In un post precedente abbiamo impiegato due metafore (gli impressionisti e la radice) per avvicinarci all’essenza dello sguardo fenomenologico. La fenomenologia tende a cogliere le impressioni immediate del pensiero così come gli impressionisti tentavano di cogliere direttamente le sensazioni luminose, dipingendo con macchie di colore ed evitando i contorni. La fenomenologia tende a circoscrivere la sua fiducia a “ciò che appare” (questo è il significato della parola fenomeno), e a non lasciarsi coinvolgere nelle elaborazioni cognitive successive, inclusa l’idea che le cose esistano. È come se la fenomenologia tendesse a cogliere ciò che in ogni pensiero e in ogni parola è radice, sforzandosi di separarla dal corso delle abitudini convenzionali che ad ogni passo del pensiero elaborano tale radice trasformandola in qualcos’altro.
Dal mio personale punto di vista lo sguardo della fenomenologia è importante per lo sviluppo di una sensibilità, per definire uno stile di vita, un sistema di valori, e, con un po’ più di coraggio, anche una forma religiosa nuova. Non sono sicuro di poter svolgere tema in modo compiuto, ma vorrei provare ad impostare un esempio.
Nell’esperienza di vita di un bambino vi sono dei colori e delle vivacità che nell’adulto sono spesso perse. Nel corso dello sviluppo incontriamo momenti di qualità che poi ci sfuggono, e tendiamo a pensare che questi episodi di felicità non siano recuperabili. È come se vi fosse in ogni periodo della vita una frontiera dello sviluppo di sé stessi che continuamente trasla e si evolve. Ed è come se restando in prossimità di tale frontiera si potesse provare una forma di gioia che si confonde col gioco e con la percezione del proprio accrescimento. Pensiamo ad esempio a quando il bambino impara ad afferrare gli oggetti, ad usarli, ad indicarli. Oppure a quando impara a stare seduto in equilibrio, e poi a muoversi a gattoni e quindi a camminare. La frontiera di cui parlo è simile a ciò che Vygotskij chiamava zona di sviluppo prossimale.1
A mio avviso, la sensibilità esercitata nella pratica della fenomenologia ci aiuta a raggiungere la consapevolezza delle zone dell’essere che mutano nel corso dello sviluppo. E qui si aprono due possibilità. La prima è che questa accresciuta consapevolezza ci aiuti a comprendere dove si trovi la nostra frontiera attuale, in modo da frequentarla. Perché quella frontiera è la zona dove possiamo esperire la gioia di sentire che si sta crescendo, spesso sotto forma di gioco. La seconda possibilità, più ambiziosa, è lo sviluppo di un nuovo vocabolario e di un modo di fare parola tali da evitare le chiusure di progresso. Ciò che mi pare di intravedere è che ci sono dei concetti e dei modi di parlare che possono estendere a tutta la vita dell’individuo quella gioia che si prova quando si impara a camminare.
Allo slittamento continuo della frontiera di sviluppo corrisponde uno spostamento della zona di gioco, e stabilire le condizioni adeguate al verificarsi del gioco potrebbe essere l’obiettivo verso cui far convergere gli sforzi di uno sguardo fenomenologico. Da questo ragionamento segue, tra l’altro, il bisogno di sviluppare una comprensione più profonda del fenomeno del gioco, che rappresenta una delle sette emozioni fondamentali individuati nell’ambito delle neuroscienze affettive. Non a caso, chi scrive è al momento impegnato in una ricerca interdisciplinare sul gioco.
Gli argomenti di cui sto parlando non sono molto dissimili dall’idea di Marcuse di una convergenza fra la dimensione del gioco e del lavoro2, e volendo si può anche stabilire un collegamento con gli studi di Csikszentmihalyi sull’esperienza di Flow3 (flusso), la quale ha caratteristiche simili al gioco ed implica un bilanciamento fra la sfida a cui siamo chiamati e le competenze che siamo in grado di padroneggiare. Il bilanciamento fra sfida e competenze possedute può essere infatti concepito come un collocarsi in prossimità della frontiera di noi stessi.
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1Lois Holzman, Zones of Proximal Development: Mundane and Magical, Chapter to appear in J. P. Lantolf, M. E. Poehner & M. Swain (Eds.), The Routledge Handbook of Sociocultural Theory and Second Language Development (Routledge Handbooks in Applied Linguistics), 2018.
2Marcuse, H. (1970) ‘The End of Utopia’, in H. Marcuse (ed.) Five Lectures: Psychoanalysis, Politics and Utopia, pp. 62–69. Boston, MA: Beacon Press.
3Nakamura J., Csikszentmihalyi M. (2014) The Concept of Flow. In: Flow and the Foundations of Positive Psychology. Springer, Dordrecht