HEIDEGGER, LA METAFISICA, L’ESSERCI E L’AZIONE

RIFLESSIONI SU “CHE COS’È METAFISICA?”

“Che cos’è metafisica?”[1] è un breve testo del 1929 in cui Heidegger tocca molti dei temi che saranno tipici del suo pensiero. In esso, allo scopo di mostrare cosa sia la metafisica, si tenta di rispondere alla seguente domanda: “Che ne è del niente?”. Quelle che seguono sono le mie riflessioni al riguardo.[2] I punti 1, 2 e 3 hanno una valenza introduttiva, mentre quelli successivi hanno un contenuto più tecnico.

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?
2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA
3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI
4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE
5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA
6 – IL NIENTIFICARE OSCURO
7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO
8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA
9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER
10 – INTEGRAZIONE

1 – METAFISICA NO; OPPURE SÌ?

Gli oggetti che ci stanno intorno sono la fisica, “meta” significa oltre, e la metafisica è un discorso che oltrepassa gli oggetti smettendo di guardarli. Noi non vogliamo la metafisica, perché non ci piacciono le astrazioni insipide e gli avvocati del ragionamento. Questi rendono il mondo sbiadito, mentre noi desideriamo stare immersi nel contesto concreto dei corpi delle donne e delle cene con gli amici. Abbiamo un debole per le onde del mare, per le fiamme del fuoco e per il fumo di sigaretta. Dunque Metafisica No, perché noi vogliamo il mondo.
Ma noi non ci accontentiamo di vivere il mondo lasciandolo immutato, come personaggi separati dal paesaggio: noi vogliamo una trasfigurazione. Il lavoro e lo studio producono una conoscenza la quale ci porta oltre la superficie degli oggetti materiali presente ai sensi, verso interpretazioni che si articolano fra concetti ed esperienze. Dunque Metafisica Sì, perché il nostro sguardo rende trasparente il mondo, e lo trasforma in un cielo composto dalle idee e dalle storie che abbiamo visto o vissuto.

A volte c’è una differenza evidente tra la metafisica che indebolisce il mondo e quella che lo trasforma in una situazione vivace di cristalli arcobaleno; altre volte la distinzione è più difficile da individuare. Sembra quest’ultimo il caso della prosa di Heidegger.

2 – UNA PROSA DIFFICILE – SOMMOZZATORI DI GERMANIA

Heidegger scrive in modo simile ad altri tedeschi, che chiudono gli occhi e si lasciano sprofondare in sè stessi, come dentro al mondo misterioso del dio del mare. Scendono dalle acque ancora chiare verso il profondo scuro, e nel corso di questa lenta discesa si guardano in giro e prendono nota minuziosamente di tutti i pesci che vedono da tutti i punti di vista. Ne descrivono il retro in relazione al davanti, commentano le differenze fra il sopra ed il sotto, annotano la posizione dei dettagli rispetto all’insieme. Gli piace di inventarsi nuovi nomi per ogni scorcio caratteristico della fauna o dei fondali. Non so se sono dei buoni scrittori, di certo sarebbero dei buoni fotografi.

Il risultato di questa attività di scrittura è un volume di parole che fa una certa impressione ma che non sembra un prodotto finito; assomiglia piuttosto ad un semilavorato da inviare ad una fase successiva di sfrondamento e riordinamento. Potremmo descrivere questo metodo come una narrativa automatica per elencazione, non creata da un istinto artistico: non c’è una preparazione dei personaggi prima della loro entrata in scena, ma un’esposizione minuziosa dei punti di vista che produce in automatico una massa di concetti fra loro collegati. Se tieni duro mentre leggi, alla fine ne ricavi qualcosa di buono.

Queste mie critiche sono una sorta di caricatura umoristica di alcune difficoltà che non arrivano ad intaccare il valore filosofico di Heidegger, ma che vanno tenute presenti avvicinandosi ai suoi testi. C’è la possibilità che il miglior approccio non sia una scalata faticosa in cui ogni nuovo termine costituisca lo spuntone di roccia da oltrepassare sul percorso che conduce alla vetta. Forse, sarebbe meglio non cominciare con la pretesa di avere ragione di ogni risvolto, ma con un atteggiamento più lieve, simile ad una passeggiata in un campo di fiori, per avere una vista d’insieme del paesaggio senza perdersi troppo nei dettagli. Ci sarà poi tempo per una riflessione che torni sui passi come un agronomo per assaggiare il terreno, come un botanico per prender nota dei fiori e delle erbe, o come un geometra per stendere una mappa del campo.

3 – UN LINGUAGGIO PARTICOLARE – L’ESSERCI

Passiamo gran parte della nostra esistenza percorrendo le nostre abitudini senza fare caso ad altro. Persi negli automatismi del pensiero non abbiamo percezione della struttura del mondo. Invece di riflettere sull’essenza degli oggetti li utilizziamo per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissati.

“Esserci” è un termine chiave del pensiero di Heidegger. Potremmo concepirlo come il nocciolo del pensiero cosciente che si ottiene quando si tenta (senza mai riuscirci del tutto) di eliminare dalla mente ogni figura visibile o udibile, ed anche ogni pensiero invisibile. Questo modo di porre in silenzio la mente interrompe i processi abituali del pensiero, e ci costringe a guardare al di fuori degli schemi forniti dall’abitudine, la quale passa oltre i propri contenuti senza soffermarsi sulla loro essenza.

C’è un altro modo in cui l’esserci concorre ad oltrepassare l’automatismo, portandoci ad assaporare l’intimità delle cose: utilizzando un termine inusuale per indicare un’abitudine consolidata si porta la riflessione a soffermarsi su tale abitudine. Impiegando il termine “esserci” per indicare quell’aggregato di abitudini consolidate che è l’individuo, si invita il pensiero ad esplorare i meccanismi della coscienza che solitamente si trovano nei retroscena della mente. L’impiego di un gergo particolare ha l’effetto di portare tali meccanismi alla ribalta. Il linguaggio originale di Heidegger consente di ricreare le scintille della novità, risvegliando l’attenzione per parti del pensiero altrimenti trascurate. D’altra parte l’allontanamento dal linguaggio comune rende i suoi testi accessibili soltanto ad una cerchia ristretta.

4 – PAROLE E PENSIERI SUL NIENTE: UNA CONTRADDIZIONE INSANABILE

Le parole sono abituate a gestire gli oggetti; di conseguenza, delle parole a riguardo del niente maneggeranno il niente come se fosse un oggetto. Ciò è in contraddizione con la concezione tradizionale del niente inteso come un non-ente, come l’opposto di ogni oggetto. Domandare del niente […] significa tradurre l’oggetto della domanda nel suo contrario.[3] Più in generale, il pensiero stesso è sempre pensiero di qualcosa, e come pensiero del niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza.[4]

Per evitare tale impasse, Heidegger impone che il niente sia più originario della negazione.[5] Di conseguenza considerare il niente come la negazione dell’ente diventa un fatto secondario, e non l’atto fondamentale di definizione del niente. Inserendo il niente in un contesto di parole o nel pensiero, la contraddizione comunque accade; ma essa smette di costituire un’obiezione totale alla possibilità di accedere al niente, possibilità che viene affidata a metodi diversi dal pensiero proteso alla definizione razionale.

5 – LA VIA DEI SENTIMENTI: L’ANGOSCIA

Heidegger utilizza i sentimenti come parte fondamentale del proprio discorso. Io non penso per questo ad una filosofia che diventa meno rigorosa; credo invece che vada modificata la percezione del sentimento, togliendolo dalla nebbia del romantico e considerandolo come funzione della specie umana.[6]

L’angoscia, con l’indeterminatezza che le è propria, è lo stato d’animo che porta l’uomo più vicino alla percezione del nulla. L’esperienza che si prova nell’angoscia è quella degli oggetti che perdono consistenza, ed è in tale occasione che il nucleo più intimo del pensiero ha modo di relazionarsi agli enti come ad un qualcosa di diverso da sè, perché li vede allonanarsi anziché essere perso in essi come capita nel quotidiano. Il niente è tale rinvio verso l’insieme delle cose che si allontanano dall’individuo.[7] In tal senso il niente diventa il presupposto grazie al quale il nocciolo della coscienza percepisce gli enti differenziati da sè stesso.[8]
Il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano. Pag 71[/ref] Se non vedessimo mai gli oggetti del mondo separati da noi stessi, non potremmo costruirci un’idea di noi stessi distinta da un’idea del mondo.

L’angoscia è la situazione in cui l’attività usuale di determinazione degli oggetti mentali è per qualche motivo compromessa; il senso più profondo del niente è la percezione di tale processo nel momento della sua difficoltà, mentre la norma è che esso funzioni come un buon automatismo senza dare nell’occhio.

6 – IL NIENTIFICARE OSCURO

È opportuno soffermarsi sulla terminologia utilizzata nel paragrafo precedente. Heidegger parla di un’attività nientificante del niente: Il niente nientifica ininterrottamente, senza che noi, col sapere in cui quotidianamente ci muoviamo, veniamo veramente a sapere di questo accadere.[9]Questo modo di esprimersi mi pare eccessivamente oscuro. Io preferisco ipotizzare un’attività positiva complementare a tale azione nientificante del niente, chiamandola attività di determinazione continua.[10] Se vi è più chiaro potete pensare ad un processo ininterrotto di costruzione di struttura.

7 – UNO SPOSTAMENTO DI SIGNIFICATO

Tirando le somme, anziché un recupero del niente tradizionale inteso come negazione dell’ente, l’operazione di Heidegger sembra una ridefinizione del significato del niente, che forse torna ad avvicinarsi alla sua essenza più antica,[11] staccandosi dall’idea di negazione dell’ente che è stata introdotta dai meccanismi linguistici in tempi più recenti. Tale ridefinizione del significato sembra giustificata proprio nella misura in cui consente l’accesso a strutture più originarie, e nel suo essere progressiva là dove rende possibile un discorrere sensato sul niente, scavalcando un vicolo cieco dell’intelletto.

8 – RELAZIONE DEL NIENTE CON LA METAFISICA

La domanda attorno al niente è metafisica in quanto provoca un andare oltre l’ente, là dove implica un ragionare che interrompe il consueto stato mentale nel quale l’uomo vive usando gli enti, rimanendo loro molto vicino e per così dire sovrapposto, senza arrivare a concepirsi come distinto da essi. Di più: il niente è il presupposto dell’esserci[12] e la metafisica è intrinsecamente contenuta nella struttura dell’esserci[13]
La metafisica è l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. Pag 77[/ref] il quale ha la caratteristica di trascendere l’ente, di differenziarsi da esso.[14]

Oltre a ciò, la domanda relativa al niente ha un’importanza particolare per la metafisica, in quanto ci costringe a porci dinanzi al problema dell’origine della negazione, cioè, in fondo, dinanzi alla decisione sulla legittimità del dominio della “logica” nella metafisica.[15]

9 – IL TESCHIO DI HEIDEGGER

Sul finire del proprio discorso, anche Heidegger prende in mano quel famoso teschio e rinnova la domanda che vorrebbe rintracciare il motivo per scegliere a favore dell’ente contro il niente: …la domanda fondamentale della metafisica, a cui il niente stesso costringe: perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?[16]

La pretesa di portare il pensiero a cogliere la struttura dell’essere, l’essenza delle cose, è in cotrapposizione con l’utilizzo degli enti al fine di raggiungere un obiettivo, nel senso che per usare le cose in modo efficace è richiesta un’attitudine mentale differente da quella richiesta per indagarne la struttura. L’uomo d’azione e l’uomo della conoscenza hanno meccanismi di pensiero differenti. Heidegger richiede una meditazione che rischia di uccidere l’azione. Ed Amleto è esattamente questo, perciò ho utilizzato l’immagine del teschio.[17]

10 – INTEGRAZIONE

La domanda che ci chiede di scegliere fra l’ente e il non-ente è stimolante per alcune volte, ma poi la destrutturazione che induce diviene simile ad una malattia. La decomposizione delle strutture determinate che formano il pensiero probabilmente si inserisce nel progresso dell’uomo,[18] ma forse non è necessario scendere continuamente ad un livello zero in cui gli effetti del niente impediscano l’azione. Bisogna aver conosciuto il nulla, ma non continuamente ritornarci.

L’angoscia ha reso esplicita per la prima volta la differenza sostanziale fra gli enti e il nucleo attivo dello spirito che è l’esserci. Dunque tale differenza ha avuto bisogno di una struttura dedicata[19] per venire definita inizialmente. Ma non è possibile che in seguito essa sia continuamente evocata e presente alla coscienza anche senza tale struttura dedicata? È possibile integrare la percezione della struttura dell’essere nell’ambiente produttivo quotidiano? È possibile abituarsi a cogliere la struttura dell’essere anche nei momenti d’azione?

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  1. [1]Heidegger, Che cos’è metafisica? – “Segnavia”, Biblioteca Filosofica, Adelphi 1987, a cura di Franco Volpi, Friedrich-Wilhelm von Herrmann . Pagg 59-77. Le indicazioni di pagina riportate nelle note successive sono riferite a questa edizione.
  2. [2]Io non sono un professionista del settore filosofico, e non ho una conoscenza approfondita dei testi scritti da Heidegger. Di conseguenza le mie parole derivano essenzialmente da un lavoro on-the-book, non dal raffronto del contenuto del testo in oggetto con altri lavori di Heidegger o di altri autori.
  3. [3]Pag 63
  4. [4]Pag 63
  5. [5]Da parte nostra affermiamo che il niente è più originario del “non” e della negazione. Pag 64
  6. [6]Senza che ciò comporti una perdita di complessità o di bellezza da parte del sentimento: io non sono riduzionista.
  7. [7]Questo rinviare […] all’ente nella sua totalità che si dilegua […] è l’essenza del niente. Pagg 69-70
  8. [8]L’essenza del niente […] sta in questo: è anzitutto esso che porta l’esserci davanti all’ente come tale. Pag 70
  9. [9]Pag 72
  10. [10]Come si evince dai termini impiegati, mi è parso opportuno mantenere il carattere della continuità, a meno di temporanee disfunzioni e/o inibizioni.
  11. [11]Mi riferisco ad un contesto che non sono in grado di definire con precisione, ma che immagino antecedente al “mondo antico”.
  12. [12]L’esserci, in quanto esserci, già da sempre proviene dal niente. Pag 70
  13. [13]L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Pag 77
  14. [14][…] l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. […] Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Pag 70
  15. [15]Pag 75
  16. [16]Pag 77
  17. [17]Ho utilizzato l’immagine del teschio per richiamare Amleto che pronuncia il famoso dilemma, ma in realtà il teschio non è in scena mentre Amleto si interroga sul da farsi.
  18. [18]A questo riguardo sarebbe utile un confronto con il pensiero di Konrad Lorenz nei passi dove parla di una maggiore scomposizione dei movimenti in sottoparti accessibili alla volontà.
  19. [19]L’angoscia.

SINCRONICO E DIACRONICO

Chiavi di interpretazione del progetto uomo nella dimensione tempo.

INTRODUZIONE
ACCORDO E MELODIA
NARRATIVA E METAFORA
L’ASPETTO PROGETTUALE
AFFRONTARE LA NECESSITÀ
APPENDICE: DISCORSI SINCRONICI O DIACRONICI?

INTRODUZIONE

Sincronico e diacronico sono due concetti impiegati originariamente da Ferdinand De Saussure[1] per descrivere il modo in cui si studia il linguaggio. Il prefisso dia- indica attraverso, mentre crono è il tempo: una visione dia-cronica implica degli oggetti in viaggio attraverso il tempo. Il prefisso sin- significa con/insieme, e ci dice che gli oggetti del discorso sin-cronico avvengono insieme nello stesso tempo; una visione sincronica prende in considerazione le posizioni reciproche degli oggetti in un certo momento, senza considerarne il movimento.[2]

Prima di De Saussure era predominante un’analisi del linguaggio di tipo diacronico, fondata sull’esame del divenire storico degli elementi della lingua. Con De Saussure diventa lecito anche un altro approccio che parte dall’ipotesi di trascurare il processo di formazione del linguaggio avvenuto nel passato, proponendosi di descrivere le strutture del linguaggio soltanto in base alle relazioni in atto in un tempo presente.[3]

Diacronico è il tempo che scorre come un film raccontandoci una storia. Sincronica è la realtà disegnata dall’intuito in un’unica immagine fissa come una fotografia.

ACCORDO E MELODIA

La piacevolezza dell’accordo di DO maggiore è legato ai rapporti fra le frequenze delle tre note che lo compongono: Do, Mi e Sol. Per riconoscerlo è sufficiente sentire la sovrapposizione di questi tre suoni per una frazione di secondo. Nel caso della melodia invece abbiamo a che fare con una successione di note riprodotte una dopo l’altra. Immaginiamoci una melodia che venga ripetuta per sei volte, ogni volta con una variazione minima. Nel momento in cui sta per iniziare la settima melodia, la mente non è per così dire vuota, ma ha in sé l’aspettativa di una sequenza somigliante alle prime sei. Poniamo che la settima sequenza abbia un inizio simile alle altre, ma uno sviluppo differente. L’intuizione tenterà di completare tale inizio sulla base del modello costituito dalle prime sei melodie, ma si creerà una differenza fra questo tentativo di completamento e l’andamento reale. La mente ascoltatrice se ne accorgerà e interpreterà lo scarto come un fatto stilisticamente significativo.
Se avessimo suonato fin dall’inizio la settima sequenza senza farla precedere dalle altre sei, nell’ascoltatore non si sarebbe prodotta nessuna sensazione di differenza stilistica, in quanto non ci sarebbe stata l’aspettativa indotta dalle prime sei sequenze rispetto alla quale notare lo scarto.

