si è concentrati su un determinato aspetto della scena si diventa incapaci di notare i cambiamenti che si svolgono in altre zone dell’ambiente osservato. Questo implica che vi sia una focalizzazione dell’attenzione cosciente sui flussi inconsci che provengono da determinate zone della realtà, e la concentrazione su un determinato contenuto tende ad impedire l’accesso in coscienza di altri contenuti. Un esempio famoso è quell’esperimento dove si chiede ai partecipanti di contare il numero di passaggi in una partita di basket, e intenti nel contare non ci si accorge che un attore vestito da gorilla entra in campo nel mezzo della partita, battendosi le mani sul petto prima di andarsene.12

La visione cieca si ha quando il soggetto non ha una coscienza visiva integra della situazione circostante (a causa di malattie o traumi), ma nonostante questo…

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IN OSPEDALE

All’inizio del capitolo sei Dehaene fornisce una descrizione degli stati principali di coscienza danneggiata. Il caso peggiore è quello della morte cerebrale, che è facilmente identificabile perché i neuroni muoiono, non sono più in grado di attivarsi elettricamente, e le memorie vanno a perdersi definitivamente col dissolvimento della struttura cellulare. Nel caso del coma invece, il paziente non è in grado di risvegliarsi per un periodo prolungato (per più di un’ora), ma le cellule cerebrali sono integre, come si può riscontrare facilmente dall’attività registrata con l’elettroencefalogramma. Molti pazienti in stato di coma si risvegliano tornando ad avere funzioni normali, ma alcuni di loro si risvegliano rimanendo insensibili, recuperano l’alternanza fra sonno e veglia ma non danno segni di consapevolezza: questo è lo stato vegetativo. Il problema è che dietro la maschera esterna dello stato vegetativo si nascondono dei casi in cui i soggetti mantengono la coscienza, e non è facile identificarli.

Nel 2006 si è accidentalmente trovata una paziente in stato vegetativo nel cui cervello si attivavano reti cerebrali distinte a seconda dei pensieri che le venivano richiesti a voce. Con la risonanza magnetica funzionale è possibile osservare che nel cervello si attivano aree diverse a seconda che si stia immaginando di giocare a tennis oppure di muoversi nel proprio appartamento. Nel primo caso il focus è sull’attività motoria, mentre il secondo compito è assimilabile ad un orientamento nello spazio. Nel 2010 è stato organizzato un esperimento in cui ad un altro paziente in stato vegetativo è stato chiesto se aveva dei fratelli. Il paziente doveva pensare di giocare a tennis per dire di sì e di visitare il proprio appartamento per dire di no. Il paziente rispose correttamente a 5 domande su 5.

Il problema è che compiere questo tipo di analisi implica costi molto alti per via dei macchinari necessari. Nel 2008 Dehaene ed alcuni suoi colleghi hanno intrapreso…

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I DINTORNI DELL’UOMO

L’uomo si sviluppa dall’animale nel corso del processo evolutivo, emerge dal bambino nel corso della crescita, e può darsi il caso che nel corso della sua vita incontri la malattia. Dal nostro sapere sulla coscienza ci aspettiamo che vengano suggerimenti su ciò che accomuna e distingue l’uomo adulto da questi mondi vitali ad esso limitrofi: il bambino, l’animale, la malattia.13

I BAMBINI

Come abbiamo visto la coscienza è associata ad uno spazio globale costituito da connessioni tra zone del cervello molto distanti fra loro. Queste connessioni iniziano a formarsi…

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VERSO UNA GRANDE SINTESI

Chiudo l’articolo ricordando un altro importante studioso che recentemente ha proposto un’ampia visione del cervello: Jaak Panksepp. Panksepp propone di considerare il cervello distinto in tre livelli. Il livello primario riguarda le strutture più antiche del cervello, quelle più vicine al tronco cerebrale, e contiene tra l’altro le strutture nervose collegate alle emozioni fondamentali di cui Panksepp si occupa (paura, aggressività, eccitazione sessuale, cura, pena della solitudine, gioco, SEEKING/voglia di fare)14. Il livello secondario riguarda soprattutto i meccanismi di apprendimento e memoria, mentre quello terziario riguarda le funzioni più elevate, che hanno la corteccia cerebrale come organo principale. I processi terziari sono quelli su cui è centrato il discorso di Dehaene.

Dunque, se Dehaene si occupa soprattutto dei processi terziari e Panksepp di quelli primari, l’intuizione suggerisce che si possa creare una visione complessiva che tenga conto di entrambi i discorsi. Avremo dunque uno spazio neuronale globale come manifestazione di una coscienza che ha le sue radici nei sistemi emotivi collocati nel grigio periacqueduttale?15La scienza a volte sembra fatta di molte vallate fra loro isolate, e forse mettendo insieme le chiavi di interpretazione sparse qui e là è già possibile trovare la soluzione. Bisogna tenersi aggiornati: forse qualcuno sta già scrivendo il libro che aspettiamo.

 

1Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, 2014, Milano, Raffaello Cortina Editore. Titolo originale: Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Traduzione di Pier Luigi Gaspa.

