L’intelligenza emotiva e l’anti-solitudine. Quando la regolazione emotiva diventa filosofia

Nei mesi scorsi ho letto Intelligenza Emotiva di Goleman e ne ho scritto una sintesi. È un libro che si mantiene interessante a più di vent’anni dalla prima edizione; tuttavia, c’è qualcosa nell’impostazione generale che non riesco a digerire.

Goleman dedica molto spazio a raccontare le storie di persone impazzite che fanno strage di minori, omicidi dovuti ad eccessi di rabbia, gravi litigi nati da futili motivi, crisi di coppia, figli maltrattati, ambienti di lavoro corrosivi e medici che non sanno entrate in empatia coi pazienti.

Goleman costruisce gran parte della sua narrazione riferendosi ad esempi tratti dalla cronaca nera, o comunque da situazioni dove l’emotività si lega ad un fallimento del vivere insieme. Nella sua narrativa le tre emozioni principali sono la rabbia, la paura e la tristezza-depressione. In tale visione, la persona emotivamente intelligente è quella che si destreggia meglio tra gli ostacoli-emozioni, evitando di inciamparvi.1

Vi sono alcuni aspetti di questa impostazione che mi interessa approfondire, ed a tale scopo potrà esserci utile un paragone fra Goleman e le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp.

Se Goleman è un abile conferenziere che usa molte storie tratte dalla quotidianità, soffermandosi molto sull’aspetto conflittuale degli intercorsi emotivi, se Goleman invoca una forma di intelligenza capace di porre ordine nel caos generato dalle emozioni, allora Panksepp è (lasciatemi usare un po’ di fantasia) il profeta delle emozioni.

Secondo Panksepp il nostro stare insieme non è il frutto della mediazione effettuata da una saggia ragione per mettere pace tra le scapestrate emozioni. Al contrario, il nostro stare insieme e il nostro essere sociali si fondano proprio su alcuni sistemi emotivi fondamentali quali la cura (l’amore materno), il gioco e la pena della solitudine. Queste emozioni fondamentali sono molto diffuse e sviluppate in particolare tra i mammiferi (noi inclusi), ed infatti i mammiferi si organizzano di frequente in compagini sociali che fra i rettili sono assenti.

Semplificando ulteriormente, Goleman dice NO a paura, rabbia e tristezza-depressione, là dove la mossa psicologica fondamentale di Panksepp è dire SI alla cura ed al gioco. Chi scrive preferisce nettamente l’impostazione di Panksepp, perché questi costruisce il suo discorso attorno all’affermazione di ciò che si desidera anziché attorno alla negazione di ciò che si vuole limitare. Negare un pensiero non è assolutamente la strategia migliore per tenerlo fuori dal lavorio della nostra mente. A tale scopo funziona meglio tenere la mente impegnata su un altro tema.2

Quanto detto finora lo avevamo già accennato in alcuni post precedenti, ma qui vorrei aggiungere qualcos’altro. Detto nel modo più semplice possibile, ci rendiamo conto che anche noi (seguendo Panksepp) costruiamo il nostro discorso organizzandolo attorno a una negazione importante, in modo simile a quanto faceva Goleman. Ci troviamo infatti ad organizzare il nostro sistema di valori dicendo NO alla pena della solitudine. Ed io mi chiedo se non vi sia la possibilità di sostituire questa negazione con un’affermazione che abbia un significato equivalente. Perché la negazione contiene sempre in sé un invito al proprio opposto, mentre l’affermazione è una base più solida su cui costruire.

Anziché ripetermi che non devo mangiare i carboidrati, farei meglio ad imparare le ricette che valorizzano le verdure; anziché immaginare tutte le possibilità di tradimento della mia compagna, farei meglio a creare momenti positivi insieme; anziché lamentarmi dei miei fallimenti, farei meglio a elaborare un nuovo progetto di vita. Lo schema è chiaro a sufficienza. Anziché spendere le energie mentali opponendosi a un certo fattore X, si dovrebbe lavorare per promuovere il suo opposto. Ma quale è l’opposto della pena della solitudine?