La piacevolezza dell’accordo ha una natura sincronica in quanto risiede nella sovrapposizione istantanea di note, indipendentemente da quanto le precede o le segue. Il modo in cui valutiamo una melodia musicale implica invece delle dinamiche diacroniche, in quanto è collegato ai percorsi temporali con cui gli oggetti musicali giungono all’attenzione della nostra mente. Non solo ogni nota della melodia è valutata sulla base di quella che la precede, ma c’è un ulteriore livello in cui interi gruppi di note assumono significati diversi in base alla loro somiglianza con i gruppi precedenti.

Nel giro degli accordi[4] abbiamo un esempio di struttura artistica basata tanto sulla dimensione sincronica (l’armonia fra le singole note all’interno di un accordo) che su quella diacronica (la progressione degli accordi), strettamente interconnesse fra di loro nell’ambito del sistema tonale.

NARRATIVA E METAFORA

Prendiamo in considerazione la narrativa con cui si costruisce un racconto. Il suo nocciolo operativo consiste nell’aggiungere elementi alla struttura dei personaggi, siano essi persone, concetti o ambienti, avendo cura che quanto viene aggiunto possa assumere una funzione preparatoria di ciò che accadrà in seguito. L’attività costruttiva del narratore gestisce i percorsi dei personaggi nel tempo, ed opera quindi in modo naturale in una dimensione diacronica.

Anche in una poesia possiamo ritrovare una struttura narrativa, ma spesso la poesia preferisce affidarsi alla dimensione metaforica. La metafora è una sovrapposizione di concetti diversi, è un invito alla mente ad effettuare una comparazione, riconoscendo in che modo la struttura e le sottoparti di due concetti diversi siano corrispondenti. La metafora è una struttura sincronica nel senso che il suo effetto è simile a quello di un accordo di concetti, mentre è piuttosto evidente che la narrativa degli eventi ha una struttura che possiamo considerare affine alla melodia, la quale potrebbe forse essere chiamata narrativa delle note.

L’ASPETTO PROGETTUALE

I CRUSCOTTI

Mi ricordo di un aneddoto letto non so dove: c’era un giovane ingegnere che si occupava di progettare l’interno delle automobili. Aveva iniziato da poco a lavorare e disegnava dei cruscotti belli da vedersi ma troppo articolati e pieni di sottosquadri, scontrandosi con le esigenze della produzione e con la difficoltà di realizzare stampi complessi e costosi. Si lasciava guidare da un’idea sincronica dell’armonia estetica fra le parti della plancia, e trascurava la riflessione sui processi di produzione per mezzo dei quali la sua idea avrebbe potuto diventare una realtà.

I BRONZI DI RIACE

Siete un artista molto creativo con la testa fra le nuvole. A breve vi trasferirete al decimo piano in un palazzo del centro e vi state immaginando come potreste arredare il soggiorno. Nel mezzo della parete di sinistra verrà messo uno specchio di grandi dimensioni, mentre in quella di destra sarà posizionato un orologio bianco con i caratteri neri. Nel mezzo ci sarà un tavolo di cristallo su cui troverà posto una pianta grassa in un vaso opaco. State frugando nella mente in cerca del personaggio principale: un oggetto protagonista in grado di dare un senso alla stanza; qualcosa di classico e inaspettato al tempo stesso. Eccolo! La riproduzione a grandezza naturale dei Bronzi di Riace. Coi riccioli eleganti e gli occhi azzurri[5] a coronamento di quella massa imponente. Con la posa plastica che rivela un’aristocratica consapevolezza del corpo. Con quel sapore di Antica Grecia che rimane sempre intimamente connesso ad una visione profonda del futuro. E non sarebbe bello ridipingere le pareti alla ricerca del migliore abbinamento con la tonalità del bronzo?

Nel lasciarvi guidare dalle necessità estetiche della stanza avete ragionato in modo sincronico, pensando il vostro soggiorno come un oggetto di cui ottimizzare la bellezza, manipolandone gli oggetti d’arredo. Ma forse i Bronzi di Riace sono troppo grandi e pesanti per passare sia dall’ascensore che dalla tromba delle scale. Non basta immaginarseli nella collocazione finale, bisogna anche farsi un film nella testa simulando tutte le fasi intermedie che collegano la situazione desiderata con quella di partenza, che sono le copie dei bronzi consegnate al piano terra, ancora imballate, lì sul marciapiede.

AFFRONTARE LA NECESSITÀ

Le necessità del mondo fisico e del sistema economico-produttivo richiedono che l’uomo raggiunga risultati concreti nel rispetto di vincoli stringenti. Nel confrontarsi con tale esigenza la mente umana opera sia in modo sincronico che diacronico.
Sincronicamente la mente si lascia dominare da grandi ispirazioni che definiscono sia la visione da seguire sia i concetti da impiegare per descrivere il mondo. L’uomo sembra costruito appositamente per appassionarsi a queste architetture di idee in cui ogni parte ha il suo ruolo nei confronti delle altre. La costruzione della visione armonica avviene solitamente tralasciando la riflessione su come la si possa trasformare in realtà. Tale riflessione avviene in una fase successiva, quando la visione sincronica (per il semplice fatto di esistere nella mente) inizia a confrontarsi con gli eventi del quotidiano. Avviene allora il passaggio da una fase creativa ad una più organizzativa, e prende avvio la valutazione delle modalità di realizzazione del progetto nella dimensione diacronica delle cause e degli effetti, annodati come fili sottili attraverso la massa tormentata del divenire.

Nel migliore dei casi il risultato è la forma più alta dello spirito, che ha qualcosa di simile al giro degli accordi, il quale è dotato di una coerenza sia diacronica che sincronica. Ciò a cui mi riferisco è un nocciolo spirituale che percepisca sincronicamente la mente ed il mondo come un tutto nella magia del Qui ed Ora, ma senza venire travolto dal divenire economico, in quanto capace di impiegare le categorie e le procedure diacronicamente giuste per soddisfare le richieste del corpo, della società e dei processi produttivi. Una struttura spirituale che faccia fronte alle necessità economiche riuscendo a mantenersi estetica e musicale.

Nel bosco del tempo
pianifica i sentieri
degli oggetti necessari
alla visione realizzata.

APPENDICE: DISCORSI SINCRONICI O DIACRONICI?

Utilizzando i concetti di diacronico e sincronico si può avere la tentazione di chiedersi se un certo discorso sia diacronico oppure sincronico. Sono più propenso ad assumere un’attitudine differente, considerando la diacronia e la sincronia come due dimensioni che possono appartenere contemporaneamente ad uno stesso discorso, rendendolo più ricco. Le due domande corrispondenti a questi atteggiamenti differenti sono: “Questo discorso è sincronico o diacronico?” e “Quanto questo discorso è diacronico e quanto è sincronico?”.

Posizione del discorso fra il puro sincronico e il puro diacronico.

Fig. 1 Il modello geometrico sottinteso alla domanda: “Questo discorso è sincronico o diacronico?” Un eventuale aumento di argomentazione sincronica o diacronica provocherebbe uno spostamento a destra o rispettivamente a sinistra del cerchietto rosso che indica la posizione del discorso.

Il modello geometrico insito nella prima domanda è un segmento che ha per estremi il diacronico puro ed il sincronico puro. In questo modello l’aggiunta ad un discorso di elementi descrittivi diacronici o sincronici non porta ad un aumento visibile del valore del discorso, ma ad uno spostamento della posizione del discorso verso uno dei due estremi del segmento.

Area/Valore del discorso in base al contributo sincronico e diacronico.

Aumento di valore del discorso, per contributo di argomentazione sincronica.

Fig. 2-3 Il modello geometrico sottinteso alla domanda: “Quanto questo discorso è diacronico e quanto è sincronico?”. Nella seconda immagine è rappresentato l’aumento di valore del discorso conseguente ad un aumento di argomentazione di carattere sincronico.

Il modello implicito nella seconda domanda è invece un piano cartesiano le cui due dimensioni sono la sincronia e la diacronia. In questo caso l’aggiunta di nuovi elementi sincronici o diacronici all’analisi aumenta il corrispondente lato del rettangolo discorso e di conseguenza il suo valore, che considero equivalente alla sua area. In questo modo appare evidente l’opportunità di integrare in uno stesso discorso (cosa non semplice) sia elementi sincronici che elementi diacronici.
È del tutto ovvio che rappresentare in questo modo un discorso è una semplificazione che non rende giustizia della complessità intrinseca del linguaggio, ma quello che mi interessa è soltanto far notare come quella che può apparire una sfumatura da poco (la differenza fra le due domande che caratterizzano i modelli) può influenzare i giudizi di valore che presiedono allo sviluppo dei discorsi.

Se ti è piaciuto questo post, potresti trovare interessanti anche quelli dedicati al concetto di omeostasi e al concetto di fenomenologia.

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  1. [1]La sua opera più conosciuta, Corso di linguistica generale, è stata pubblicata postuma nel 1916.
  2. [2]Si tratta di concetti da utilizzare con una certa elasticità; ad esempio una visione sincronica si può concentrare sulle dinamiche che avvengono in una certa epoca storica trascurando il modo in cui essa si è originata dalle precedenti. In tal caso l’espressione “senza considerarne il movimento” si riferisce al movimento fra epoche storiche differenti, non al brusio dei fatti quotidiani che avviene all’interno di una singola epoca, e che può a pieno titolo rientrare in un discorso sincronico.
  3. [3]De Saussure ha introdotto una metafora nella quale paragona il linguaggio ad una partita a scacchi: ogni configurazione del linguaggio è come una configurazione della scacchiera, che può essere esaminata indipendentemente dalla sequenza di mosse che l’ha prodotta.
  4. [4]A titolo di curiosità, il giro degli accordi è stato messo a punto nel Seicento in Europa. “Mentre in una polifonia cinquecentesca l’organizzazione melodica era predominante nel senso che la sovrapposizione delle varie melodie doveva semplicemente aver cura che le armonie derivate fossero formate di accordi «legittimi» (cioè fondamentalmente di intervalli consonanti), nella nuova organizzazione tonale le sequenze dei giri armonici hanno invece un’importanza strutturale primaria e la melodia ne deve tener conto e deve adattarsi ad esse.” Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay 1988, Storia della musica, Torino, Einaudi, Piccola Biblioteca Einaudi 25, Nuova serie. Pag 149.
  5. [5]Nelle copie che mi sono immaginato gli occhi sono azzurri. Negli originali le cornee sono andate perse.

EMMANUEL TODD CONTRO LA CRISI: IL PROTEZIONISMO EUROPEO

RIFLESSIONI SULLO SCRITTO DI EMMANUEL TODD[1]: APRÈS LA DÉMOCRATIE (DOPO LA DEMOCRAZIA)[2]

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI 2.0[3]

(Sulla contrazione della domanda provocata dalla globalizzazione)
C’era una volta una grande Fattoria in cui i Cani compravano solo le merci prodotte dai Cani e i Gatti compravano soltanto quelle prodotte dai Gatti. I capi dei Cani non avevano interesse ad abbassare gli stipendi dei loro dipendenti Cani, perché altrimenti questi avrebbero comprato di meno dalle bancarelle del mercato dei Cani.

Poi venne un giorno in cui i capi di tutte le specie animali della Fattoria fecero una Riunione Generale in cui si decise una svolta verso il Libero Scambio. Il mercato dei Cani non sarebbe più stato diviso da quello dei Gatti, dei Conigli, dei Maiali e di tutti gli altri animali della Fattoria. Ognuno avrebbe potuto acquistare anche i prodotti degli altri animali, scegliendo liberamente quello di qualità migliore e al prezzo più conveniente.

Il presidente del consiglio dei cani
Nei giorni successivi alla Riunione Generale, i capi dei Cani fecero una riunione segreta fra di loro, in cui qualcuno disse: “Perché tenere alto lo stipendio dei nostri dipendenti Cani se poi quelli lo usano per comprare anche le merci dei Gatti e dei Cavalli? Se noi gli abbassiamo lo stipendio i nostri prodotti costeranno di meno e potremo venderli anche sui mercati degli altri animali, vincendo la concorrenza!”.

Così fecero. All’inizio alcuni dei dipendenti Cani protestarono per la riduzione dello stipendio, ma poi videro che con il Libero Scambio potevano comprare i collari ed i guinzagli dai Topi ad un prezzo molto più basso rispetto alle bancarelle dei Cani. Così i dipendenti Cani compensarono il ridimensionamento della busta paga con la disponibilità di prodotti più economici, in particolare quelli provenienti dai Topi, dalle Galline e dai Corvi.

I capi dei Cani erano tre volte contenti: potevano anche loro comprare dei prodotti a miglior prezzo, i loro dipendenti costavano meno, e avevano iniziato a vendere anche ai Maiali, alle Mucche ed ai Cavalli. C’era stata in particolare l’acquisizione di una commessa di carrozze che aveva portato buonumore nel quartier generale dei Cani; fu in quell’occasione che sui giornali dei Cani apparvero dei titoli che lodavano i successi del Libero Scambio, grazie al quale il Progresso ed il Benessere avrebbero regnato per sempre in tutta la Fattoria; soprattutto nella zona dove vivevano i Cani.

Ma era destino che le cose andassero diversamente. A distanza di un paio di mesi dalla Riunione Generale, anche i capi dei Gatti decisero di abbassare lo stipendio dei loro dipendenti per avere manodopera a basso prezzo, contrastando così la strategia dei Cani. A breve seguirono le Anatre e poi i Cavalli, che volevano riprendersi gli ordini di carrozze che avevano perso. Nel giro di una stagione tutti i capi delle diverse razze animali presenti nella Fattoria avevano deciso di abbassare lo stipendio dei loro dipendenti, ed i Cani persero il vantaggio competitivo che avevano acquisito sui mercati degli altri animali.

Ci fu allora un’altra riunione dei capi dei Cani in cui si decise un ulteriore abbassamento degli stipendi. Anche in quel caso il vantaggio acquisito fu solo temporaneo, perché i capi degli altri animali seguirono un’altra volta la strada intrapresa dai Cani. Gli animali dipendenti si lamentavano, perché a questo punto l’abbassamento dello stipendio prevaleva sul vantaggio di avere alcuni prodotti a minor costo; ma questo ai capi non interessava molto, perché abbassando gli stipendi riuscivano comunque a tener bassi i costi di produzione e ad aumentare i profitti delle loro aziende.

Si innestò così una spirale di riduzione degli stipendi che portò tutti gli animali dipendenti a guadagnare di meno. La conseguenza fu che ad un certo punto i mercati della Fattoria erano frequentati da animali più poveri ripetto all’epoca in cui era iniziato il Libero Scambio, e complessivamente le vendite di tutte le bancarelle della Fattoria erano notevolmente diminuite.

I capi degli animali avevano intrapreso una lotta fra di loro per aumentare la rispettiva fetta di mercato, ma avevano finito per provocare un restringimento del mercato nel suo complesso.

All’inizio della storia gli stipendi dei Cani non venivano abbassati perché i capi dei Cani sentivano il mercato dei Cani come una cosa propria, e sapevano che abbassando gli stipendi il mercato sarebbe diventato più debole e le industrie dei Cani poi avrebbero venduto meno prodotti. Con il Libero Scambio, i capi dei Cani non hanno più pensato che il mercato dei Cani in qualche modo gli appartenesse, perché anche gli altri animali potevano entrarvi a piazzare dei punti vendita per i loro prodotti.[4] Con il Libero Scambio, i capi dei Cani hanno iniziato a pensare ai dipendenti soltanto come ad un bene da sfruttare il più possibile per aumentare i profitti e abbassare il costo dei prodotti, destinati alla vendita in tutta la Fattoria, non soltanto ai Cani. Abbiamo visto come l’esito di questa strategia si sia rivelato fallimentare.

La soluzione a questo stato di cose esiste, ed è che in tutta la Fattoria ci sia un’unica assemblea dei capi che decida gli stipendi. Così facendo l’assemblea dei capi potrà tornare a pensare che tutelando gli stipendi di chi produce si tutela la forza del mercato a cui si vendono i prodotti. Il nesso fondamentale che emerge dalla favola è che ci dev’essere una corrispondenza fra l’estensione del mercato e la struttura decisionale che regola il mercato, fra spazio economico e spazio politico. E visto che il progresso tecnologico ed il contesto internazionale hanno creato dei mercati più ampi, ne segue che anche la struttura politica si deve ampliare.

A questo punto il pensiero potrebbe scivolare facilmente nell’idea di un unico governo mondiale che risolva alla radice il problema, ma non è questa la via che ci indica Emmanuel Todd.