2“…l’informazione non cosciente rimane confinata a un angusto circuito cerebrale, mentre l’informazione percepita coscientemente viene distribuita globalmente su gran parte della corteccia e per un tempo prolungato.” p. 188

3“Negli esseri umani, il formulatore verbale che ci consente di esprimere i contenuti della nostra mente è un elemento essenziale che può essere impiegato soltanto quando siamo coscienti” p. 155

4I neuroni più sviluppati da questo punto di vista si trovano nella corteccia prefrontale.

5Dehaene nota inoltre come “In pratica, tutte le regioni della corteccia direttamente interconnesse condividono a loro volta l’informazione tramite una via parallela d’informazione che passa attraverso un trasmettitore collocato in profondità nel talamo.” p. 233

Nello stesso passo Dehaene fa riferimento anche all’importante ruolo dei gangli basali e dell’ippocampo.

6“Per quanto ci sforziamo di percepirlo, uno stimolo subliminale non diventerà mai cosciente, laddove, invece, uno stimolo preconscio sì, se soltanto troviamo il tempo per occuparcene.”

7Non intendo certo dire che le impronte inconsce della memoria siano assolutamente immodificabili, ma che i processi a cui sono soggette sono qualitativamente differenti da quelli della vita cosciente. Considera in proposito questa affermazione: “Il nostro cervello si comporta come uno statistico esperto, che rileva regolarità significative nascoste in sequenze apparentemente casuali, e tale apprendimento statistico avviene senza sosta, in sottofondo, anche quando stiamo dormendo.” p. 122

8È interessante in proposito la teoria del riconsolidamento delle memorie, che prevede la possibilità di cambiare forma alle memorie una volta richiamate in coscienza. Si veda: Karim Nader and Einar Örn Einarsson, “Memory reconsolidation: an update,” Ann. N.Y. Acad. Sci. 1191, (2010), 27–41 doi: 10.1111/j.1749-6632.2010.05443.x

9C’è un passo a pagina 148 dove Dehaene contrappone la visione di un inconscio in rapido decadimento alla visione di Lacan per cui l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Al di là dell’ipotesi di Lacan, a noi sembra che la posizione espressa in questo passo da Dehaene sia adeguata a descrivere l’inconscio sensoriale, ovvero il destino delle informazioni sensoriali provenienti dall’esterno, ma non l’inconscio biografico, inteso come stratificazione delle memorie che costituiscono la nostra storia di vita.

“Molti esperimenti mostrano che, nel cervello, lo stimolo subliminale va incontro a un decadimento esponenziale. Riassumendo queste scoperte, il mio collega Lionel Naccache ha concluso (contraddicendo lo psicanalista francese Jacques Lacan) che “l’inconscio non è strutturato come un linguaggio, ma come un decadimento esponenziale”. Sforzandoci, noi possiamo mantenere viva per un periodo leggermente più lungo l’informazione subliminale; ma la qualità di questa memoria si degrada a tal punto che il nostro richiamo, dopo pochi secondi d’intervallo, supera a malapena il livello della casualità. Soltanto la coscienza ci permette di coltivare pensieri duraturi.”

10“I nostri occhi e le nostre mani reagiscono spesso adeguatamente proprio perché sono guidati da un’intera gamma di circuiti veloci sensomotori che operano al di fuori della nostra consapevolezza cosciente” p. 177

11“In pratica, tutte le nostre aree sensoriali e motorie contengono meccanismi di apprendimento temporale, che anticipano eventi del mondo esterno.” p. 177

12Il video si trova su Youtube cercando: Daniel Simons Gorilla

Sarebbe interessante considerare questa resistenza della coscienza insediata per mezzo dei concetti di individuazione e metastabilità come sono stati sviluppati da Gilbert Simondon.

13Vi sarebbe almeno una quarta provincia da aggiungere ai dintorni dell’uomo: lo sviluppo di simulazioni software del funzionamento del cervello. Dehaene parla di una simulazione del cervello da lui sviluppata per verificare le dinamiche delle firme della coscienza. Per sviluppare tale simulazione ha preso di riferimento la colonna talamo-corticale come “unità computazionale di base del cervello dei primati”. Cf. p. 246

Inoltre: “In Europa si stanno riunendo forze di ricerca per il Progetto Cervello Umano (Human Brain Project), un epico tentativo di comprensione e di simulazione di reti corticali delle dimensioni di quella umana.”

14Nel campo delle emozioni Dehaene fa riferimento all’amigdala; ricordiamo che secondo Panksepp l’amigdala è meglio interpretabile come un canale di trasmissione, non una sorgente.

15Per approfondire la visione di Panksepp vi suggerisco il libro divulgativo da me pubblicato: “Le emozioni di base secondo Panksepp”.

L’assimilazione nel pensiero di Jean Piaget. In vista del gioco.

In questo post daremo anzitutto una descrizione dell’assimilazione e dell’accomodamento così come sono intesi da Piaget. Successivamente proporremo un’interpretazione dell’assimilazione come una forma di omeostasi. Tale interpretazione è finalizzata ad una ricerca sulla natura del gioco, e prende spunto dal fatto che Piaget interpreta il gioco come una forma di assimilazione.