Panksepp in inglese indica questo sistema emotivo primario con la parola GRIEF. Noi abbiamo scelto di tradurre in italiano con l’espressione ‘pena della solitudine’ per indicare sia l’aspetto di dolore che è connesso a tale fenomeno, sia il fatto che una situazione caratteristica in cui si genera è l’assenza dei nostri simili. La pena della solitudine è il sistema emotivo che promuove il pianto nel bambino quando questi si rende conto dell’assenza della madre.3 Vi è in ciò qualcosa di molto simile alla comune idea di tristezza, ma, mentre la pena della solitudine è proprio una pena, a volte la tristezza può essere concettualizzata come una sorta di vaga consapevolezza che già porta in sé alcune note di conforto, dovute alla stratificazione cognitiva.

Chi abita, dunque, al polo opposto della pena della solitudine? Forse la vera amicizia, forse il canto, forse essere il destinatario di un prendersi cura. Forse la propria casa, forse la tradizione, forse una bandiera, forse la sensazione promossa da uno stupefacente a base di oppiacei di cui non sostengo l’impiego. Alcuni candidati ci sono, ma non è facile sceglierne uno come centro del significato che vogliamo esprimere. Più in generale, le parole che impieghiamo per indicare le nostre emozioni primarie sono il risultato di una stratificazione molto antica, e non si può avere la pretesa di ribaltarle con un ragionamento lungo appena lo spazio dell’articolo di un blog. Nondimeno, non riesco a rinunciare a quest’idea, che anziché fuggire il vuoto ed il disagio della solitudine ci troveremmo meglio se riuscissimo a indirizzare il nostro sguardo verso quella forma di calore e di benessere che si trova al capo opposto del sentire. L’inseguimento del caldo mi sembra un progetto di vita più costruttivo rispetto alla fuga dal freddo, ma mi manca l’appiglio linguistico con cui costruire l’affermazione che mi serve.

Antisolitudine come regolazione emotiva

Antisolitudine come regolazione emotiva

La parola anti-solitudine forse non esprime correttamente il (supposto) polo opposto della pena della solitudine, ma esprime bene l’esigenza che ho tentato di descrivere. È un’idea di cui abbiamo bisogno per dire come vogliamo vivere, per disegnare i paradisi verso cui vogliamo navigare anziché gli abissi che ci inquietano. Si tratta, se volete, di una forma di regolazione emotiva su scala filosofica.


NEL SEGUENTE ARTICOLO ABBIAMO ELABORATO ULTERIORMENTE L’IDEA DI UN POLO OPPOSTO ALLA SOLITUDINE: Edward Tronick, le emozioni nei bambini e il momento dell’incontro


Per approfondire il tema della regolazione emotiva ti consiglio di leggere i seguenti articoli:

La regolazione emotiva: Tre orientamenti (una panoramica sulle tecniche di regolazione emotiva)

Regolazione Emotiva: Distrazione e Reinterpretazione

1 Per non essere ingiusti verso Goleman bisogna dire che vi sono anche dei lati più ottimistici della sua prosa, e che la parte pessimistica è comunque verosimile. Ciononostante, nel discorso di Goleman le emozioni sono presentate troppo spesso come una fonte di caos che bisogna imparare a tenere sotto controllo.

2 “Specificare cosa non fare sembra avere un effetto contrario, perché dà risalto alla tentazione, rendendola più desiderabile e più difficile da controllare”

Mann, Traci, Denise de Ridder and Kentaro Fujita, “Self-regulation of health behavior: Social psychological approaches to goal setting and goal striving,” Health Psychology, 32(5), (2013), 487-498, p. 492. http://dx.doi.org/10.1037/a0028533

3 Panksepp, Jaak and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

Cappello, Manuel, 2017, Le emozioni di base secondo Panksepp. http://it.manuelcappello.com/2017/05/le-emozioni-base-secondo-panksepp/

Lascia un commento