UN PROTEZIONISMO EUROPEO PER SALVARE LA DEMOCRAZIA E LA DOMANDA

Il libro di Todd si intitola “Dopo la democrazia”, analizza la società francese, e si preoccupa del futuro. Alcune delle problematiche che tratta sono la mancanza di valori collettivi e la divisione della popolazione in una fascia di istruzione elevata e in una di livello inferiore, la natura irresponsabile delle élite al potere e la possibile deriva politica in direzione razzista o antisemita.

Secondo Todd, il problema principale che minaccia il proseguimento dell’esperienza democratica in Francia come in Europa è la compressione indefinita dei salari, la quale è conseguenza della dottrina del Libero Scambio impostosi come pensiero unico a partire dagli anni Ottanta: “Si tratta di sfuggire all’incubo attuale: la caccia alla domanda esterna, la contrazione indefinita dei salari per far abbassare i costi della produzione, l’abbassamento conseguente della domanda interna, la caccia alla domanda esterna, etc., etc.”[5]

Come abbiamo visto sopra la soluzione può essere una ritrovata coincidenza fra lo spazio economico e quello politico, ma non a livello mondiale: “La democrazia planetaria è un’utopia. La realtà è che, all’opposto, abbiamo la minaccia di una generalizzazione delle dittature. Se il Libero Scambio dovesse generare uno spazio economico planetario, la sola forma politica concepibile alla scala mondiale sarebbe la «governance», designazione pudica di un sistema autoritario in gestazione. Ma perché allora, visto che esiste uno spazio economico europeo già ben integrato, non si può elevare la democrazia al suo livello?”[6]

Secondo Todd dunque la Fattoria giusta in cui unificare il governo non è il mondo ma l’Europa, e naturalmente questa Fattoria non deve praticare il Libero Scambio nei confronti delle altre Fattorie, altrimenti il gioco perverso verrebbe semplicemente spostato ad una scala maggiore. Stiamo dunque parlando di protezionismo a livello europeo.

I teorici statunitensi fanno l’elenco dei danni che il Libero Scambio ha arrecato agli Stati Uniti, ma poi concludono la loro analisi dicendo che non c’è alternativa, in quanto negli Stati Uniti la struttura industriale si è deteriorata eccessivamente e rende inverosimile una rapida ricostituzione della capacità produttiva, che sarebbe necessaria in uno scenario protezionista. Al contrario l’Europa è ancora in grado di produrre di tutto, e si trova ad essere, fra il declino degli Stati Uniti e la crescita della Cina, la maggior concentrazione di competenze tecniche del pianeta.[7]

Il protezionismo di cui parla Todd non è una chiusura netta: “Per quanto mi concerne, spingo la moderazione del protezionismo fino a distinguere accuratamente, al contrario degli ideologi della globalizzazione mascherati da economisti, il movimento delle merci da quello dei fattori di produzione. Da buon discepolo di Friedrich List, sono favorevole alla libera circolazione del capitale e del lavoro.”[8] [9]

L’obiettivo primario del protezionismo europeo è di opporsi alla crisi economica e di salvare la democrazia evitando il dramma di una continua diminuzione dei salari.: “Lo scopo del protezionismo non è, fondamentalmente, di respingere le importazioni provenienti dai paesi esterni al privilegio comunitario, ma di creare le condizioni per una crescita dei salari.”[10] “La crescita dei redditi implica un rilancio della domanda interna europea, che comporta di per sé stessa un rilancio delle importazioni.”[11]

Posto il protezionismo europeo come obiettivo, Todd fa un gioco di simulazione (da un punto di vista Francese) per capire come lo si possa raggiungere. Per quanto riguarda l’Inghilterra, Todd dice che inizialmente non potrà accettare una svolta in senso protezionistico perché il Libero Scambio è una parte troppo importante dell’identità nazionale inglese. La Germania sta al centro del suo ragionamento: la Francia dovrebbe affrontarla in modo diretto convincendola a preoccuparsi di più del mercato interno europeo e invitando i tedeschi a una svolta verso il protezionismo a livello europeo. Se si rifiutano, la Francia dovrebbe minacciare la propria uscita dall’Euro, che provocherebbe in modo quasi automatico la stessa mossa da parte dell’Italia.

Gli economisti che parlano in televisione fanno finta di non conoscere il problema dell’impoverimento dei mercati descritto nella favola, perché altrimenti dovrebbero ammettere che il Libero Scambio genera dei problemi e smetterebbero di essere economisti alla moda (e di prendere sovvenzioni dai capi dei Cani).
Questi economisti dicono che il protezionismo è una cosa vecchia e che non fa parte del futuro luminoso verso cui ci siamo incamminati, ma forse si sbagliano. Emmanuel Todd ci invita a riflettere su di un protezionismo intelligente esteso dalla Gran Bretagna alla Russia: “Lo spazio politico e quello economico coincideranno di nuovo. La nuova forma politica così creata sarà di un genere nuovo, implicante delle modificazioni istituzionali complesse. Ma si può affermare che in questo caso, e solo in questo caso, dopo la democrazia, ci sarà ancora la democrazia.”[12]

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  1. [1]Emmanuel Todd, sociologo e demografo francese formatosi all’Università di Cambridge, è ricercatore presso l’Institut national des études demographiques di Parigi.
  2. [2]Todd, E. (2008) Après la démocratie, Gallimard, Collana: Folio actuel.
    Questo articolo prende spunto dalla lettura dell’ultimo capitolo di Après la démocratie (pagg 259-298). Nel momento in cui scrivo il libro non è disponibile né in lingua italiana né in lingua inglese. Si tratta di un’analisi della società francese che arriva ad alcune conclusioni rilevanti anche a livello europeo. Una più completa esposizione della teoria di Todd (una critica non marxista del capitalismo) si può trovare in:
    Todd, E. (2004) L’illusione economica. La crisi globale del neoliberismo, Milano, Tropea.
  3. [3]La fattoria degli animali è quel libro in cui Orwell racconta le vicende degli animali in un’ipotetica fattoria, facendo la parodia della nascita di una dittatura.
  4. [4]In questo senso potremmo anche dire che il Libero Scambio implica una sorta di comunismo dei mercati, in quanto il mercato di ciascuna specie animale viene ad “appartenere” ai venditori di tutte le specie animali.
  5. [5]“Il s’agit d’échapper au cauchemar actuel: la chasse à la demande extérieure, la contraction indéfinie des salaires pour faire baisser les coûts de production, la baisse résultante de la demande intérieure, la chasse à la demande extérieure, etc.,etc.”
    Todd, E. (2008) Pag 293
  6. [6]“La démocratie planétaire est une utopie. La réalité, c’est, à l’opposé, la menace d’une généralisation des dictatures. Si le libre-échange engendre un espace économique planétaire, la seule forme politique concevable a l’échelle mondiale est la «gouvernance», désignation pudique du système autoritaire en gestation. Mais pourquoi alors, puisqu’il existe un espace économique européen déjà bien intégré, ne pas élever la démocratie à son niveau?”
    Todd, E. (2008) Pagg 290-291
  7. [7]Todd, E. (2008) Pag 292
  8. [8]Todd, E. (2004) Pag 21
  9. [9]Un esempio nel settore tessile potrebbe essere il seguente: i tessuti che si usano in Europa devono essere prodotti in Europa, ma le macchine per fare i tessuti possono essere fatte in Europa e vendute alla Cina o fatte dalla Cina e comprate dall’Europa. La Cina potrebbe usare i suoi soldi per comprare fabbriche europee di tessuti, ma con l’obbligo intrinseco di mantenerle funzionanti in Europa.
  10. [10]“Le but du protectionnisme n’est pas, fondamentalement, de repousser les importations venues des pays situés à l’extérieur de la préférence communautaire, mais de créer les conditions d’une remontée des salaires.
    Todd, E. (2008) Pag 293
  11. [11]“La hausse des revenus implique une relance par la demande intérieure européenne, conduisant ellemême à une relance des importations.”
    Todd, E. (2008) Pag 293
  12. [12]“Espaces économique et politique coïncideraient à nouveau. La forme politique ainsi créée serait d’un genre nouveau, impliquant des modifications institutionelles complexes. Mais on peut affirmer que dans ce cas, et dans ce cas seulement, après la démocratie, ce serait toujours la démocratie.”
    Todd, E. (2008) Pag 298

RACCONTO DI UN VIAGGIO IN CINA

SEI GIORNI A XIAMEN, CINA

Ho preso d’urgenza un volo verso la Cina per fare assistenza tecnica presso un nostro cliente di Xiamen, una città situata sulla costa nella parte meridionale del paese. Xiamen ha vinto il premio di città più pulita della Cina ed è considerata una località turistica. Insieme a me c’è un ragazzo di venticinque anni, un simpatico bergamasco introverso di nome Roberto.[1] Nell’area del ritiro bagagli facciamo subito la prima conoscenza: Giuliana. Anche lei è bergamasca, e lavora qui per controllare le produzioni di un’azienda italiana di abbigliamento. Le chiediamo dove si trova l’ufficio cambi più vicino, ma in questo aereoporto non c’è: ci conviene andare alla Bank of China che si trova nello stesso edificio del nostro albergo, di fronte al palazzo dove abita lei. Nel dirci queste cose continua a camminare a passo svelto; noi le corriamo dietro e saliamo in taxi insieme a lei che litiga in cinese col tassista, il quale vorrebbe farle pagare 10 yuan[2] in più per mettere le valigie anche sul sedile anteriore; le spostiamo dunque nel bagagliaio. Facciamo un po’ di fatica, perché sono piene di pezzi di ricambio e pesano molto. Giuliana è una bella donna di poco sopra i trent’anni, le piace vestirsi in modo appariscente, ha studiato lingue a Venezia ed è venuta per la prima volta in Cina nel 2001, perché già allora si faceva fatica a trovare lavoro in Italia. Torna normalmente a casa ogni sei mesi, ma quello di adesso è un viaggio aggiuntivo fatto per portare dei campionari urgenti. Parla benissimo il cinese. Ha un carattere deciso, ed una volta ha fatto piangere un tassista del posto che ha cercato di raggirarla. Non esce molto per divertimento, ma ha la fissa della palestra e segue una dieta di proteine ricca di carne. I tratti del suo viso sono particolari e non viene quasi mai identificata come italiana; più facilmente come sudamericana.

Xiamen, Cina: Edifici in costruzioneIl viaggio dall’aereoporto all’albergo dura una ventina di minuti e ci da modo di prendere il primo contatto con la città. Ci sono alcune strutture molto moderne, rivestite in vetro, mescolate a molti palazzi visibilmente più datati; sono molti gli edifici in costruzione. La temperatura è alta, l’aria è umida, e le nuvole coprono il sole.

I facchini dell’albergo sono sorpresi dal peso delle valigie e per portarle dentro prendono un carrello. Al check in ci immobilizzano 500 euro sulla carta di credito; la spesa per cinque notti in stanza doppia sarà di 370 euro.[3] Ci troviamo in una zona centrale di Xiamen, e dopo aver sistemato le camicie mi viene voglia di uscire a far due passi. Il mio compagno di viaggio prova meno attrazione di me per l’esplorazione della società circostante, e rimane in stanza a dormire. Appena sono uscito vado in banca a cambiare 400 dollari in valuta locale,[4] per poi incamminarmi verso la passerella pedonale che scavalca la strada di fronte all’albergo, andando in direzione del palazzo dove abita Giuliana. Per terra c’è bagnato, e un pulviscolo umido sospeso nell’aria si colloca a metà strada fra la nebbia ed una pioggerella leggera. Nelle strade c’è gente, e si trovano diversi negozi aperti anche se è domenica. Di scritte in inglese ce ne sono davvero poche, praticamente solo i nomi delle aziende ed alcuni indirizzi internet.

Tornato in albergo trovo Roberto che si lamenta e vorrebbe già essere di ritorno. Siamo al diciottesimo piano e un lato della camera è occupato per tutta la larghezza da una finestra; ci sono alcune scritte cinesi incise nella pellicola oscurante che ricopre i vetri. Roberto è seduto sull’ampio davanzale interno e sta fumando nervosamente. Sul comodino c’è un gadget di cartoncino con una parte rotante simile al disco orario che si usa nei parcheggi; serve ad indicare le condizioni meteo previste per il giorno dopo. Sul tavolo c’è un piatto con tre frutti: una mela e una pera completamente senza sapore ed una banana dal gusto accettabile. Leggendo le istruzioni del televisore capisco che ci dovrebbero essere un paio di canali in inglese oltre a quelli in cinese, ma non ho voglia di cercarli. Nel bagno manca lo spazzolone del gabinetto, ma questo non è un problema, perché il livello dell’acqua è tenuto alto ed impedisce l’impatto fra la ceramica e qualsiasi oggetto che potrebbe sporcarla. Non mi sono portato l’asciugacapelli, ma ne trovo uno in un sacchetto di velluto nero col nome dell’albergo. Le prese elettriche sono adatte ai nostri apparecchi e non ci serve quindi nessun adattatore, il wifi è disponibile e c’è anche un collegamento internet via cavo. Youtube e Facebook sono inaccessibili, mentre Google funziona bene, come pure Skype, che nei giorni successivi sarà il principale mezzo di comunicazione con l’Italia.

Verso le otto di sera scendiamo al piano terra per mangiare nel ristorante dell’albergo. Io voglio provare la cucina locale: ordino dei broccoli fritti ed un piatto che dalla foto assomiglia ad uno spezzatino di carne. Mi va male con entrambi; i broccoli sono lessati anziché fritti, e lo spezzatino è fatto di tofu, un’entità insapore tagliata in cubetti e con la consistenza di una gelatina leggermente soda, per di più piccante. Dopo tre pezzi di tofu alzo bandiera bianca e mi ritiro sul piatto di cavolfiori, che se non altro riesco a mangiare senza nausea. Il mio collega bergamasco invece se l’è cavata con un sandwich di cui mi ha offerto un pezzo. Seduto accanto a noi c’è un gruppo di cinesi. Dal loro tavolo sentiamo provenire dei risucchi e qualche rutto che in Italia potrebbero essere motivo d’imbarazzo, ma che loro inseriscono con naturalezza fra le parole.

Cina-07-costruzioni-moderne-nell-entroterra-di-XiamenLunedì mattina viene a prenderci un’auto mandata dal cliente, e facciamo la conoscenza con Susan, il nostro contatto cinese. Non è molto alta, porta gli occhiali, i capelli sono neri, lisci, tagliati a caschetto. Naturalmente parla anche l’inglese, anche se non benissimo, ed è molto cordiale nei nostri confronti. La nostra destinazione non si trova nell’area cittadina di Xiamen, che è un’isola, ma nell’entroterra; per raggiungerla ci vuole mezz’ora. All’arrivo siamo sorpresi dall’edificio: è imponente ed ha l’aspetto di un moderno centro commerciale; ha otto piani e vi lavorano duemila persone, di cui soltanto una ventina circa non sono cinesi.

Dopo la mattinata di lavoro veniamo accompagnati in una mensa dedicata agli stranieri e alla dirigenza; ci sono cinque vassoi caldi con pietanze vicine ai gusti occidentali. La mia preferenza va ad un’insalata di pollo e ad uno spezzatino di carne bianca con sugo di pomodoro, metre Roberto prende un altro panino e delle patate fritte. Al nostro tavolo si siede un uomo anziano di origine canadese che deve essere informato della nostra presenza in azienda, perché ci fa domande mirate su alcune questioni tecniche. Poi ci presta il suo pass per andare a prendere due lattine di coca-cola al grande bancone della mensa dove si trovano i dipendenti cinesi. Quando il canadese esce dalla mensa abbiamo modo di scambiare due parole con alcuni ragazzi che nel frattempo si sono seduti nel tavolo accanto. Uno di loro si chiama Edward e ci da un caloroso benvenuto. I tratti del suo viso sono un po’ particolari, probabilmente per via della nazionalità dei suo genitori, uno tedesco e l’altro giapponese.

Il motivo del nostro viaggio comporta la presenza presso la sede del cliente nel corso del normale orario di lavoro, ma non sono previsti impegni serali. Attorno alle cinque del pomeriggio l’autobus aziendale ci riporta in albergo insieme ad alcuni stranieri dell’azienda. In questo modo ogni sera ci rimangono delle ore libere per visitare la città. Salutandoci coi nostri colleghi chiedo a Edward cosa c’è di interessante nei dintorni: non lontano da dove alloggiamo c’è un parco dove ogni sera fanno qualcosa.

Alle otto andiamo a cena in un ristorante a duecento metri dall’albergo; si chiama Tuscany, ed in teoria dovrebbe fare cucina italiana. In pratica la carne nell’hamburger sa terribilmente di aglio e la pizza è come quelle surgelate: insapore. La carbonara invece, sebbene un po’ troppo bagnata, ha un gusto compatibile col nome che porta. Uno dei camerieri, Marco, è un ragazzo di Padova, ha 25 anni, e normalmente si presenta ai Cinesi dicendo che è di Venezia, dove anche lui come Giuliana ha studiato lingue (ma non il cinese). Mentre parliamo ci scambiamo i numeri di telefono e provo a fargli un messaggio che mi costa un euro. Gli chiedo come si può fare per avere un numero cinese. Marco dice che qui in Cina la burocrazia è ridotta rispetto a quella che c’è in Italia; nelle vicinanze c’è un negozio della Telecom cinese dove si può facilmente avere un numero nuovo senza bisogno di documenti. Usciamo a fumare insieme una sigaretta (anche se non ci sarebbe un divieto rigoroso di fumare all’interno), mi racconta dei locali che conosce, e nel frattempo saluta alcuni passanti stranieri. È molto attratto dalla vita notturna di Xiamen, e vengo a sapere che qui ci sono dei party sulla spiaggia conosciuti in tutta la Cina. A parte l’impiego come cameriere, lui si occupa anche di importare vini dall’Europa e di esportare borse in Italia. Conosce Giuliana; dice che è un tipo che si fa rispettare. Prima di andare via dal ristorante, Marco mi porta una scheda telefonica cinese che mi ha fatto il favore di comprare senza che glielo chiedessi. Sono 60 yuan,[5] incluso del credito che sarà sufficiente per una ventina di SMS.