ASSIMILAZIONE E ACCOMODAMENTO 1 2

Il concetto di assimilazione, fondamentale nella teoria di Jean Piaget, è impiegato dal famoso psicologo svizzero per evidenziare l’aspetto sistemico degli organismi viventi. L’assimilazione viene contrapposta ad altri strumenti teorici quali la sequenza stimolo-risposta ed il concetto di associazione, coi quali spesso si isolano parti dei processi organici senza tenere conto adeguatamente della complessità interazionale propria dei viventi.

Al fine di concretizzare l’idea di assimilazione prendiamo come esempio il caso del cibo. L’assimilazione delle sostanze ingerite ha luogo grazie ai processi chimici che le trasformano rendendole assimilabili, appunto, da parte delle strutture organiche situate all’interno del corpo. Piaget considera l’assimilazione come un concetto valido sia per la dimensione organico-biologica sia per quella del comportamento. L’assimilazione è intesa come il processo per cui gli elementi esterni vengono ricondotti alle strutture già esistenti nell’organismo.

L’assimilazione assicura la continuità dell’organismo, ma non è un principio che agisce da solo. Se ci fosse solo assimilazione, l’organismo non sarebbe soggetto a sviluppo. L’assimilazione è accompagnata dal suo processo complementare, chiamato accomodamento. L’accomodamento è il processo per cui le strutture esistenti cambiano a causa dei nuovi elementi che vengono assimilati.

Piaget porta un esempio relativo al bambino che si succhia il pollice. In questo caso diciamo che il pollice è stato assimilato, incorporato, nel processo del succhiare, il quale originariamente avveniva solo col seno della madre. Nel contempo è avvenuto un accomodamento del processo del succhiare: l’articolazione dei movimenti del succhiare è cambiata adattandosi alla diversa conformazione del pollice rispetto al capezzolo della madre.

Va precisato che nella teoria di Piaget assimilazione ed accomodamento non sono due processi ben precisi, unicamente determinati e quindi fisicamente rintracciabili nell’organismo o nella psiche. Si tratta piuttosto di due categorie che funzionano bene per descrivere le strategie dell’organismo corporeo e psichico, e che possono venire utilizzate a diversi livelli di analisi.

ASSIMILAZIONE ED OMEOSTASI

Dopo aver esposto l’idea di assimilazione come è intesa da Piaget, proveremo ora a connetterla con l’idea di omeostasi. A tal fine abbiamo sintetizzato in un altro post il concetto di omeostasi, che consideriamo essere il mantenimento delle condizioni interne di un organismo vivente.

Ora, mi pare abbastanza evidente che in prima approssimazione l’assimilazione può essere concepita come un caso di omeostasi, nel senso che assimilando gli elementi esterni alle strutture esistenti si mantengono tali strutture.3 Siamo però subito indotti a fare alcune precisazioni.

Abbiamo visto in precedenza che il concetto di omeostasi, nato in riferimento agli organismi viventi, può essere esteso all’ambito ingegneristico, nel quale il mantenimento dello status quo si realizza attraverso la gestione di un piccolo numero di variabili numeriche, che esprimono ad esempio la temperatura di una stanza o l’acidità di un bagno chimico. Il caso dello schema senso-motorio del succhiare però, non è riducibile ad una situazione così semplificata.

D’altra parte, il mantenimento di uno schema di comportamento non è nemmeno identificabile al mantenimento di un fondo composto da un denso tessuto di relazioni chimico-fisiche4. Sembra piuttosto che si abbia a che fare con una struttura ben definita, là dove invece il concetto di omeostasi si origina come mantenimento di un mezzo (il milieu di cui parlava Claude Bernarde) che si pone come un ambiente da cui le strutture definite possono emergere. L’omeostasi vera e propria mantiene un mezzo, un apeiron, un fondo indifferenziato, un terreno. L’assimilazione invece (almeno nell’esempio citato) sembra riguardare più delle strutture ben precise e distinte, un sistema di cose specifiche, e non un fondo indistinto e generatore.5

Il concetto di assimilazione ci interessa soprattutto in quanto Piaget interpreta il gioco come una predominanza dell’assimilazione.6 Ora, una manifestazione fondamentale del gioco negli uomini e negli animali è il gioco di lotta, che ha per proprietà l’alternanza fra momenti di attacco e di difesa (là dove vince sempre lo stesso individuo, il gioco tende a finire). A noi è parso che impiegando l’omeostasi per spiegare l’assimilazione si ottenesse la possibilità di impiegare il concetto di ciclo omeostatico (si veda l’articolo sull’omeostasi per comprendere meglio a cosa mi riferisco) per comprendere meglio l’alternanza di ruoli difensivi e d’attacco nel corso del gioco di lotta. Questa alternanza potrebbe essere un’esemplificazione della tendenza dell’organismo a a ripetere i propri cicli nello spazio delle fasi.7

Va ricordato che quella appena enunciata è soltanto una possibilità intravista, la situazione necessita di essere approfondita, e quanto qui proponiamo sono soltanto delle riflessioni preliminari. Che effettivamente il gioco sia interpretabile come assimilazione e come omeostasi, credo dipenda in ultima analisi da come si impostano questi concetti.