Marco mi ha confermato che il luogo indicatomi da Edward è interessante. Arrivo in zona che sono le undici di sera. Il parco sorge in prossimità del mare e la riva è costituita da una gradinata alta cinque metri. Provo a scendere avvicinandomi all’acqua, ma devo tornare indietro perché tutta la parte più bassa della gradinata è sporca di alghe, presumo per la marea che dev’essere decisamente maggiore rispetto a quella cui siamo abituati nel Mediterraneo. Lungo la parte superiore della gradinata sono disposti quattro locali che guardano verso il mare; tutti e quattro hanno le luci accese e fanno musica. Ci sono alcune persone che passeggiano e altre sedute ai tavoli esterni, ma all’interno dei locali non c’è nessuno e le sedie sono impilate, probabilmente perché è soltanto lunedi.
Dove finisce la gradinata si trovano un grande ristorante e altri tre locali più simili a discoteche. Provo ad entrare in quello che si chiama Key Club. Mi riconoscono subito come occidentale, una ragazza mi viene incontro e mi accompagna ad un tavolo. Dice che è la manager del posto, ma penso che semplicemente si occupi di public relations. Si chiama Rita, e ci scambiamo il numero di telefono. Ordino da bere un Black Russian e fumo un paio di sigarette. Non rimango a lungo, perché la musica è troppo soft e non è adatta a ballare. Inoltre vedo che il locale è pieno di tavoli e non c’è spazio per muoversi. Quando sono fuori chiedo l’orario di chiusura ad un buttafuori. Riesco a farmi capire a gesti, e dopo avermi mostrato la mano aperta per indicare le cinque del mattino, di sua iniziativa mi viene alle spalle e mi sistema il bavero della giacca. Sulla via del ritorno passo in un punto del parco che prima non avevo visto, camminando su alcune passerelle di pietra e cemento costruite in mezzo a un grande specchio d’acqua. È una vista piacevole. C’è anche un grande viale il cui pavimento è decorato con delle luci affogate nel cemento. Ogni tanto cerco di accendermi una sigaretta con i cerini presi dall’albergo, ma questi non vogliono saperne di accendersi.

Martedì dopo il lavoro mi separo da Roberto e vado in taxi al tempio buddista di Nanputuo. Purtroppo è già chiuso, ma riesco a vederne l’architettura esterna ed il giardino antistante. Sul prato ci sono un paio di anziani intenti a riprodurre con lentezza dei movimenti simili a quelli di un’arte marziale, mentre sulla riva di uno stagno poco distante tre monaci rotondi e sorridenti spezzano del pane che gettano in pasto ad un grosso pesce. Riconosco in lontananza il palazzo dell’Università di Xiamen che avevo visto in qualche immagine di Google prima di partire. Mi incammino in quella direzione, arrivo nella zona dove ci sono le aule e vedo che stanno facendo lezione anche se sono le otto di sera. Mi soffermo accanto ad alcuni finestroni per spiare all’interno: anche qua utilizzano sia lavagne col pennarello sia lavagne col gesso, oltre agli schermi per i proiettori. Ogni tanto ci sono delle scritte in inglese.

Cina-02-centro-commercialeUscendo dalla zona universitaria mi trovo davanti un piccolo centro commerciale addobbato con parecchie luci e con un pannello pubblicitario luminosissimo. Entro, alla ricerca di una maglietta da portare ad un’amica in Italia, ma trovo solo capi con scritte o loghi occidentali, non in cinese come speravo. Mi servirebbero poi un paio di magliette e di mutande per me, visto che mi sono reso conto che quelle portate dall’Italia non mi basteranno. Girando fra i reparti, delle mie magliette e delle mutande mi sono dimenticato presto, ma in compenso ho trovato un bellissimo paio di jeans di marca cinese. Sull’etichetta di cuoio dove passa la cintura c’è scritto: CHINA STREET PUNK STYLE – IDEAL LOVER DESIGN FACTORY. Sono etichettati a 220 yuan, ma la cassiera me li batte a 159.[6] Sono morbidi ed aderenti, come piace a me; li indosso subito uscendo dal negozio, ma poi li metto in valigia per l’Italia, perché penso che qui in Cina sia meglio passare per straniero.

Da queste parti il taxi costa poco; ad esempio il tempio dista quindici minuti dall’albergo e l’andata ed il ritorno costano insieme circa 40 yuan.[7] Quando si chiede lo scontrino il tassista alza il prezzo di due/tre yuan rispetto a quello che appare sul tassametro, e ci consegna insieme allo scontrino alcuni bigliettini su cui sono riportati un numero di serie e dei timbri.
Naturalmente i tassisti non sono assolutamente in grado di leggere l’inglese, e vedo che faticano anche con il cinese, non vi so dire se per loro incapacità o se perché è intrinseca alla scrittura cinese una maggiore lentezza nel riconoscimento visivo delle parole. Fatto sta che non li vedo mai leggere al volo l’indirizzo, devono sempre soffermarsi un momento prima di capirlo.
A parte questo i cinesi guidano male, tagliano la strada e hanno l’inversione facile. Il più pericoloso dei tassisti che abbiamo provato era un giovane con un tick: ogni tanto piegava all’improvviso la testa di lato mettendosi la mano sul collo. Ha rischiato più di una volta di investire dei passanti, evitandoli all’ultimo momento.
Per strada si vedono molte auto nuove e di grossa cilindrata, ma poche di marca europea. In mezzo al traffico normale si trovano facilmente dei mezzi molto vecchi e sovraccarichi; ci è capitato di incontrare anche un carrello elevatore (sarà stato un quindici quintali) che attraversava un incrocio in mezzo al traffico in pieno centro.

Ritrovo Roberto in albergo; mentre faceva le sue passeggiate cercando souvenir nei dintorni dell’albergo ha rivisto Giuliana, con la quale ha combinato una cena a tre per mercoledì sera. Forse è più sveglio di quello che sembra.

Verso le undici di sera esco per andare in una discoteca di nome Lomo che ha aperto da poco e si trova a due passi dal nostro alloggio. Anche qui nel riconoscermi come occidentale mi accompagnano gentilmente al bancone. Nel mezzo del locale c’è una passerella dove si svolge un piccolo spettacolo di ballerine, tutte dal volto occidentale. Il cantante è un uomo di colore. Al bancone ordino un cocktail di nome Lamborghini al prezzo di 80 yuan:[8] è uno dei più costosi, uno di quelli a cui danno fuoco. Solo che dopo avergli dato fuoco il barista mi mette in mano la cannuccia ed io la infilo distrattamente nel cocktail per bere mentre la fiamma è ancora accesa; mentre bevo mi pongo il dubbio se la cannuccia sia abbastanza resistente da sopportare le fiamme, e nel fare questo pensiero tiro due sorsi un po’ troppo abbondanti, poi tolgo la cannuccia dal fuoco e l’infilo rapidamente nel bicchiere di acqua che il barista mi ha messo accanto. Sento l’effetto dell’alcol, mi si fanno gli occhi rossi, rallento il respiro per non mettermi a tossire e mi giro dall’altro lato per non farmi vedere in difficoltà dal barista. Tornata la calma, riprendo ad osservare il locale e vedo che quando il cantante fa il ritornello alcune persone attorno a me lo accompagnano sistematicamente con la mano alzata, in particolare il barista ed alcune belle ragazze sedute al bancone. Immagino che siano pagate per fare coinvolgimento. Finito il cocktail mi metto a cercare lo spazio adatto per ballare; l’unico posto dove riesco a posizionarmi è un tratto della passerella. Ci resto per circa una mezz’ora fumando qualche sigaretta (anche stavolta me le devo fare accendere dai cinesi perché i cerini dell’albergo continuano a non funzionare). Poi mi stanco perché vedo che il coinvolgimento del pubblico nel ballo è limitato, e preferisco andarmene.

Mercoledì a pranzo facciamo un’altra conoscenza alla mensa degli stranieri: Enrico, di Milano, forse trentacinque anni. È alto, indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate che lasciano intravedere due grandi tatuaggi sulle braccia: princess da un lato, il suo nome dall’altro. Al collo un papillon nero decorato con degli swarovski. Si trova qui da tre anni e lavora all’ultimo piano, dove c’è il giardino. Mi spiega che il canadese che abbiamo conosciuto in mensa il primo giorno riveste un ruolo importante: è l’unico straniero di cui i padroni dell’azienda (cinesi) si fidano pienamente.
Enrico se ne era andato da Milano perché “gli andava stretta,” ma poi ha iniziato a percepire anche Xiamen come “una scatola” troppo piccola; i nuovi arrivati trovano una serie di cose interessanti da vedere, ma presto l’orizzonte mostra i suoi limiti, soprattutto agli occidentali, in quanto a Xiamen ci sono pochi stranieri. Per questo motivo Enrico è contento di passare metà del suo tempo in un’altra sede aziendale a Shanghai, città che trova molto più interessante.
Enrico dice che i cinesi hanno una propensione molto forte al business e rischiano facilmente i loro soldi in iniziative commerciali. La crisi di cui noi parliamo tanto qui non si sente, e non è difficile sentire la storia di qualche giovane intraprendente che “inizia con un chiosco e si trova dopo pochi anni con una catena di ristoranti.” La differenza culturale fra cinesi ed occidentali è grande e si fa sentire; prima o poi a tutti gli stranieri capita di avere dei giorni in cui si raggiunge il limite della sopportazione, anche se poi passa. Saltiamo da un argomento all’altro; mi colpisce sentir dire che a Xiamen gli impianti di riscaldamento sono abitualmente assenti, e che il grande numero di condizionatori che abbiamo visto installati in molti palazzi ha la sola funzione di raffreddamento. Di conseguenza durante l’inverno bisogna sopportare delle temperature non vicine allo zero ma comunque nettamente al di sotto dei diciotto gradi. Mi incuriosisce anche sapere che i cinesi non hanno rispetto per le code, e che non vanno in spiaggia a spogliarsi per prendere il sole.
Mentre chiacchiero con Enrico provo a mangiare alcune arance della mensa, ma sono improponibili: completamente asciutte. Anche qui però ci sono delle banane che si salvano.

Giuliana ha prenotato tre posti per la cena nel ristorante italiano di Giacomo, un bolognese di circa quarant’anni, in Cina da otto. Prima di questo locale Giacomo ne ha avuti altri tre: con il primo ha perso molti soldi, il secondo l’ha venduto bene, il terzo l’ha venduto male; adesso le cose vanno abbastanza bene. Mi parla di alcune delle problematiche con cui si è dovuto confrontare; la rucola ad esempio arrivava soltanto una volta al mese e non era mai uguale, e lo stesso accadeva con altri prodotti deperibili. Adesso invece arrivano tutti i giorni delle consegne a qualità costante. Quando gli chiedo se la frutta qui è tutta immangiabile come quella che è capitata a me, Giacomo mi fa notare che lui non la serve. Si potrebbe trovare qualcosa di buono, ma non è facile.
Quando parlo delle mie uscite serali e vengo a merito dell’atteggiamento di riverenza che hanno i cinesi nei confronti degli occidentali, lui mi dice che sono stato nei posti sbagliati e che ce ne sono parecchi decisamente migliori, frequentati anche da stranieri. Soffia un po’ di fumo e aggiunge che una volta per “fare serata” bastavano 50 euro, champagne incluso, mentre adesso ce ne vogliono 200. Seduta vicino a lui c’è una donna anziana: è sua madre, che gli da una mano a gestire la cucina.
Nel ristorante c’è un filippino che suona dal vivo una chitarra accompagnato da basi registrate. Giacomo dice che guadagna più di lui e vorrebbe che si sforzasse di parlare coi clienti. Mi piace come suona, e gioco a seguire il suo ritmo articolando le dita della mano destra. Dumb dei Nirvana e Knockin’ on Heaven’s Door. Giuliana mi rimprovera perché non riconosco un pezzo dei Pink Floyd; o forse erano i Dire Straits. Mangio degli spaghetti ai frutti di mare che sono molto buoni;[9] prima di uscire faccio i complimenti a Giacomo per il suo locale.

Se non ho capito male, per determinare le tasse di un piccolo ristorante è sufficiente presentare un contratto di affitto, dichiarare la superficie ed il numero di coperti giornalieri. Non c’è obbligo di dichiarazione IVA e lo stato fornisce un certo numero di fatture in base al volume di affari. Le piccole realtà economiche lavorano con i propri soldi pagando in contanti o con assegni a vista. Non esiste nulla di simile al giro degli effetti basato sulle ricevute bancarie com’è in Italia.

Per quanto riguarda il permesso di soggiorno, averne uno permanente per motivi di lavoro è difficile, servono l’invito da parte di un’azienda locale, un curriculum, gli esami del sangue, il certificato di laurea ed altri documenti che non ricordo. Un’alternativa è quella di utilizzare dei permessi multientrata di sei mesi, facendo poi vedere che si esce dalla Cina una volta ogni due mesi, per esempio recandosi ad Hong Kong. Questo è compatibile con l’essere proprietari di un’attività, ma non con l’esserne dipendenti. Per inciso, io e Roberto abbiamo ottenuto il visto per motivi turistici.

Parlando con gli italiani che vivono da queste parti chiedo spesso informazioni a riguardo del reddito dei dipendenti cinesi e del costo della vita. Un operaio nell’entroterra può prendere circa 150 euro al mese, mentre per un cameriere della città una cifra più verosimile è di 250 euro (ma fino a pochi anni fa era meno della metà). Nelle grosse aziende lo stato interviene per impedire che gli stipendi si alzino troppo, perché altrimenti la Cina diventerebbe meno competitiva rispetto ad alcune nazioni limitrofe come il Vietnam. I costi da sostenere per mangiare ed abitare sono decisamente in crescita. Nell’area cittadina lo stato ha recentemente imposto un raddoppio degli affitti. Enrico vive in un appartamento di centoventi metri quadri che prima gli costava 200 euro e adesso è passato a 400. Per lui non è stato un grande problema, ma non si può dire lo stesso dei lavoratori cinesi, per i quali l’incidenza dell’affitto sulla busta paga è considerevole.
A causa di questa situazione stanno diventando più frequenti i casi in cui gli operai semplici preferiscono licenziarsi per tornare nelle campagne a praticare un’agricoltura di sussistenza. C’è stato un caso in cui, se è vero quello che mi hanno detto, si sarebbero licenziati in blocco settecento dipendenti proprio nell’azienda in cui ci troviamo. Con queste premesse la previsione che fanno tutti è quella di un costo del lavoro in aumento e di uno spostamento di alcune aziende verso le zone più interne e povere, all’inseguimento della manodopera a minor costo.

Si tenga presente, per comprendere meglio lo scenario descritto, che in Italia siamo abituati a immagini di cinesi ammassati nei laboratori clandestini e completamente dediti al lavoro, mentre qui non sono infrequenti le figure di cinesi che danno l’impressione di prendersela piuttosto comoda, sia nell’azienda del nostro cliente, sia nell’ambito di tanti piccoli ruoli di servizio che si possono osservare nel contesto cittadino (portieri, commessi, camerieri, guardie, etc.)

Chiudo questa parentesi economica aggiungendo che Xiamen è una città in cui i costi sono molto inferiori rispetto ad altri luoghi come Shanghai, dove possono essere anche il doppio rispetto a qui.

Siamo dunque arrivati a mercoledì sera verso mezzanotte. Al mio ritorno in albergo scrivo alcuni messaggi con Skype (in Italia sono le sei di sera e qualcuno lavora ancora), poi vado in bagno a lavare alcune delle mutande e delle magliette usate nei giorni precedenti; nel tentativo di asciugarle riesco a bruciare l’asciugacapelli dell’albergo. Spero che i cinesi non se accorgano.

Giovedì a pranzo abbiamo più tempo a disposizione perché dobbiamo aspettare il risultato di alcuni test chimici che verranno pronti nel primo pomeriggio. Ne approfittiamo per ispezionare l’outlet aziendale e arriviamo in mensa più tardi del solito. Quando gli altri si alzano per tornare al lavoro io sono ancora seduto a mangiare e ne approfitto per chiacchierare con Sarah, che come i giorni precedenti è arrivata per ultima. Roberto esce a fumare una sigaretta e dice che mi aspetta fuori. Mi perdo negli occhi neri e scintillanti di lei; le dico che mi piace il modo in cui sceglie i momenti in cui parlare e quelli in cui restare in silenzio. Lei viene da New York e le piace ballare. Ci scambiamo i numeri e ci diamo un appuntamento per la sera.