Da tutta questa riflessione nasce però una domanda che mi pare avere una natura più decisiva. Se il gioco è interpretabile come il mantenimento di un profilo mentale elevato rispetto allo strato percettivo, allora potremo chiederci: ciò che è mantenuto dal gioco ha più la natura di un fondo continuo o di una struttura definita e discreta?

Ricordo che questo post si inserisce in una ricerca sulla natura del gioco che prende lo spunto dal fatto che il gioco è una delle sette emozioni fondamentali identificate da Jaak Panksepp nell’ambito delle neuroscienze affettive.

Chi è interessato all’argomento del gioco potrebbe trovare interessante la lettura dei seguenti articoli:

“Gioco e Realtà” di Donald Winnicott: una sintesi teorica

Una pedagogia del gioco? Scelta, meraviglia e godimento

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Assimilazione, omeostasi, gioco

1Piaget J. (1976) Piaget’s Theory. In: Inhelder B., Chipman H.H., Zwingmann C. (eds) Piaget and His School. Springer Study Edition. Springer, Berlin, Heidelberg

2Piaget J. (1972) La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia Editrice, Scandicci (FI). Titolo originale: La formation du symbole chez l’enfant. (1945). Traduzione di Elena Piazza.

3Anche l’insieme del processo di assimilazione e di accomodamento potrebbe essere considerato come un’omeostasi. Ovviamente in un caso e nell’altro cambierà la concretizzazione esatta di ciò che consideriamo essere il processo omeostatico.

Nota che mettere sullo stesso piano l’omeostasi e l’assimilazione implica che le strutture preservate dall’assimilazione siano assimilabili al mezzo preservato dall’omeostasi.

4Si potrebbe far notare che anche il microclima interno alle stanze della casa e la condizione fisica del bagno chimico non si risolvono in un piccolo numero di variabili, ma il punto è che la complessità concreta di tale microclima e del bagno chimico non partecipano al sistema di regolazione omeostatico ingegneristicamente realizzato. Ciò che vi partecipa sono solo il valore della temperatura e quello del Ph.

5Le strutture mantenute dall’assimilazione sembrano avere una natura intermedia tra quella di un fondo diffuso e quella di un piccolo numero di variabili ingegneristiche.

Certo le cose specifiche possono aver bisogno di emergere da un fondo, e forse sono un processo che fluisce con continuità da un fondo. Nondimeno penso che sia meglio tenere vicina l’idea di omeostasi al concetto di fissità del mezzo interiore. Volendo si potrebbe concepire uno spettro che si estende da ciò che è fondo indistinto e generatore a ciò che cataloghiamo come ente, come struttura ben definita e distinta (a tale scopo può essere utile immaginare un tessuto di molteplici strutture che finisca per essere assimilabile ad un mezzo. Così come tante strutture molecolari formano un fluido). Di conseguenza avremmo uno spettro dell’azione del mantenere che andrebbe dal mantenere un mezzo (l’omeostasi) al mantenere una struttura precisa (il che può coincidere con almeno alcuni casi di assimilazione).

6“L’equilibrio progressivo tra l’assimilazione delle cose alla propria attività e l’accomodamento di quest’ultima rispetto a quelle sfocia infatti nella reversibilità caratteristica di quelle azioni interiorizzate che sono le operazioni della ragione, mentre il ruolo predominante dell’accomodamento caratterizza l’imitazione e l’immagine, e quello dell’assimilazione spiega il gioco ed il simbolo «incosciente»” Piaget 1972, p.7.

7Potremmo anche tentare di ricondurre parte di ciò che Piaget chiama accomodamento alla differenza, al rumore che caratterizza ogni ripetizione reale.

L’urgenza dell’agire, la libertà e la paura sedimentata (commentando Terminator)

Ho rivisto il primo film della serie di Terminator, quello del 1984, e me ne sono rimaste tre impressioni. La prima impressione è quella della distanza fra il nostro tempo e le atmosfere dei primi anni ottanta. Terminator non ha mai visto il volto di Sarah Connor, e ne cerca il nome scorrendo il dito sulla carta di una guida telefonica trovata in una cabina pubblica. Pare una razza umana diversa quella così vincolata agli oggetti non informatici, quella che non conosce la pratica di internet, dei social e degli smartphone.

Seconda impressione: la povertà dei personaggi. C’è una bella ragazza e c’è il bel ragazzo che arriva per salvarla dal nemico. Al di fuori della coppia e del nemico non vi sono altri ruoli di rilievo, e muoiono tutti come niente. Hai un valore se sei il combattente predestinato che salverà l’umanità intera, altrimenti, amen. Non vi è posto per l’idea, tra gli altri di Epicuro e del Mahabharata, che la ricchezza di una vita dipende dalla cerchia di persone di cui ci circondiamo. Come controesempio penso ad un film ricco di ruoli come il Padrino.