La rivedo sul solito autobus aziendale che di sera ci riporta a Xiamen. Mentre lei parla con qualcun’altro, ci scambiamo senza farci notare alcuni messaggi per definire l’orario ed il luogo. Ma poi lei nello scendere dall’autobus cambia idea e invita me e Roberto ad andare subito a cena insieme. Roberto dice che a lui non interessa e che ieri ci eravamo accordati per andare all’isola di Gulangyu per prendere i souvenir… Non mi va di lasciarlo solo, e a malincuore saluto la ragazza. Gulangyu è una piccola isola piena di negozietti che si raggiunge con il traghetto. Mentre sono sull’imbarcazione mi viene voglia di andare sul ponte superiore per avere un panorama migliore; mi fanno pagare uno yuan in più e mi danno un biglietto numerato con dei timbri, simile a quello dei tassisti. Immagino che si tratti di una forma di tassa statale.

Cina-03-traghetto-per-GulangyuA Gulangyu ci si muove soltanto a piedi; auto e biciclette sono bandite. Secondo Roberto l’atmosfera è come quella di Gardaland. Dovrebbe esserci un museo del piano, ma non abbiamo il tempo di cercarlo. Dopo aver esplorato alcuni negozi Roberto è contento perché ha trovato quello che cercava: delle decorazioni calamitate con il nome di Xiamen. Io resto concentrato sul mio telefono, con cui armeggio facendo SMS fino a che non ricostruisco l’appuntamento con Sarah. Ritorno anch’io ad essere di buonumore, e sulla strada del ritorno canto le canzoni dei cartoni animati.

Incontro Sarah verso le dieci, e andiamo a bere qualcosa nei locali lungo la gradinata in riva al mare. Dopo molto parlare ci incamminiamo verso il Key Club dove stavolta c’è qualcuno che balla fra i tavoli. Quando ci mettiamo a ballare anche noi, uno dei ragazzi del locale ci tira subito sul piano rialzato di fronte al palco del DJ, in parte perché siamo abbastanza ispirati nei movimenti, ma soprattutto perché siamo occidentali. Il ricordo di questa serata mi ha ispirato una canzone:

THE GIRL FROM NEW YORK

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

She has been the hint
for my mind to fly.
The flight went too far
and stretched the mind.

The mind fell apart
like a mirror that tries
to follow who leaves
going out of the room.

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

So tears on my face
this night in Xiamen;
only saved me the glue
i was told by Cobain.

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

Quando rientro in stanza trovo Roberto ancora sveglio; mentre era da solo la connessione internet ha smesso di funzionare interrompendo il suo dialogo con gli affetti familiari. Allora si è arrabbiato e ha chiamato la reception; la cinese che ha risposto parlava inglese meno di lui, però gliene ha dette quattro ed è riuscito a fare venire dei tecnici che hanno sistemato il problema.

Cina-04-incisione-cinese-nel-parco-botanicoVenerdì non dobbiamo andare nell’azienda del cliente e ne approfittiamo per visitare il parco botanico di Xiamen; è piu ampio di quel che pensavo, e servono alcune ore per vederlo tutto. All’interno c’è un colle alto dai fianchi ripidi che offre degli scorci paesaggistici molto interessanti. A Roberto piacciono queste cose. Nell’approssimarci ad una cresta laterale del colle iniziamo a sentire dei vocalizzi che riempiono l’atmosfera. Ci immaginiamo che per ottenere un simile effetto sonoro debba esserci un coro di molti monaci, ma non è così. Proseguendo nel cammino ci si apre davanti una piccola valle nella quale osserviamo il complesso architettonico di un tempio immerso nella vegetazione. Continuando il nostro percorso fra i sentieri del bosco che ricopre il colle incontriamo un accesso laterale ai locali del tempio; si sente il canto ma non si vede nessuno. Entro con circospezione, mentre Roberto mi aspetta fuori a riposare. Mi guardo in giro controllando se c’è qualche persona o qualche cartello di divieto, ma è tutto scritto in cinese. Mi trovo in uno spiazzo da cui vedo gli alloggi dei monaci. Esce un uomo in ciabatte che mi osserva brevemente e poi si dedica al suo cellulare e borbotta qualcosa a qualcuno che non riesco a vedere. Visto che non mi dicono nulla proseguo verso la direzione da cui sento provenire il canto. Salgo alcune scale e arrivo dove ci sono i monaci con la tunica arancio che stanno celebrando la cerimonia. Sono quattro o cinque e stanno usando un microfono. Sono inginocchiati, mi danno le spalle e davanti a loro c’è una serie di statue del Buddha. Dietro di loro alcune altre persone in abiti normali partecipano al rito. Nessuno sembra notare la mia presenza.

Uscendo dal parco facciamo due passi senza una meta precisa, ed incontriamo una decina di imponenti soldati di bronzo che corrono all’assalto, sventolando una grande bandiera rossa con una stella gialla. Poco dopo troviamo un bowling a sei piste dove facciamo una partita; è tutto simile ai bowling che ci sono in Italia, dalle scarpe agli schermi dei punteggi alle poltroncine dei giocatori. Però costa quattro volte di meno. Il nostro punteggio non è un granché, ma un paio di strike riusciamo a farli.
Prima di prendere la strada dell’aroporto passiamo in un grande parco pieno di gente che passeggia e gioca a carte all’ombra degli alberi. Notiamo un gruppo di trenta o quaranta persone che fanno un esercizio buffo: stanno tutte piegate in avanti battendosi le mani sulle gambe, producendo un rumore simile ad un applauso.

Arrivati in aeroporto, l’attesa dell’imbarco è l’occasione per fare un bilancio di quello che abbiamo visto. A parte le questioni lavorative, che in questo racconto ho volutamente evitato di esporre, a parte la mail di Sarah, il pettine e lo spazzolino col marchio dell’albergo, i jeans elasticizzati e le foto che Roberto mi deve ancora girare, a parte questo, cosa mi lascia questo viaggio?

Tutti gli interlocutori con cui mi sono confrontato dicono che la crisi qua in Cina non si sente e che il calo della domanda estera non crea grossi problemi per via della crescita del mercato interno. L’azienda presso la quale stiamo facendo assistenza, ad esempio, ha come mercato principale quello cinese seguito dal Nord America, mentre in Europa vende poco. Quando gli ho chiesto cosa dicono i cinesi dell’Europa, Enrico si è fatto una risata; scherzando, ma non troppo, ha detto che la danno per morta. Poi ha aggiunto che sulle televisioni cinesi c’è una forte propaganda in favore della Cina, e che loro (i cinesi) hanno ancora questo modo di sentirsi come “un grande esercito”.

Penso all’Italia e alle strade delle nostre città che non ci appartengono più, in parte per problemi di micro-criminalità, in parte per colpa nostra che amiamo stare separati nelle nostre case e nelle nostre stanze. In Cina ho visto qualcosa di diverso. I cinesi non passano molto tempo in casa; non so quanto sia per via del clima caldo, quanto per la miseria della maggior parte delle abitazioni, e quanto per i fattori culturali, fatto sta che loro vivono lo spazio comune della strada in modo più intenso rispetto a noi. Inoltre, se a Brescia di sera una ragazza ha paura a camminare da sola, a Xiamen il problema non si pone nemmeno a notte inoltrata; c’è un senso di confidenza con il luogo pubblico che da noi è assente.
Alcuni frammenti di questa città cinese mi hanno regalato una sensazione sociale particolare e mi hanno ispirato quella sfumatura delicata del pensiero che guarda le persone cercando di farne un coro anziché un’indifferenza, ed è questo il souvenir della psiche che vorrei conservare salutando Xiamen.

 

Cina-05-mercato-del-pesce-a-Gulangyu

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  1. [1]Tutti i nomi di persona di questo racconto sono stati cambiati rispetto agli originali.
  2. [2]1,3 euro
  3. [3]Per entrambi. Dunque sono 180 euro a testa.
  4. [4]2.500 yuan
  5. [5]7,9 euro
  6. [6]20,9 euro
  7. [7]5,3 euro
  8. [8]10,5 euro
  9. [9]80 yuan, pari a 10,5 euro

LA DANZA DEL QUI ED ORA: UN PARADISO TASCABILE

IL CONTESTO GRIGIO
LA ZONA DEL COLORE

IL CONTESTO GRIGIO

Il nostro pensiero è l’arte di organizzare quello che vediamo in funzione di un obiettivo, ma quello che noi vediamo è drammaticamente poco rispetto al brusio assordante del divenire che impazza dappertutto nel mondo, negli uffici e nelle menti, sugli schermi, nelle fabbriche e nelle atmosfere.

Noi pensiamo di sapere come andranno le cose e ce ne facciamo un’immagine nella testa. Ma il resto del mondo non si organizza per compiacere le nostre aspettative. C’è una natura intrinseca nelle cose che procede con le sue logiche indifferenti ai nostri programmi. E soprattutto ci sono le intenzioni degli altri uomini, contrapposte alle nostre.

Le maglie del ragionamento si allargano nel tentativo di avvolgere le conseguenze e le condizioni dei processi produttivi, ma non si può tenere conto di tutto. Basta aspettare, ed arriva sempre qualcosa che non era previsto e ci costringe a cambiare il pensiero per adeguarlo al mondo. Le nostre aspettative sono un cristallo che andrà in frantumi negli ingranaggi insensibili del divenire.

C’è qualcosa di perverso nel modo in cui l’uomo si innamora dei suoi progetti sul mondo, che nascono con tanto entusiasmo ma poi incastrano in sé stessi il medesimo uomo che li aveva amati, rendendo triste il suo ragionare. La società funziona per mezzo di questa perversione al cui meccanismo è difficile sfuggire.

Ma se il ragionamento sul mondo è divenuto triste, allora il pensiero ha bisogno di un luogo a parte dove dimenticarsi del mondo. Se la società è una foresta alta dove non penetra la luce, noi cerchiamo una radura che sfugge alle ombre per ritrovare il cielo. Noi ce ne andiamo dal futuro per restare nel presente, abbandoniamo il resto del mondo per guardare solo a queste case, ci distogliamo dalle parole delle persone ritraendoci nell’interno che non parla.

Aries Tottile diceva che se l’uomo è ragione, allora il bene dell’uomo è l’esercizio della ragione; ma l’uomo è anche e soprattutto corpo. Accantonare il ragionamento guasto per dare spazio al corpo può essere la strategia migliore per poi tornare ad un ragionare che prenda le mosse da ambienti del pensiero più puliti.

Spesso la volontà che organizza l’azione per raggiungere gli obiettivi finisce per creare una sorta di cortina fumogena tra noi ed i nostri movimenti, che vengono compiuti senza essere vissuti. Ma una volta che ci siamo lasciati alle spalle i ragionamenti andati a male, l’azione si può liberare dalla schiavitù dei risultati e le diviene accessibile quel tanto di sacro che è insito in ogni movimento.

Ecco, sto smettendo di alimentare i pensieri dei progetti e degli obblighi in società. Lascio che le immagini del lavoro, delle persone e delle notizie diventino sbiadite. Dopo aver parcheggiato l’attenzione nell’ascolto del respiro, osservo con la coda dell’occhio i pensieri del giorno che continuano a germogliare. Ma se io mi trattengo e non li guardo, se io non li raccolgo, loro ritornano sott’acqua come un delfino che dopo essere uscito nell’aria ricade. E anche se ci sono attorno a me delle persone, no, non è vero: quelle persone non ci sono, sono solo creature in periferia che non sono interessate a quello che sto facendo, e nemmeno possono vederlo.

Se prima la ragione inviava l’ordine di muoversi per mezzo di telegrammi, adesso ascolta quello che il corpo ha da dire. È il momento dell’aderenza, dell’attenzione che si diffonde nei volumi della carne, nei muscoli grandi delle braccia e delle gambe ma anche in quelli minuscoli i cui nomi sono conosciuti dai medici soltanto. È il momento per accogliere il suono ordinato in ritmi ed armonie di note sovrapposte: la musica, l’allenatrice del corpo e del pensiero.

LA ZONA DEL COLORE

Tra le foglie di una pianta lo sguardo dell’uomo indaga nella speranza di un frutto, e quando si trova di fronte ad un volto lo interpreta disponendolo attorno agli occhi. Allo stesso modo la mente desidera trovare i punti polari della struttura musicale, e quando pensa di averne trovato uno, lo mette alla prova afferrandolo con il capitano di tutti i gesti: il piede che incontra il pavimento.

Ogni volta che il gesto indovina il tempo, l’energia non cala per il lavoro compiuto ma aumenta con la solidità della sensazione musicale. E se le gambe giocano bene, poi l’anima dell’ispirazione prende possesso anche del tronco, delle braccia, e delle mani; fino alle articolazioni delle dita. La struttura corpo è messa al servizio della struttura musica, come fosse un burattino dalle molteplici possibilità, ed ai gesti semplici che battono i tempi forti seguono montaggi più articolati.

Nei film d’avventura ci sono delle mattonelle segrete, e quando qualcuno per sbaglio le calpesta scattano le trappole infernali e crollano i palazzi. In questo video-real-game invece c’è un punto G segreto del cemento che si muove sotto il pelo della superfice come i grandi vermi nelle sabbie di Dune, e quando tu riesci a seguirlo con i passi, il pavimento prende vita e diviene un animale da cavalcare. Quando ne perdi le tracce ti devi fermare, immobile come una statua silenziosa, in attesa che l’intuito ne ritrovi la posizione.

Ma non siamo in un laboratorio teatrale del novecento, e non è un atleta quello che sta ballando, preoccupato di muscoli più resistenti per balzi più potenti. È un cittadino del triste impero che di professione fa qualcos’altro, ed usa con affetto il corpo che ha a disposizione per suonare lo spartito, senza arrabbiarsi per i limiti del suo strumento. Non è l’intensità della prestazione fisica che comanda in questo gioco, ma la sintassi delle parole movimento di cui il regista interiore dispone. E là dove la fatica si fa sentire, il cittadino danzante interpone pause immobili o diminuisce oltremodo l’intensità di ogni gesto, fino a lasciarne solo un cenno del capo o dello sguardo. Ma non rinuncia mai ad infatuarsi per le lucciole che si accendono nel triangolo magico fra il corpo, la mente ed il suono organizzato.

Il manuale dell’uomo ci insegna una danza per costruire il regno del Qui ed Ora, dando così un senso all’impresa di affrontare l’altrove che ci viene contro nei giorni. Non è un ballo per piacere allo sguardo di una platea; è una forma di bellezza che non viene osservata da quelli che stanno fuori, ma da quell’unico[1] che sta dentro.

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  1. [1]Una precisazione: non ho utilizzato questa espressione per indicare la fede in un io monolitico, che al contrario percepisco come molteplice. Credo che la convenzione dell’io grammaticale unitario sia un metodo liberamente utilizzabile a seconda delle occasioni. In questo caso si può considerare tale unico come il punto mentale in cui sta per formarsi l’ispirazione, non comandata da un ordine ma invitata da un’attesa.

USCITA DI SICUREZZA: IL LIBRO DI GIULIO TREMONTI, LA CRISI FINANZIARIA, E LA LEGGE GLASS-STEAGALL

RIFLESSIONI SUL LIBRO DI GIULIO TREMONTI.[1]

1 – PRIMO FLASHBACK: NASCONO I DERIVATI
2 – SECONDO FLASHBACK: IL NOSTRO RISPARMIO VIENE MESSO IN GIOCO ANNULLANDO LA SEPARAZIONE BANCARIA
3 – IL DISCORSO DI GIULIO TREMONTI
4 – LA SOLUZIONE ALLA CRISI

PRIMO FLASHBACK: NASCONO I DERIVATI

Il 24 Marzo 1989 la petroliera Exxon Valdez devia dalla rotta usuale per evitare degli iceberg e finisce contro gli scogli nello stretto del Principe William, in Alaska, riversando in mare quarantamila metri cubi di petrolio. Per le conseguenze di questo disastro ecologico la compagnia petrolifera Exxon rischia di dover pagare un risarcimento di cinque miliardi di dollari, e per tutelarsi chiede alla banca JP Morgan di concederle una linea di credito adeguata: se Exxon dovrà pagare i danni, i soldi le verranno prestati da JP Morgan. JP Morgan accetta per non perdere Exxon come cliente, ma non è contenta, perché rischia di dover prestare una somma enorme che forse Exxon non sarà in grado di restituire. Inoltre JP Morgan è costretta dalle regole bancarie a compensare il rischio di cinque miliardi di dollari che si è assunta tenendo bloccate parecchie centinaia di milioni di dollari come riserva di sicurezza, e quindi non può impiegare tale denaro in altre operazioni più redditizie.
L’idea che verso la fine del 1994 consente a JP Morgan di sbloccare questo denaro è di scambiare[2] quel grosso rischio da cinque miliardi con la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che se lo assume ricevendo in cambio un determinato premio in denaro da JP Morgan, ovviamente di importo inferiore rispetto alla cifra complessiva. Questa operazione è di tipo nuovo, e le viene dato il nome di Credit Default Swap, che si abbrevia in CDS e che in italiano potrebbe suonare come “Scambio del (rischio di) Fallimento di un Credito”.