Terza impressione: l’azione del film mi ha preso. Il tempo vola. Dall’inizio alla fine c’è  qualcosa che sta per succedere. Non fa niente se lo scheletro del robot si muove a scatti, con degli effetti speciali da ridere. Questo non arriva a guastare l’atmosfera. C’è un senso di urgenza che ti prende.

Il terminator osserva la situazione, riflette, valuta la scelta migliore, e agisce in assoluta libertà dalle norme sociali. È questo il significato della facilità eccessiva con cui si uccide e con cui si sterza in mezzo al traffico incuranti dell’incolumità degli altri e dei danni causati al proprio corpo.

È questa la miglior incarnazione del senso di libertà? Assolutamente no, ovviamente per l’eccesso di violenza. Vi sono espressioni alternative della liberta che non coinvolgano la violenza? Certo che si. Un bell’esempio su due piedi potrebbe essere Captain Fantastic, e mi riprometto a breve di vedere Summerhill, di cui ora sto leggendo il libro.

Il giorno dopo aver visto il primo terminator ho voluto fare il bis e ho rivisto anche il secondo. Ed il senso d’urgenza qui te lo scordi. Nel primo episodio il terminator era sempre in arrivo, e l’incalzare del film si basava sull’alternanza di fuga e raggiungimento. Nel secondo episodio le atmosfere paranoiche di Sarah colorano il tono affettivo fondamentale. È come se nel primo film della serie vi fossero semplicemente delle cose pericolose, mentre nel secondo ci fosse qualcosa di diverso. Nel secondo episodio le cose pericolose sono condite con tanta riflessione sulla paura che permea di se le pareti bianche dell’istituto psichiatrico in cui Sarah Connor è rinchiusa.

Le cose pericolose incontrate in un mondo libero non ingessano l’azione, anzi, la scandiscono. Quando invece alla semplicità di un oggetto pericoloso circoscritto si sostituisce un timore diffuso ovunque, piu stratificato, l’orizzonte si chiude. E non conta quante volte si spara, quanto nera e pesante sia la mitragliatrice, e se le munizioni sono grosse come pere. Il senso dell’agire non dipende dalla quantità di esplosivo.

Tirate le somme, ciò che vorrei ricordare è questa differenza. Non è una differenza dovuta a una cosa presente in piu o in meno, ma al modo in cui le cose sono disposte e vengono allo sguardo. È quella libertà che nel film del 1984 c’era, e che in quello del ’91 già era persa.

Il concetto di omeostasi

In questo post daremo una descrizione canonica del concetto di omeostasi per poi proporre alcune riflessioni sui cicli che si possono sviluppare in un sistema omeostatico. Questo breve scritto é finalizzato a dare un’interpretazione dell’assimilazione (Piaget) in termini di omeostasi.1 2

L’omeostasi è la tendenza tipica dei viventi a mantenere inalterate le proprie condizioni interne rispondendo alle perturbazioni provenienti dall’esterno. È famosa l’espressione con cui nell’ottocento Claude Bernarde ne sintetizza il significato: “fixité du milieu intérieur”. In Italiano traduciamo con “stabilità del mezzo interno”, dove “mezzo” ha il significato di matrice o sostanza. La parola precisa “omeostasi” è stata coniata da Walter Cannon nel 1929. Omeo- significa “simile”, mentre stasi si riferisce all’azione dello stare. L’omeostasi è una sorta di “stare nello stesso posto”. L’uso del prefisso omeo- (simile) anziché omo- (stesso) evidenzia come nell’omeostasi non vi sia una fissità esatta dei parametri che identificano lo stato del sistema in esame, quanto piuttosto una fascia di valori all’interno del quale il sistema fluttua rimanendo funzionante.3

La temperatura corporea, la pressione arteriosa, la concentrazione di zuccheri nel sangue sono esempi di variabili che nell’organismo sono sottoposte a regolazione omeostatica. La sete ha una funziona omeostatica nello spingerci ad assumere liquidi per integrare quelli persi. Al livello cellulare l’omeostasi è quell’insieme di processi con cui si mantengono costanti le concentrazioni di certi elementi chimici all’interno della membrana cellulare.

L’omeostasi è un concetto che ha una possibilità di applicazione molto vasta. Diverse possono essere le variabili soggette a regolazione. Dalla composizione del liquido intracellulare si può andare, spostandosi nel campo dell’ecologia, all’equilibrio fra predatori e prede in un ambiente naturale. La concezione dell’intero pianeta come un organismo che mantiene il proprio equilibrio va sotto il nome di Gaia, ed è un altro esempio di omeostasi.4 Da un punto di vista ingegneristico possiamo ricordare l’esempio del riscaldamento di una casa, in cui le temperature rilevate dal termometro provocano l’accensione e lo spegnimento della caldaia per mantenere costante la temperatura, compensando gli scambi di calore fra la casa e l’ambiente esterno. Una situazione simile è quella della vasca di un impianto elettro-galvanico in cui il Ph (il grado di acidità) della soluzione deve rimanere all’interno di un certo range desiderato. Il sensore del Ph è allora collegato all’attivazione di due pompe distinte, una che aggiunge (ad esempio) acido solforico alla soluzione per abbassare il Ph, e l’altra che aggiunge soda per alzarlo.