Ispirata da quanto accaduto, nel 1997 JP Morgan mette a punto un prodotto finanziario che spezzetta alcuni grandi rischi simili a quelli del caso Exxon in una miriade di parti molto piccole rimescolandole poi fra di loro ottenendone tante polpette composte da frammenti di rischio di provenienza diversa. Il rischio di ciascuna polpetta è mediamente basso, in quanto ognuno dei singoli grandi rischi di partenza ne può svalorizzare solo una piccola frazione. Tali polpette appaiono abbastanza sicure da poter essere proposte ad un ampio pubblico il quale si fa garante del rischio che costituisce le polpette in cambio di un premio costante. Proviamo a pensare ad una polpetta da 1.000 euro per la quale il cliente riceve ogni mese un euro: se qualcosa va storto nel rischio X a monte della polpetta, il cliente deve rimborsare al produttore della polpetta la parte corrispondente al rischio X, per esempio 40 euro.
Ecco, questi sono i moderni derivati finanziari. L’aggettivo “derivati” si riferisce alle formule matematiche con cui si fa derivare il valore dei titoli commerciabili (le polpette) dal valore originario di una serie di eventi che stanno a monte, come il rischio di Exxon o la possibilità che certe grandi organizzazioni, nazioni incluse, smettano di pagare i loro debiti.

Il lavoro delle banche è fare prestiti, e ad ogni prestito è connesso il rischio di una mancata restituzione. La messa a punto di uno strumento finanziario che consenta di “vendere” il rischio dopo averlo reso “meno rischioso” è un’invenzione in grado di fare epoca, perché permette di diminuire il rischio nei bilanci delle banche. Di conseguenza diminuisce la quantità di soldi che vanno obbligatoriamente tenuti accantonati come scorta, e tali soldi possono essere destinati ad operazioni che offrono profitti maggiori.

Ma ci deve essere stato un errore di messa a punto in quelle formule, perché il rischio sminuzzato e mescolato non cambia affatto il suo peso totale. Non c’è una diminuzione complessiva del rischio ma soltanto una sua distribuzione, alla quale avrebbe dovuto corrispondere un’analoga distribuzione delle scorte di sicurezza, non una loro diminuzione. Tutto va bene finché solo pochi rischi si trasformano in un danno effettivo. Tutto inizia ad andare male quando ci si trova di fronte ad una crisi sistemica con ondate di fallimenti e un aumento drastico del rischio di tutte le polpette.

Nel primo decennio degli anni duemila si fa un utilizzo eccessivo di strumenti finanziari simili a quello descritto, e le cifre collegate diventano astronomiche. È come se una banda di scommettitori avesse puntato una somma 10 volte più grande del mondo[3] su alcuni disastri considerati improbabili ma che adesso stanno accadendo. In questo scenario la finanza ha ben altro di cui preoccuparsi che non della sua funzione sociale originaria, quella di portare i soldi là dove ci sono attività produttive che ne hanno bisogno. E di fronte a cifre così grandi la vita di qualche uomo in più o in meno non rappresenta un fattore che viene preso seriamente in considerazione. Purtroppo per noi.

SECONDO FLASHBACK: IL NOSTRO RISPARMIO VIENE MESSO IN GIOCO ANNULLANDO LA SEPARAZIONE BANCARIA

Uno dei provvedimenti più importanti varati in America per rimediare alla crisi del 1929 è la legge Glass-Steagall (si pronuncia: “glass-stigall”) del 1933, la quale divide le banche ordinarie che gestiscono i risparmi dalle banche d’affari che conducono rischiose operazioni speculative.[4] Nel 1998 Citicorp e Travelers si uniscono a formare il nuovo colosso Citigroup. La legge Glass-Steagall implica la non validità di tale fusione, ma ci sono due anni di tempo prima che gli effetti della legge diventino operativi. I dirigenti della neonata Citigroup si danno da fare e con una campagna di convincimento nei confronti dei politici riescono in ciò che già altre volte era stato tentato senza successo dalla comunità finanziaria. Il 4 Novembre del 1999 la legge Glass-Steagall viene abrogata con 90 voti contro 8 dal senato degli Stati Uniti d’America.[5] [6]

Con i derivati le banche hanno iniziato a giocare un gioco più grosso; in seguito, annullando la divisione fra credito ordinario e speculazione, sono riuscite a mettere in palio anche i nostri risparmi.

IL DISCORSO DI GIULIO TREMONTI

L’impiego estensivo dei derivati e l’abrogazione della legge Glass-Steagall in America costituiscono due aspetti caratteristici della deregolamentazione dei mercati finanziari che si è svolta in particolare negli anni novanta del secolo scorso e che ha contribuito in modo sostanziale alla crisi finanziaria in cui ci troviamo. È stata promossa una campagna ideologica che ha fatto sembrare la deregolamentazione come un tratto tipico del progresso[7] nonostante il sistema finanziario abbia dimostrato storicamente di avere bisogno di regole più degli altri settori.

Con l’ondata di fusioni e acquisizioni rese possibili dalla deregolamentazione gli istituti bancari sono diventati grandi a tal punto che il loro fallimento viene considerato come un’eventualità tanto disastrosa da utilizzare i soldi dei contribuenti per evitarlo. Sapendo di avere le spalle coperte questi istituti possono assumere rischi considerevoli a cuor leggero: se la scommessa funziona ne derivano bonus consistenti per i manager, se la scommessa va male invece, il peso va a finire sui bilanci dello stato che lo gira ai cittadini con le tasse.

Non è corretto affidare la risoluzione della crisi corrente alle istituzioni finanziarie, perché la causa primaria della crisi sono loro, complice la corruzione dei singoli e la ricerca smodata del profitto. Lasciare che la partita si giochi in casa della finanza significa dare un’altra volta a questa gente la possibilità di favorire i propri interessi, allontanando nel tempo la risoluzione dei problemi maggiori. Per questo Tremonti considera un errore l’avere affidato la gestione della crisi al Forum di Stabilità Finanziaria,[8] a riguardo del quale dice: “È successo che […] ha funzionato da cavallo di Troia, fabbricato dalla finanza per entrare nella politica e batterla sul suo stesso campo.” Il risultato dell’attività del FSB è che “dopo una breve penitenza le giurisdizioni non cooperative contano più o meno come prima, […] a mercati e agenzie di rating viene restituita appieno la sacralità del giudizio inappellabile; i bonus dei banchieri hanno raggiunto nuovi livelli record.”[9]

Per quanto riguarda le agenzie di rating, nell’ambito di una crisi in cui sono stati fatti dei gravissimi sbagli nella sfera contabile, è naturale porsi degli interrogativi sul loro ruolo. Il parere di queste agenzie è considerato vincolante da molte importanti organizzazioni internazionali, senza però che nessuna legge stabilisca delle sanzioni per i loro “eventuali” errori. “Se il rating avesse un valore legale diretto, così come ha valore legale la certificazione di bilancio, episodi come il crac della Lehman Brothers non sarebbero rimasti senza conseguenze per le agenzie di rating. L’Arthur Andersen, una potente società di revisione contabile, venne rasa al suolo proprio per aver certificato i bilanci falsi di Enron.”[refPag 75[/ref]

Secondo Tremonti è sbagliato aspettarsi che a “salvarci” dalla crisi possa essere una grande inflazione, in quanto questa non è voluta dalla BCE ma soprattutto non è “voluta dalla Cina che, essendo largamente creditrice, con una grande inflazione che ne svaluta i crediti ci perderebbe economicamente e, di riflesso, si destabilizzerebbe socialmente.” E nemmeno è lecito sperare che sia una guerra a risolvere la situazione, perché le guerre hanno un effetto acceleratore “solo se sono guerre mondiali e non locali, tragedie strutturali e non espedienti congiunturali. No, grazie.” È sbagliato anche pensare che la crisi dell’Europa sia dovuta all’azione ostile degli Stati Uniti d’America: “Invece di sospettare degli altri è meglio capire […] che oggi è l’Europa che si fa male da sola.”[10]

La crisi in cui ci troviamo ha avuto sì origine negli Stati Uniti d’America, ma sta avendo effetti peggiori in Europa per via della divisione politica del vecchio continente. In aggiunta alla sua debolezza politica l’Europa è anche penalizzata dalla mancanza di una vera banca centrale: la BCE “non ha la funzione principale e tipica che è storicamente e sistematicamente propria di una vera banca centrale: la missione di agente del governo, di garante di ultima istanza.”[11]

LA SOLUZIONE ALLA CRISI

Tremonti ci ricorda gli alti livelli di integrazione economica e finanziaria delle nazioni d’Europa, e parla da convinto sostenitore dell’ideale europeo. Dopo aver esaminato i pro e i contro del ruolo della Germania in Europa[12] prende in considerazione alcune ipotesi sulla gestione della crisi: la variante peggiore è l’immobilismo passivo destinato a condurci ad un catastrofico dissolvimento dell’euro, mentre la soluzione preferibile è una riorganizzazione costituzionale dell’Europa ispirata ad una “Nuova Alleanza” tra popoli e Stati.[13]

Secondo Tremonti la BCE deve diventare una vera banca centrale dotata degli strumenti per affrontare la crisi, e vanno avviati dei progetti per la costruzione di infrastrutture europee per mezzo degli Eurobond. Va sostenuta l’adozione del decalogo OCSE sui principi di trasparenza e integrità dell’economia.[14] Vanno abrogate le leggi con cui è stata messa in atto la deregolamentazione finanziaria, ritornando ad una sana divisione fra credito ordinario e attività speculativa oltre che al divieto dell’impiego di strumenti finanziari simili ai derivati.[15]

Non basta: la gravità della situazione richiede una riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario.[16] Bisogna verificare i crediti e i debiti dei maggiori istituti finanziari per eliminare quelli privi di garanzie.[17] Si evidenzieranno delle grandi perdite, e l’intenzione condivisibile di Tremonti è quella di farle pagare a chi ha tratto i maggiori profitti dalle speculazioni degli ultimi decenni.[18]

L’uscita di sicurezza proposta da Giulio Tremonti consiste nel prendere il toro per le corna, rimettendo la politica e lo stato al di sopra della finanza, riportando quest’ultima al suo ruolo che è quello di fornire capitali alle attività produttive. La dimensione esagerata concede alle organizzazioni finanziarie una potenza paragonabile a quella degli organi di governo, senza che siano soggette a nessun tipo di controllo democratico. Mettersi contro di loro non è facile, ma con la crisi e con gli scenari oscuri che stanno diventando lo sfondo abituale dei nostri giorni ci saranno sempre più persone disposte a rischiare. Sarebbe un peccato se quelli che vogliono agire rimanessero senza esempi di coraggio e di visione, se scendessero in piazza senza sapere per cosa, soltanto per lanciare qualche sasso ignorante. In questo contesto il ritorno “alle vecchie gloriose leggi bancarie modellate sul tipo della legge Glass-Steagall del 1933”[19] è un obiettivo politico ambizioso ma allo stesso tempo concreto e semplice da spiegare alla gente.

Ci sono nella rete degli uomini che dicono cose giuste, ma il loro nome è conosciuto solo in un ambito ristretto, non hanno esperienza di governo, e sono mescolati ad altra gente che dice le cose opposte rovinando i giovani con dei sogni sbagliati.[20] Giulio Tremonti invece è stato per molti anni alla guida di una delle dieci economie più grandi del mondo, parla di cose che conosce per esperienza diretta ed indica in modo preciso le cause della crisi, cosa che molti altri in una posizione simile alla sua non hanno il coraggio di fare. Questo è il motivo per cui il suo libro è importante.[21]

Distribuito secondo Creative Commons BY-NC-ND 3.0

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  1. [1]Tremonti, G. (2012) Uscita di Sicurezza, Milano, Rizzoli. ISBN 978-88-17-05774-5
  2. [2]In inglese: to swap
  3. [3]Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI; in inglese Bank for International Settings: BIS) nel 2011 il valore dei derivati era di 707.569 miliardi di dollari a fronte di un Prodotto Interno Lordo mondiale di 62.911 miliardi di dollari (pag 51).
  4. [4]L’equivalente italiano è la legge bancaria del 1936.
  5. [5]http://www.dailyfinance.com/2009/11/12/a-decade-after-glass-steagalls-repeal-its-time-to-reverse-san/ http://www.huffingtonpost.com/2009/05/11/glass-steagall-act-the-se_n_201557.html
  6. [6]Ho fatto riferimento all’abrogazione della legge Glass-Steagall avvenuta negli Stati Uniti d’America in quanto si tratta di un evento molto significativo, ma si tenga presente che la deregolamentazione del settore bancario in Europa non è posteriore a quanto accaduto negli Stati Uniti.
  7. [7]A titolo di esempio, il provvedimento con cui è stata abrogata la legge Glass-Steagall è stato nominato “Atto di modernizzazione dei servizi finanziari” (Financial Services Modernization Act) quando in realtà si trattava di tornare alle condizioni precedenti al 1929.
  8. [8]FSB – Financial Stability Forum
  9. [9]Pag 68
  10. [10]Pag 84
  11. [11]Pag 108
  12. [12]“In particolare, in questo momento non si può essere a favore dell’idea di Europa, e non si può essere sinceri amici della Germania, se non si confrontano tra loro e non si pesano le diverse voci positive e negative che vengono elencate qui di seguito.” Pag 122
  13. [13]Pag 154
  14. [14]“Se il Novecento è stato il secolo del gold exchange standard, questo secolo può, deve dunque essere identificato da un nuovo, diverso e giuridico «parametro globale»: appunto il Global legal standard, proposto da chi scrive in un seminario a Parigi nel 2008 e poi dall’Italia nel G7 del 2009. L’avvio è in questo decalogo, approvato in sede OCSE.” Pagg 174-175
  15. [15]“È necessario ridurre il rischio che viene dai derivati. Per farlo è possibile e sufficiente applicare la stessa tecnica: abrogare tutte le leggi che, a partire dagli anni Novanta, in USA e in Europa li hanno liberalizzati. In ogni caso è fondamentale che le banche ordinarie non possano negoziare e/o acquistare derivati, in nessuna forma.” Pagg 171-172
  16. [16]“Molti soggetti, molti segmenti, molti blocchi bancari e finanziari devono essere avviati verso ordinate procedure fallimentari. Ad esempio, verso procedure regolate sul modello del Chapter 11 degli USA.” Pag 170
  17. [17]“… si deve separare il grano dal loglio e dalla zizzania, il bene dal male, aprire o fare aprire i libri contabili, imporre l’accertamento volontario o coattivo di quanto dell’uno e quanto dell’altro c’è in ogni banca, più in generale in ogni grande operatore finanziario” Pag 169
  18. [18]“È a chi ha perso la sua scommessa che si deve imporre di pagare.” Pag 169
  19. [19]Pag 166
  20. [20]Soprattutto gli ex comici.
  21. [21]Ed è anche una causa non secondaria della caduta di Silvio Berlusconi.

JÜRGEN HABERMAS: UNA LEGGE PER L’EUROPA

Riflessioni a margine del testo di Habermas: “Morale, Diritto, Politica”[1] [2]

LA FORMA ASTRATTA E UNIVERSALE DELLA LEGGE

“Vi sono 144 usanze in Francia, che hanno valore di legge; queste leggi sono quasi tutte diverse. Un viaggiatore in questo paese, cambia leggi quasi tante volte quante cambia i cavalli di posta. […] al giorno d’oggi, la giurisprudenza si è tanto perfezionata, che non vi è usanza che non abbia diversi commentatori, e tutti, inutile dirlo, di avviso differente.”[3]

JÜRGEN HABERMAS

JÜRGEN HABERMAS

Con queste parole Voltaire descriveva il sistema delle leggi francesi prima della Rivoluzione: una costruzione variegata che ospitava nei suoi anfratti i privilegi dei nobili e del clero. Questa situazione è cambiata con la Rivoluzione francese[4] ed il passaggio a leggi unificate di tipo astratto e universale, che ancor oggi costituiscono la spina dorsale delle organizzazioni statali.

Un pensiero astratto è privo di colori e di odori, di volti luoghi e date; la forma astratta e universale della legge non consente di privilegiare certi individui al posto di altri, poiché non li può nominare (infatti se li nominasse avremmo un’espressione non più astratta, ma provvista di riferimenti concreti).[5] Essendo slegata da situazioni precise essa è portabile nei diversi luoghi del nostro universo sociale di oggi e di domani.

Proviamo a dare un’occhiata all’articolo 575 del codice penale italiano, quello relativo all’omicidio: Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Il testo, per mezzo della parola “chiunque”, si riferisce chiaramente ad ogni uomo, non solo a quelli appartenenti a certe classi sociali. Non si parla dell’omicidio commesso dai poveri ai danni dei ricchi o di reclusioni più lunghe per gli uomini piuttosto che per le donne.[6]

LA RAZIONALITÀ DEL DIRITTO CHE LEGITTIMA IL POTERE

Max Weber parla di razionalità del diritto riferendosi alla forma astratta e universale delle leggi oltre che ad altre caratteristiche collegate, quali l’ordinamento delle leggi in un sistema di frasi coerenti fra di loro; l’assenza di destinatari specifici della legge; un’applicazione il più possibile meccanica, mirata a minimizzare i casi in cui è necessario un giudizio di carattere soggettivo; chiarezza e semplicità per generare nella cittadinanza delle aspettative certe a riguardo di ciò che è lecito, le quali costituiscono un presupposto importante per i progetti sociali ed economici.