Nel caso dell’impianto galvanico o del riscaldamento della casa la situazione si riduce ad un set ridottissimo di variabili. Abbiamo come input la temperatura ed il Ph, e come output l’azionamento della caldaia e delle due pompe chimiche. Nel caso invece degli organismi viventi abbiamo una molteplicità di valori regolati omeo-staticamente a diverse scale di grandezza, dalla cellula fino al corpo nella sua interezza. Possiamo parlare di omeostasi per descrivere ciò che accade nel riscaldamento di una casa o nella regolazione di un bagno chimico, ma dobbiamo aver ben presente che nel caso dell’organismo vivente siamo di fronte ad una enorme complessità del sistema e all’interazione reciproca di un numero smisurato di processi.

I CICLI PRODOTTI DALL’OMEOSTASI

L’omeostasi implica che si generino continuamente dei percorsi di ritorno all’equilibrio ogni volta che il sistema è stato spostato da tale equilibrio a causa di una perturbazione esterna. Assistiamo dunque ad incessanti viaggi che il sistema compie nel suo spazio delle fasi (la mappa, per così dire, dei possibili stati in cui il sistema si può trovare). Questi viaggi possono presentarsi come una serie di percorsi chiusi5 ogni volta diversi,6 interpretabili come una serie di anelli.7 In tal caso potremmo dire che ognuno di questi anelli consiste in una ripetizione caratterizzata da una certa specifica differenza, consistente nel particolare percorso di ciascun anello.

Quello di cui sto parlando non è un legame formale esatto fra il sussistere di un’omeostasi ed il verificarsi di cicli. Ciò che mi interessa notare qualitativamente è come il sussistere di un’omeostasi possa dar luogo a fenomeni che visti dall’esterno corrispondono ad una ripetizione di cicli, e dunque ad un’alternanza. Questo modo di intendere l’omeostasi è finalizzato all’interpretazione dell’assimilazione e del gioco nella teoria dello psicologo svizzero Jean Piaget, come vedremo meglio in un post successivo.

I cicli prodotti dall’omeostasi nello spazio delle fasi

1 http://www.treccani.it/enciclopedia/omeostasi/

2 Antonio Damasio, Hanna Damasio (2016) Exploring the concept of homeostasis and considering its implications for economics, Journal of Economic Behavior & Organization, Volume 126, Part B, 2016, Pages 125-129, ISSN 0167-2681, https://doi.org/10.1016/j.jebo.2015.12.003.

3 L’omeostasi è un idea che si adatta bene all’habitat concettuale idealista. Sembra in grado di far sussistere una stabilità a partire da radici che arrivano umili, molteplici e sfumate da molto, molto lontano. Il luogo dove si perde la loro origine è forse l’inafferrabile cosa in sé?

4 https://www.britannica.com/science/homeostasis

5 Si può dare il caso in cui i due percorsi si sovrappongano e che dunque sia più opportuno parlare di un oscillazione avanti ed indietro anziché di un percorso chiuso. Ma io sto pensando al caso in cui il sistema sia concreto ed abbastanza complesso da variare continuamente e rendere pressoché impossibile un semplice andare avanti e indietro, che corrisponderebbe al permanere immutate di tutte le altre variabili del sistema a parte quella sottoposta a controllo omeostatico.

6 Dipende ovviamente dal tipo di sistema concreto e dalle variabili che prendiamo in esame.

7 Al fine di evitare confusione, faccio notare che i disegni a forma di anello che si trovano facilmente in connessione al concetto di omeostasi si riferiscono solitamente alle sequenze causali fra i diversi elementi del sistema, e non ai percorsi seguiti dal sistema nello spazio delle fasi, che è ciò di cui sto parlando in questo articolo.

Il gioco di fantasia secondo Elkonin (nella tradizione di Vygotskij)

Nel novembre 2017 ho pubblicato un libro divulgativo sulle sette emozioni di base secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp (1943 – 2017), una delle quali corrisponde appunto al gioco. Da lì ho deciso di intraprendere una ricerca interdisciplinare sul modo in cui viene teorizzato il gioco. Dopo aver letto una serie di articoli appartenenti ad aree di studio molto differenti fra loro, penso di poter dire che vi sono due poli principali attorno ai quali si muove la teorizzazione del gioco. Uno di questi due poli è il gioco di lotta, diffuso in molti mammiferi fra cui l’uomo, ed esemplificabile facilmente con i cuccioli dei cani che si rincorrono e lottano alternandosi nei ruoli di sottomissione e dominanza. È essenzialmente questo il gioco a cui si riferisce la teoria dei sistemi emotivi di Panksepp. L’altro polo fondamentale degli studi sul gioco è il cosiddetto gioco di fantasia (in inglese pretend play). Uno studioso importante di questo soggetto è il russo Lev Vygotskij (1896 – 1934). Nel solco della tradizione psicologica che ha in Vygotskij il proprio riferimento (1) troviamo Daniil Elkonin (1904 – 1984), il quale ha sviluppato una descrizione del gioco di fantasia basata su quattro distinti livelli. Due studiose di area russa (E.O. Smirnova e O.V. Gudareva) hanno pubblicato nel 2015 un articolo in cui si impiegava questa distinzione in quattro livelli per valutare il grado di sviluppo del gioco di fantasia nei bambini in età prescolare (2). Lo scopo dell’articolo era comparare tale grado di sviluppo fra i bambini di oggi e quelli di alcuni decenni addietro. Il risultato è che al giorno d’oggi il livello di gioco di questi bambini appare meno sviluppato che in passato: “Dunque, sulla base dei risultati dell’osservazione, possiamo affermare che il livello di sviluppo del gioco tra i bambini in età prescolare è oggi molto inferiore rispetto ai loro omologhi a metà del secolo scorso. Solo alcuni bambini raggiungono una forma di gioco sviluppato (livello 4), soprattutto dopo i sei anni di età, dunque verso la fine del periodo prescolare. Questi dati sono essenzialmente in linea col punto di vista degli insegnanti degli asili nido e conferma il declino nelle attività di gioco dei bambini” (2, p.13).