In questa concezione di razionalità non ci si riferisce direttamente a cosa viene detto, ma a come viene detto. Non si danno indicazioni rispetto al contenuto, ma alla forma in cui questo è scritto. Si parla perciò di proprietà formali della legge.
Se ci immaginiamo di fotografare la legge otterremo una fotografia in cui sarà possibile individuare la razionalità così come la intende Weber, che nel suo discorso si riferisce alla struttura della legge e non ai processi con cui essa si forma o a quelli con cui viene applicata, per catturare i quali sarebbe necessario un filmato.

Secondo Weber la razionalità della legge è la proprietà fondamentale che le consente di giustificare il potere, di legittimarlo agli occhi del popolo. I governi infatti non si limitano ad imporre con la forza una serie di norme fatte a loro piacimento senza il rispetto di nessun principio: hanno bisogno di operare con delle frasi che riscuotano nella popolazione[7] un qualche grado di accettazione. L’alternativa, indesiderabile, è un potere completamente autoritario operante senza il consenso, esclusivamente per mezzo della forza.

ALLONTANAMENTO DALLA RAZIONALITA’ FORMALE DELLA LEGGE

Storicamente la legge centralizzata di forma astratta e universale funziona per contrastare i privilegi della nobiltà e del clero favorendo quindi la posizione di coloro che ottengono ricchezza con il proprio lavoro anziché per nascita, rendita o tradizione. Grazie alla protezione della proprietà individuale molti cittadini possono accumulare e conservare il frutto di tale lavoro. Si creano i presupposti per un’accresciuta importanza dei mercati in cui gli individui si confrontano cercando vantaggio per mezzo dello scambio di beni materiali e di servizi, senza violenza, all’ombra di una regolamentazione garantita da uno stato che detiene il monopolio dell’uso della forza.

habermas - morale diritto politica

morale diritto politica

Tale cambiamento storico si risolve in un progresso nel momento in cui consente ai cittadini di porre in essere il proprio progetto di vita, ma non è privo di aspetti negativi. In particolare non impedisce la formazione di un ampio strato di popolazione al di sotto del livello minimo di reddito necessario per una vita dignitosa. Se tale fascia di malessere assume una natura sistemica, nasce il bisogno di una sua gestione sistematica da parte dello stato, per mezzo di apposite normative.[8] Esempi in questo senso sono le pensioni di vecchiaia e invalidità, l’assistenza sanitaria, la stesura di contratti collettivi di lavoro specifici per ogni settore.

 

Dov’è il problema, per chi desidera mantenere la razionalità della legge? Il punto è che le leggi necessarie per migliorare lo status dei disagiati non parleranno degli uomini in generale, come richiedevano l’astrattezza e l’universalità delle leggi: parleranno degli uomini poveri. La tutela dei deboli si risolve in un aumento di complessità della legge e nell’allontanamento dai criteri di razionalità formale della legge, per via della necessità di definire le situazioni particolari in cui l’intervento assistenziale è necessario.

Riassumendo: semplicità ed astrazione sono applicate all’inizio dell’Ottocento per risolvere dei garbugli inefficienti di leggi nei quali si annidavano molti privilegi. Allontanandosi dal punto zero in cui è avvenuto il cambiamento gli effetti negativi delle nuove leggi si accumulano e si evidenziano in zone grigie[9] che hanno bisogno di essere gestite con altre leggi, le quali sono più specifiche e dettagliate perché devono adattarsi alla molteplicità di aspetti del sistema in essere, senza poterla annullare con una nuova improbabile rivoluzione.
Tale sviluppo equivale ad un allontanamento del diritto dalla razionalità formale della legge così come l’abbiamo descritta sopra, e può dunque essere indicato con l’espressione deformalizzazione del diritto. La deformalizzazione dipende sia dall’accumulo di continuità storica che non viene ripudiata da un momento di discontinuità, sia dall’aumento di complessità del sociale a cui si applica la legge.[10]

HABERMAS E LA RAZIONALITÀ PROCEDURALE DELLA LEGGE

Negli antichi imperi la legge è basata su di un’origine sacra, sulla consuetudine e sull’operato della burocrazia. Il sovrano non può fare della legge ciò che vuole, perché questo significherebbe andare contro la tradizione e contro l’autorità divina da cui la legge proviene. Il fatto che i vertici del potere politico non possano disporre a proprio piacimento della legge viene indicato parlando di un momento di indisponibilità della legge.
Nel momento in cui la consuetudine e il divino smettono di essere fonti della legge, come unico riferimento rimangono le raccolte di norme create dall’uomo, che come le ha create le può anche modificare;[11] si presenta quindi il rischio che la legge venga manipolata ai propri fini dalla dimensione politica, e si sente il bisogno di ancorare la legge ad un riferimento che la protegga dai capricci del potere; una possibilità è stabilire che la legge debba essere l’espressione della volontà collettiva del popolo la cui autorità viene posta al di sopra di ogni altro organo dello stato.

Se qualcuno mi dovesse chiedere cosa sto facendo in questo momento, non risponderei analizzando l’interno della mia psiche e cercando di individuare le parti del pensiero coinvolte nell’attività di scrittura e quelle che invece rimangono a riposo, ma gli direi:“Io sto scrivendo un articolo su un libro di Jürgen Habermas”. Adesso fate un esperimento mentale: provate a immaginarvi un popolo dotato di una volontà collettiva e chiedetegli cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non so cosa vi risponderà, ma se ragiona come ho fatto io nel darvi la risposta di cui sopra, allora parlerà senza fare riferimento alle proprie suddivisioni interne: senza fare il nome dei singoli cittadini e senza riferirsi a situazioni sociali specifiche. Parlerà dunque in modo astratto.
È questo il senso in cui si può pensare che la volontà collettiva dei cittadini si esprima solo con leggi astratte ed universali tramite le quali riesca a preservare l’autonomia del diritto nei confronti della politica, opponendo ai desideri inopportuni del governo di turno la necessità di esprimersi in una determinata forma che si presume essere in grado di garantire la giustizia, impedendo l’esplicita assegnazione di privilegi a particolari classi sociali.

Habermas ritiene scorretto considerare l’universalità e l’astrattezza del linguaggio come la garanzia che siano rispettati gli intenti di una volontà collettiva monolitica.[12] L’universalità e l’astrazione delle leggi rimangono dei punti di riferimento, ma è necessario approfondire il modo in cui si formano le decisioni rompendo la scatola nera della volontà collettiva del popolo così come l’aveva pensata Rousseau.[13] Questo approfondimento non è stato compiuto dai socialisti,[14] mentre ha avuto luogo nelle teorie liberali.[15]

Il carattere astratto e universale non consente di formulare leggi che attribuiscano direttamente i privilegi a persone precise con un nome e un cognome, ma non impedisce che le leggi proiettino vantaggi e svantaggi sulle fronde della società creando zone chiare e zone scure. Per evitare una manipolazione delle regioni ombrose generate dalle leggi bisogna regolare il processo con cui dalla volontà di tutti si passa alle decisioni del vertice, e non solo definire la forma in cui tali decisioni devono essere formulate.

Rispetto alla razionalità formale così come l’aveva intesa Weber ci troviamo con un concetto di razionalità procedurale più ampio e robusto, che può rimanere valido anche nella complessità della situazione contemporanea in cui è difficile mantenere intatto il carattere astratto e universale della legge.

Mentre la razionalità formale secondo Weber aveva un carattere istantaneo (nel senso che si trattava di proprietà presenti nella legge in ciascun singolo istante) l’aspetto procedurale ci porta a prendere in considerazione degli eventi estesi nel tempo. Si passa quindi da una dimensione sincronica a una diacronica. Con un paragone musicale potremmo dire che mentre Weber si era concentrato sull’armonia dei suoni sovrapposti, Habermas richiama la nostra attenzione sulla melodia e sulla successione degli accordi.

JÜRGEN HABERMAS

JÜRGEN HABERMAS

LEGGE E MORALE

Nella nostra società ci possono essere diversi tipi di morale; ad esempio ce ne può essere una basata sulla massimizzazione della felicità totale dei singoli oppure una basata sulla pratica di certe virtù personali. Ce ne può essere una basata sull’amore verso il prossimo, oppure ancora un’altra che accetta solo quei comportamenti che potrebbero essere messi in atto da tutti gli uomini senza per questo danneggiare la società. Dunque ci troviamo nella situazione in cui una sola legge deve poter mediare fra morali diverse.

Oltre a ciò notiamo che la natura della morale è intrinsecamente diversa da quella della legge. La morale è più propositiva e disegnando degli esempi può ispirare l’azione, mentre la legge è un sistema di divieti. La morale può parlare anche degli invisibili pensieri, mentre quest’ambito rimane inaccessibile alle leggi: il processo alle intenzioni non si può fare. La legge maneggia oggetti concreti e identificabili, mentre la morale è (o può essere) sede di ispirazioni più ardite e difficilmente incasellabili in un reticolo sistematico. La morale può descrivere un modello di comportamento che costituisce un equilibrio delicato raggiungibile solo raramente nella pratica; la morale può anche indicare col dito la Luna, e non è detto che i suoi discorsi giungano sempre a conclusioni precise. Al contrario il diritto deve essere una regola facilmente applicabile nei contesti di tutti i giorni, il diritto deve risolvere i conflitti sulle strade del mondo e deve indicarci il prossimo passo da compiere; il diritto deve (o dovrebbe) dare luogo a decisioni materiali rapide ed oggettive, che bisognano di ragionamenti il più possibile meccanici e semplici.
Se pensiamo alle rispettive funzioni sociali, possiamo considerare la legge come una sorta di completamento della morale, in quanto la legge costituisce l’apparato meccanico tramite il quale si plasma il magma delle conflittualità umane tentando di indirizzarlo nella direzione suggerita dalla morale.

CONCLUSIONI: UN PROGETTO D’EUROPA

Habermas desidera individuare i criteri che permettano di elaborare una legge giusta e funzionale per il contesto contemporaneo, europeo in particolare. Per fare questo prende le mosse dal concetto di razionalità della legge formulato da Max Weber e si propone di darne una versione migliorativa, più resistente al problema della deformalizzazione della legge, nonché capace di regolare il modo in cui la legge assorbe gli argomenti morali e di proteggere la legge stessa dai tentativi di manipolazione da parte del potere politico.[16]

Il potere comunicativo - citazione da Habermas

Il potere comunicativo – citazione da Habermas

L’indagine di Habermas è molto ampia e prende in considerazione temi differenti, che vanno dalle origini del diritto nelle società preistoriche alle tendenze più significative del pensiero sulla legge in Germania e in America, alle problematiche connesse con la formazione dell’Europa unita, al pensiero di Luhmann e Fröbel. Un’attenzione particolare è riservata a una serie di riflessioni sulla Rivoluzione francese e sul pensiero illuminista di Kant e Rousseau.

La soluzione individuata da Habermas è quella di una razionalità della legge intesa anche e soprattutto in senso procedurale: i processi di formazione della volontà politico-legislativa devono essere tali da accogliere in sé il contenuto morale presente nei discorsi pubblici condotti all’esterno delle strutture politiche e giuridiche istituzionali. Seguendo Habermas vediamo che la democrazia dipende dal modo in cui noi cittadini discutiamo gli argomenti, dalla qualità dei nostri discorsi.

Il progetto di Habermas è una costruzione politica unica capace di ospitare al suo interno differenti forme di vita culturali. Contro questo progetto di democrazia liberale basato sulla consapevolezza dei cittadini lavora quella parte consistente del potere che desidera l’assopimento del pensiero. A favore ci siamo noi. Se le anime restano sedute in poltrona a guardare la TV, non c’è molto di che sperare. Ma ogni volta che qualcuno si alza dalla comodità per volere davvero qualcosa, allora il progetto riprende forza e torna possibile un’Europa unita e indipendente, all’altezza del suo posto nella storia e nel mondo.

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  1. [1]Habermas, J. (1992) Morale, Diritto, Politica, Torino, Einaudi, Piccola Biblioteca Einaudi 359 (Filosofia).
    Titoli originali: Recht und Moral (Tanner Lectures 1986); Volkssouveränität als Verfahren (1988); Staatsbürgerschaft und nationale Identität (1990) in: Jürgen Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats. Suhrkamp, Verlag Frankfurt am Main 1992.
  2. [2]Dopo una lettura approfondita del testo di Habermas ho scelto alcune idee fondamentali fra quelle in esso contenute; fatto questo, l’articolo è stato costruito come una narrazione preparatoria per l’enunciazione dei concetti prescelti. Questo significa che i temi del libro non sono soggetti ad un approfondimento ma ad una semplificazione che mira a dare un’idea di base al cittadino.
  3. [3]Voltaire, (1838) Oeuvres de Voltaire – Dictionnaire philosophique par Voltaire, Parigi, Imprimerie de Cosse et Gaultier-Laguionie. Alla voce Coutumes.: “Il y a, dit-on, cent quarante-quatre coutumes en France qui ont force de loi; ces lois sont presque toutes différentes. Un homme qui voyage dans ce pays change de loi presque autant de fois qu’il change de chevaux de poste. […] aujourd’hui la jurisprudence s’est tellement perfectionnée, qu’il n’y a guère de coutume qui n’ait plusieurs commentateurs; et tous, comme on croit bien, d’un avis différent.”
  4. [4]Naturalmente il processo storico di formazione dei codici è molto complesso ed esteso nel tempo, e non è un effetto diretto ed esclusivo della Rivoluzione francese.
  5. [5]“La volontà collettiva dei cittadini, potendosi soltanto esprimere nella forma di leggi universali e astratte, si vede necessitata a operare nel senso di escludere tutti gli interessi insuscettibili di generalizzazione e di ammettere soltanto quelle regole che garantiscono a tutti libertà eguali.” Pagg 83-84 in Habermas 1992.
  6. [6]Se invece diciamo, ad esempio, che il feudatario può vendere il vino 30 giorni prima degli altri che non sono feudatari, o che solo il feudatario può cacciare la selvaggina, o che il feudatario ha diritto a ricevere un canone perpetuo da certi terreni del feudo, allora sto facendo delle distinzioni a favore di classi sociali ben determinate.
  7. [7]Nei cittadini qualunque ma anche nei professionisti del campo giuridico.
  8. [8]Il cosiddetto stato sociale.
  9. [9]“[…] nella misura in cui si affermarono monarchie costituzionali e codice napoleonico, ci si accorse che venivano alla luce diseguaglianze sociali di tipo nuovo. Al posto delle diseguaglianze connesse ai privilegi politici subentravano diseguaglianze che potevano svilupparsi solo a partire dalla istituzionalizzazione di libertà eguali nell’ambito del diritto privato. Si trattava delle conseguenze sociali dell’ineguale ripartizione di un potere economico che veniva esercitato non sul piano politico.” Pag 88
  10. [10]Ciò non significa che al punto zero le nuove leggi erano “migliori” per via del fatto che non avevano bisogno delle integrazioni che poi sono state necessarie. Al punto zero le nuove leggi non avevano ancora avuto il tempo di stendere le loro conseguenze, le quali in un mondo complesso non possono non avere delle zone negative.
  11. [11]Si parla a tal proposito di diritto positivo, nel senso che è posto (e quindi modificabile) dall’uomo.
  12. [12]“…anche Kant fu responsabile di una confusione che presto non consentirà piú di separare tra loro due significati del tutto diversi di ‘universalità’: l’universalità semantica di una legge astrattamente generale verrà presto a occupare il posto dell’universalità procedurale, caratterizzante la legge democraticamente stabilitasi come espressione di una popolare ‘volontà collettiva’.” Pag 72
  13. [13]“…occorre che la sostanza morale dell’autolegislazione – compattamente concentrata da Rousseau in un unico atto – si disarticoli attraverso i numerosi gradi del proceduralizzato processo formativo dell’opinione e della volontà, diventando così accreditabile o incassabile anche in monete di piccolo taglio.” Pag 99
  14. [14]“Marx ed Engels si limitarono ad accennare alla Comune di Parigi e trascurarono sempre ogni questione di teoria democratica. […] All’allargato concetto del politico non corrispose nessun approfondimento teorico circa quali funzioni, forme comunicative, condizioni d’istituzionalizzazione, avrebbero dovuto caratterizzare una formazione egualitaria della volontà.” Pagg 88-89
  15. [15]“ …ogni liberalismo democraticamente illuminato tiene sí fermo alle intenzioni di Rousseau, ma riconosce nello stesso tempo che la sovranità popolare dovrà esprimersi solo a partire dalle condizioni discorsive di un processo, in sé differenziato, di formazione dell’opinione e della volontà.” Pag 85
  16. [16]Nel senso che si vuole definire un criterio in base al quale il potere politico non può permettersi di fare tutto quello che vuole con le leggi, proprio perché deve agire all’interno di determinate procedure che consentano di raccogliere i frutti dei discorsi pubblici. Cfr: “Il potere comunicativo viene esercitato secondo le modalità di un assedio. […] esso regola e contingenta il pool di ragioni che il potere amministrativo può sí trattare strumentalmente, ma mai – strutturato com’è in forma giuridica – permettersi il lusso di ignorare.” Pag 98

LA NASCITA DI UNA RELIGIONE: IL SAPERE, IL CONTESTO E LA TRASPARENZA

LA CONTABILITÀ, LA FILOSOFIA E GLI OROLOGI DI CRISTALLO

Antefatti contabili: l’ignoranza del contesto

Quando ho iniziato a lavorare nell’ufficio acquisti non conoscevo ancora nulla della contabilità. Mi limitavo a girare al commercialista le fatture acquisti con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza dell’IVA. Non avevo un’idea precisa dei percorsi in cui gli impiegati contabili incanalavano i documenti. Se si parlava di Dare e di Avere potevo seguire il ragionamento per un paio di frasi, ma poi non capivo più la direzione dei crediti e dei debiti. Sapevo che c’era una lista di tutti i conti che si chiamava appunto piano dei conti, ma ne conoscevo soltanto poche voci appartenenti alla sezione dei costi; più precisamente le righe che in tale sezione stanno più in alto, quelle relative agli acquisti delle materie prime che ero abituato a gestire. Già le suddivisioni fra i diversi tipi di servizi mi rendevano diffidente, e sapevo che andando più sotto c’erano cose strane come i costi indeducibili, gli oneri straordinari e le minusvalenze. Per non parlare dei ratei e dei risconti: non mi ricordavo mai quali riguardavano i ricavi oppure i costi.

Dopo un paio di anni dal mio ingresso in azienda è venuto il momento di portare all’interno la gestione della contabilità (prima, come ho già accennato, era tenuta dallo studio del commercialista). Ciò è successo in contemporanea all’acquisto di un server AS400, e sono stato io a gestire entrambe le novità, cogliendo l’occasione per fare pratica con i conti. Eravamo a metà degli anni ’90 e non c’era Google a darmi una mano; ho imparato la materia confrontandomi con il programmatore del software contabile e, ovviamente, col commercialista. Nel giro di alcune settimane ho iniziato a capire la differenza fra il Dare e l’Avere che avvengono nello Stato Patrimoniale piuttosto che nel Conto Economico, e in alcuni mesi mi sono abituato a muovermi fra le insidie del giro degli effetti e delle operazioni di fine anno. Adesso registro normalmente bolle doganali, buste paga di fine rapporto e fatture d’acquisto con gli assoggettamenti IVA più diversi. Diciamo che ne so abbastanza per valutare le competenze di un’impiegata contabile in un colloquio d’assunzione.

La consapevolezza del contesto e la natura del cristallo

C’è stato un tempo in cui prevaleva l’ignoranza e la contabilità era per me soltanto un fastidio, un indirizzo a cui mandare le richieste e da cui attendere le risposte. Vedevo quello che vi entrava e quello che ne usciva senza capire il collegamento tra input ed output. L’ignoranza della materia mi portava a volte a sottovalutarne la complessità o, al contrario, a temerne eccessivamente le conseguenze. Dietro a quella parola c’era nella mia mente un aggregato di punti di vista esterni, non una struttura di pensieri pertinente alla realtà che essa indicava.
Successivamente ha avuto luogo un’esperienza per mezzo della quale si è formata una solida consapevolezza del contesto, e oggi, di fronte alla pezza giustificativa dell’operazione di banca, non rimango più fermo a pensare: passo subito a registrarla in prima nota. Quando spuntando l’estratto conto trovo qualcosa che non quadra ho già in mente dove può essere l’origine del problema, e so come verificarlo. Se prima la contabilità era il nome di un bosco di cui non conoscevo i sentieri, oggi è un dominio al cui interno posso vedere come se fosse un orologio di cristallo nel quale distinguo i meccanismi in movimento.

Col passare dei mesi e degli anni ho preso dimestichezza anche con altri contesti all’interno dell’azienda, scoprendo orologi di cristallo nell’ufficio commerciale e in produzione, nella gestione delle risorse umane e nelle questioni più strettamente tecniche. Al di fuori dell’ambiente di lavoro ho trovato orologi di cristallo nei comportamenti delle donne, nei discorsi dei politici e naturalmente negli esami universitari.

La trasparenza come stile di vita

Con l’esperienza e lo studio la massa diviene trasparente; ogni lavoro è una coltivazione che evapora il terreno lasciando visibili le vene aurifere della conoscenza. La terra è soltanto temporanea. La vista degli occhi ci insegna le superfici opache, ma noi preferiamo cercare gli orologi di cristallo. La trasparenza diventa una religione, compatibile con il contesto produttivo e capace di condurci nelle province più colorate del Qui ed Ora.[1]

Certo, non basta sapere che i contesti sconosciuti possono essere imparati a farli diventare trasparenti, ma possiamo creare i presupposti perché ciò avvenga più facilmente, cambiando l’attitudine della mente con l’aspettativa di un mondo trasparente. La differenza sta nel renderci conto che ogni sostanza opaca è soltanto il punto di partenza per scoprire al suo posto una ragnatela impalpabile di relazioni. Cambia l’atteggiamento nei confronti della massa che smette di costituire una barriera allo svolgersi del pensiero, i cui sentieri si diramano in ogni direzione come le scale di Escher. Gli oggetti diventano reti di percorsi e il mondo si risolve nei movimenti di un pensiero luminoso e senza ombre.

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  1. [1]La relazione fra la trasparenza e la godibilità dei Qui ed Ora è un tema da approfondire. Qui mi limito ad un esempio: nel momento in cui la conoscenza di un contesto è progredita a sufficienza è possibile vivere tale contesto localmente senza andare a verificare che i risultati siano adatti alle richieste del contesto globale, poiché si sa già che l’output soddisfa le aspettative. In soldoni: se impari a fare abbastanza bene i tuoi compiti, poi potrai appassionarti al tuo lavoro, perché saprai in anticipo che i risultati saranno buoni e non ci sarà nessuno che verrà a romperti i coglioni per i tuoi errori.

NOMI PER SALVARE IL PENSIERO EVANESCENTE

È quasi mezzanotte e il freddo ci punge aspettando Micaela. Tu sei tante cose, tu sei frizzante. Ti dondoli con le mani in tasca e c’è più stile nelle tue pose che in un musical famoso dei settanta. Vai snocciolando le novità dall’ultima volta dando un tono di voce diverso ad ogni episodio con una recitazione divertita. Dietro le tue parole variegate si intravede una sottile volontà che fa da regia alla giostra degli eventi per condurla in un luogo del futuro. Io, sospeso in questa moderata euforia invernale disegnata dal tuo comportamento, percepisco che la tua pelle è diventata dura per i graffi subiti e apprezzo la tua mente lucida nel sottolineare le proprie competenze e contemporaneamente i limiti.

Il tuo buonumore è sostenuto dalla consapevolezza delle cose accadute. Le decisioni nel gruppo di artisti, le idee concepite per un video, i libri letti, le possibilità di un lavoro. Ma col passare delle ore le cose accadute vanno lontanandosi dal presente scivolando nel passato. I meccanismi del tuo umore se ne accorgono e vanno ad ispezionare il nuovo passato prossimo che nel frattempo si è costituito. Prendono nota delle novità giunte dal mondo esterno e dei nuovi compimenti che hai saputo confezionare. Se non è stata consegnata alla mente abbastanza struttura, le agenzie di rating dell’umore decideranno per un declassamento. Devi essere laboriosa in silenzio per rispettare le consegne e guadagnare un’estensione del tempo felice, evitando il game over.

Non basta però mettere un freno agli spunti dispersivi e concentrarsi sulle strade intraprese. Ogni lavoro è simile ad una raccolta e prima di iniziare è necessario preparare un contenitore in cui salvare gli sforzi. Trattandosi di aspettative e di umore, che sono pezzi di spirito, il contenitore non può che essere un nome. Devi dare un nome ai tuoi lavori prima di cominciarli, così saprai quando li avrai finiti e li potrai poi mettere in esposizione sulle mensole nei corridoi del pensiero.

Non è facile prendere in mano la felicità senza farla morire. E di solito quando affrontiamo il problema ci rendiamo conto che dovevamo fare qualcosa prima. Bisogna giocare d’anticipo, dando più consapevolezza al nostro costruire. Non basta lavorare, bisogna preparare i nomi attorno ai quali fissare i flussi evanescenti del pensiero.

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FESTIVAL DI SANREMO 2012: COMMENTO AI TESTI DELLE CANZONI

CRITICA TAGLIENTE E SEMISERIA ALLE CANZONI DEL FESTIVAL – LE FRASI DA SALVARE

Anche quest’anno il Festival della Canzone Italiana di Serie B è riuscito a mantenere invariato il livello dei testi al quale ci ha abituato per mezzo di lunghi anni di severa disciplina artistica. Naturalmente io sono fra i pochi privilegiati che sanno già chi è il vincitore di questo Sanremo, ma non posso dirvelo per non rovinarvi lo spettacolo. Voglio invece entrare nel merito dei testi delle canzoni andando a vedere come si sono comportati i cantanti in gara, cercando per ciascuno le frasi da salvare.

Dolcenera – Ci vediamo a casa

-La chiamano realtà
-Grande cattedrale ma che non vale un monolocale
-Forma culturale che da tempo non fa respirare

Dopo aver parlato di una cattedrale le deve essere piaciuto molto il contrasto creatosi nel dire monolocale, per cui l’ha detto subito un’altra volta. Questo accostamento di termini non ha un effetto “piacevole” ma potrebbe rimanere nella memoria, sia per l’immagine sia per il significato.
Trovo un po’ riduttivo assumere come ideale il ritrovarsi a casa qualunque cosa accada, ma devo anche ammettere che è in linea coi tempi. Esattamente come lo scetticismo su alcune delle cose più belle della società come la libertà, le opportunità e la cultura. L’espressione qualunque cosa accada per un verso non mi dice nulla, nel senso che non evoca in me un’immagine precisa, ma poi la trovo adatta ad accogliere in sé le sensazioni della crisi.

Marlene Kuntz – Canzone per un figlio

-Se sai bene ciò che fai la felicità sarà sempre raggiungibile

Può anche essere che l’autore di questa canzone mi stia tanto più simpatico di molti altri cantanti del festival, ma questo testo non incontra il mio gusto. Dice troppo direttamente e discorsivamente ciò che vuole senza creare un sistema di metafore, di immagini. Sono frasi più che versi.

Samuele Bersani – Un pallone

-Quando gli manca un metro a una lunga discesa, una scheggia di vetro lo ferma perché è contraria alla libera impresa. Un pallone bucato non è più di nessuno , anzi viene scansato da tutti i bambini
-Per non sentirsi un pallone perso

Non mi è semplice capire se il pallone delle ultime righe è ancora quello che è stato bucato poco prima o se ne è saltato fuori un altro. Questo pallone si muove fra una gran varietà di scene fra cui non è agevole distinguere. A giudicare da come parla della vigliaccheria sembra che sia dotato di una discreta carica di impegno civile.
In questa canzone c’è molta materia prima, ma la forma in cui è organizzata potrebbe essere migliore. Bersani ha l’ispirazione e riesce in parte a trasformarla in immagini, ma gli manca ancora qualche passaggio artistico con cui consegnarci un testo dotato di una narrazione più limpida e chiara, con un punto di arrivo in base al quale decidere gli sfrondamenti. Comunque lui è uno di quelli che non butteremmo giù dalla torre.

Chiara Civello – Al posto del mondo

-Le parole non parlano più
-Più in alto di questo cielo
-Dolce evasione negli occhi

Le parole che non parlano più mi piacciono. I passi passati invece non sono un accostamento “bello” ma sembrano poter dire qualcosa. Questa canzone parla d’amore e a tratti cade nel già visto, ma non si lascia liquidare troppo facilmente. Si muove fra l’ispirazione ed il banale, toccando entrambi. Mi pare che non chiuda gli orizzonti ad una buona interpretazione.

Nina Zilli – Per sempre

-Torna la fame
-E invece di morire ho imparato a respirare
-Se perdo in amore perdo te

Torna la fame è la frase chiave, con quel ragionamento sull’orgoglio che la precede. Tutta la canzone trova compimento in questo verso e nel titolo (la bugia accettata per soddisfare la fame). C’è dunque una struttura narrativa, e lo si vede anche nella frase Ma illudimi che sia per sempre, che funziona appoggiandosi al verso precedente in cui l’illusione non era esplicita: Allora ti direi stavolta sarebbe per sempre.
Peccato che nel racconto dell’accaduto manchino le ispirazioni capaci di dargli più spessore.

Pierdavide Carone e Lucio Dalla – Nanì

-Una bocca senza il suo sapore
-Annusare il tuo mestiere
-C’è un camionista da accontentare

Cercare il mondo che non c’è: di per sé non è una frase molto interessante, ma lo diventa nel contesto in cui è posta. Versi interessanti in questa canzone ce ne sono e sarò curioso di sentirla cantare. Ma ci sono anche delle cadute di stile. Il ritornello non è da buttar via, ma non è all’altezza di una canzone di prim’ordine.
Per quanto riguarda il contenuto, sento qualcosa di vecchio in queste parole: non saprei dire se ai giovani di oggi appaia verosimile perdere la verginità con venti euro dati a una prostituta, ma di sicuro non sarebbero tanto romantici da chiederle di venir via con loro. Li vedo più cinici.

Eugenio Finardi – E tu lo chiami Dio

-Io non do mai nomi a cose più grandi di me
-Su questo piano che si chiama terra

Questa è una di quelle canzoni che sembrano scritte da un autore che voleva dire qualcosa, ma secondo me il dolore e l’amore ce li ha messi solo perché fanno rima. Inoltre la mia religione non accetta canzoni fatte perlopiù da termini privi di sostanza precisa, e non basta dire una volta ospedale per renderli più concreti.
Introdurre una frase come io non sono come te per poi trasformarla in io sono come te crea un minimo di movimento narrativo, ma non basta…

Irene Fornaciari – Grande mistero

-Continuerà a domandarlo il merlo picchiando la grondaia col becco sfoderato che è l’unica sua spada

Leggendo questa canzone mi sono un po’ stupito della ricchezza e della validità delle immagini, insolita per Sanremo; poi ho dato un’occhiata all’autore del testo e ho inquadrato meglio la situazione. Fra i versi che preferisco: le lune a dondolo, le curve che non sai, le monete di sole e la scena del merlo. Le palle di ghiaccio colpite di testa ed il boato sotto il respiro hanno invece qualcosa di anomalo. Sono versi che potrebbero rientrare comodamente nello stile vocale del loro autore, ma cantati da qualcun altro potrebbero non funzionare altrettanto bene.

Arisa – La Notte

-La testa parte e va in giro in cerca dei suoi perché
-Il dolore sul foglio è seduto qui accanto a me

Oltre alle frasi che ho trascritto è vagamente interessante anche il confronto fra le parole nell’aria e quelle scritte. Ma questa canzone è troppo calibrata sull’acquirente adolescente perchè se ne possa parlare seriamente.

Francesco Renga – La tua bellezza

-Mentre giri sull’ultima giostra come sopra due metri di onda

Per fortuna il mio compaesano non ha scritto uno dei testi peggiori di questo Sanremo 2012. Il punto di vista del maschio che si spaventa e la bellezza furiosa e nobile sono sufficienti ad allontanarci dai paesaggi della peggiore banalità che ha finito per diventare un marchio di fabbrica degli ultimi Festival, ma manca quel qualcosa in più per uscire dal campo del ragionamento ed entrare in poesia.

Emma Marrone – Non è l’inferno

-Se sapesse che fatica ho fatto per parlare con mio figlio

C’è un bel rapporto fra la canzone ed il titolo, che è quello giusto per essere arricchito dal racconto del testo. Anzi, sembra che per prima cosa sia stata definita l’immagine del titolo, e che solo in seguito qualcuno sia andato in giro per i sondaggi a raccogliere i pezzi di crisi più frequenti per ricomporli creando la canzone. Sembra… Sembra anche che quel qualcuno abbia dato un’occhiata alla composizione del pubblico tipico del Festival di Sanremo, e che poi abbia pensato a qualcosa per tirarsi le simpatie dei più anziani, perchè tanto i fans della Marrone la voteranno anche senza una buona canzone…

(P.S. A parte il buonismo eccessivo, ma i riferimenti iniziali alla guerra ce li dovevano proprio mettere?)

Gigi d’Alessio e Loredana Bertè – Respirare

-Sono chiusa a chiave

È l’elogio di un certo tipo femminile che dice frasi brevi e ama vedersi in battaglia contro il mondo. Personalmente potrei anche apprezzarlo, ma mi piacerebbe vedere qualche riflessione più strutturata, e non soltanto frammenti di un mondo a suo modo incantato che rifiuta il divenire.

Matia Bazar – Sei tu

-Sei geniale nel fare del male
-E spari su di me
-Petali di ghiaccio sciolti sulla via

C’è il mestiere, c’è l’introduzione, c’è l’impostazione, e ci sono anche alcune frasi buone. Ma il ritornello lascia un po’ a desiderare, e manca il solito qualcosa in più che tanto servirebbe. Perfetto per Sanremo.

Noemi – Sono solo parole

Cos’è, uno scherzo?

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