Qui di seguito riporto una breve descrizione dei livelli di gioco basata sull’articolo di Smirnova e Gudareva.

LIVELLO 1 – Si usano soltanto giocattoli realistici. Vi sono delle sequenze, ma sono prive di una struttura fissa. I ruoli non sono predeterminati ma derivano dagli oggetti impiegati o dall’azione intrapresa. I bambini giocano da soli o vicini, senza che si creino gruppi ben definiti.

LIVELLO 2 – Le sequenze riproducono quelle delle azioni della vita quotidiana. Vi sono parole che indicano i ruoli, ma questi non sono ancora oggetto di discussione esplicita. Non vi sono ancora regole esplicite. I giocattoli non sono ancora scelti in anticipo. Iniziano le interazioni che originano gruppi piccoli e di durata limitata.

LIVELLO 3 – Il gioco consiste essenzialmente nel performare dei ruoli individuati già prima che il gioco cominci. I ruoli determinano le sequenze di comportamento, ed il bambino protesta se il comportamento non è conforme al ruolo. Emergono delle regole che vengono rispettate, anche rinunciando alla soddisfazione di altri desideri spontanei. I giochi sono scelti in anticipo. La narrativa si fa più complessa ed aumenta la durata del gioco.

LIVELLO 4 – Il focus del gioco si sposta sulle relazioni fra i ruoli, che sono definiti esplicitamente prima del gioco. Emerge una fase preparatoria. I gruppi divengono più durevoli.

P.S.

In Piaget si trovano dei riferimenti che potrebbero essere messi in connessione con questi 4 livelli del gioco. Si veda ad esempio questa osservazione: “Per quanto riguarda il simbolismo collettivo, limitiamoci a notare la maniera in cui J. ed L., continuando, a partire dai sette-otto anni, la loro collaborazione diventata sistematica (e non più episodica come al livello precedente) nei giochi di bambole e famiglia, sono giunte ad organizzare continuamente, per loro stesse e per T. (poi con T.), delle specie di “commedie” o rappresentazioni teatrali. All’inizio tutto era improvvisato e la commedia non consisteva che in un gioco simbolico collettivo con spettatori. Successivamente il soggetto veniva posto prima e discusso per grandi linee (a volte persino con preparazione dettagliata del principio), ma, una volta rappresentata la parte preparata, restava sempre un margine assai largo di sviluppi improvvisati. La fine, in particolare, non era mai prevista in una forma conclusiva.” (3)

 

(1) D.B. ELKONIN (2005) THE PSYCHOLOGY OF PLAY, Journal of Russian & East European Psychology, 43:1, 11-21, DOI: 10.1080/10610405.2005.11059245

(2) E.O. Smirnova & O.V. Gudareva (2015) Play and Intentionality Among Today’s Preschoolers, Journal of Russian & East European Psychology, 52:4, 1-20, DOI: 10.1080/10610405.2015.1184891

(3) Jean Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia, 1999, p. 204.

Idealismo e Realismo, un approccio filosofico semplice. Per valorizzare la dimensione emotiva.

Riporto qui di seguito la concezione di idealismo e realismo da me impiegata nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche”. Detto in estrema sintesi, l’idealismo mette in luce il nostro ruolo di attori costitutivi del mondo, e si pone quindi come una piattaforma concettuale adatta per approcciare la dimensione emotiva, evitando il rischio di appiattire la nostra concezione delle emozioni al solo piano delle cose materiali.

“L’opposizione fra realismo ed idealismo è vecchia di secoli, e non saremo noi qui in questa sede a venirne a capo, nondimeno è utile ai nostri scopi proporne un approccio semplice. Se io (realista) dico che c’è una realtà là fuori, subito tu (idealista) puoi farmi notare che c’è stato bisogno di un soggetto perché la mia affermazione potesse essere concepita, ma io (realista) posso risponderti che tale soggetto aveva bisogno di un sostegno materiale, ad esempio di un corpo con un sistema nervoso e poi tu (idealista) puoi di nuovo farmi notare che tutto questo discorso è creazione interna ad un soggetto.

È abbastanza facile vedere che queste due mosse possono essere concatenate una sull’altra a formare un battibecco illimitato. Un punto di equilibrio sano potrebbe consistere in una cornice di riferimento idealista che ospita al suo interno un realistico riconoscimento delle parti solide del mondo (in questo modo la percezione della solidità della realtà prevale sul suo trovarsi fuori o dentro). Siamo dunque idealisti nel considerare il mondo come una creazione del soggetto, e siamo realisti nel riconoscere le parti solide del mondo, che dobbiamo accettare così come sono e non rispondono al nostro desiderio immediato. Ad esempio io posso prendere la decisione di uscire di casa, ma riconosco realisticamente che la decisione di vedere la tastiera rossa anziché nera non sta nelle mie possibilità. Siamo idealisti, di nuovo, nell’assumere il punto di vista per cui il mondo è creato dall’uomo, più precisamente dal lavoro dell’uomo, dove tale lavoro si pone in tanti modi qualitativamente differenti, dal costruire un muro di mattoni allo scrivere un software, dal prendere decisioni politiche allo scrivere libri, dall’alzare un braccio al produrre la percezione per mezzo del sistema nervoso.

Le emozioni così come le abbiamo descritte hanno sia una parte solida, non modificabile, sia una parte che è raggiungibile dal lavoro dell’uomo. Noi non possiamo cambiare la radice biologica delle nostre emozioni, non possiamo alterare la loro collocazione anatomica, e non possiamo interferire direttamente coi processi chimici dei neurotrasmettitori. Possiamo però elaborare nuove prese cognitive per le situazioni che originano le emozioni. Possiamo costruire idee nuove per vivere equilibri emotivi diversi.

Noi non possiamo interferire con l’origine sotterranea del flusso emotivo, ma possiamo portare la nostra accoglienza consapevole sempre più vicina alla sorgente di questo flusso, pur senza mai toccarla. È proprio per favorire tale atteggiamento che troviamo adeguata una sensibilità idealista. Una concezione soltanto realista rischierebbe infatti di concepire le emozioni come un qualcosa di troppo fisso e predefinito, impedendo al senso interno di allenarsi a cogliere le sorgenti del vissuto.

La scienza vede il pensiero come una creazione del sistema nervoso, e questo corrisponde all’osservazione idealista che per dire qualsiasi cosa sul mondo serve un soggetto. Inoltre, in accordo con un approccio idealista come lo abbiamo descritto qui sopra, la scienza più recente pone un accento significativo sul fatto che il mondo è costruito dal nostro agire. Ad esempio, le qualità specifiche della vista non sono intrinseche al segnale che gli occhi mandano al cervello (né tantomeno a ciò che sta là fuori), ma dipendono da come i segnali dell’occhio cambiano in base al movimento dell’occhio stesso e dell’intero corpo. La qualità intrinseca del vedere dipende da come cambia l’informazione proveniente dagli occhi al cambiare dell’impulso motorio. Noi creiamo il vedere per mezzo del nostro agire, dove il nostro agire include l’attività del sistema nervoso.1

La posizione di riferimento che abbiamo scelto è idealista, ma c’è qualcosa di più fondamentale che decidere se vogliamo vivere la nostra vita sotto il titolo dell’idealismo o sotto quello del realismo. Questa cosa più fondamentale è l’accento posto sulle possibilità per l’uomo di costruirsi il mondo con il proprio lavoro, incluso il lavoro su sé stesso. È in tale ottica che continuiamo il nostro ragionamento con alcune osservazioni sulla percezione, con particolare riferimento a quella visiva.”

Estratto da: “Le emozioni di base secondo Panksepp”

1“…l’esperienza percettuale non è un evento interno o uno stato del cervello ma un’abile attività costituita in parte dalla conoscenza pratica (da parte di chi percepisce) del modo in cui la stimolazione sensoriale varia col movimento. Sensi differenti hanno diversi schemi di dipendenza sensomotoria, e chi percepisce ha una profonda ed implicita competenza di tali differenze. Nella visione, per esempio, quando l’occhio ruota, la stimolazione sensoriale della retina slitta e si deforma in un modo preciso, determinato dall’ampiezza del movimento dell’occhio, dalla forma sferica della retina, dalla densità variabile dei fotorecettori della retina dalla fovea alla parafovea, e via dicendo. Quando il corpo si muove in avanti, lo schema del flusso ottico della retina si espande, quando il corpo si muove indietro, si contrae. Quando gli occhi si chiudono durante i battiti delle ciglia, la stimolazione diviene uniforme (l’immagine retinale si svuota). Queste dipendenze sensomotorie sono distintivamente visuali, là dove quelle caratteristiche dell’udito e del tatto hanno strutture differenti.”

Evan Thompson, Mind in Life. Biology, phenomenology, and the sciences of mind, (Cambride: The Belknap Press of Harvard University Press, 2010), 254.

Per approfondire il tema si può fare ricerca su questa parola chiave: ‘sensorimotor contingency theory’.