Emozioni, depressione e mania. Uno schema delle interazioni

Breve introduzione alla visione psicologica delle neuroscienze affettive.

Questo schizzo è una mia interpretazione semplificata della visione psicologica di Jaak Panksepp. Vi sono sette emozioni fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde una struttura biologica sottostante, delle strutture nervose e dei sistemi di interazione chimica. Non si tratta soltanto di costrutti di natura sociale.

 

Di queste strutture emotive, la piú antica e profonda è quella che in inglese si chiama SEEKING. Noi abbiamo scelto di indicarla con l’espressione italiana “voglia di fare”. Questo sistema emotivo è in stretta correlazione con il livello di attività generale dell’organismo. Quando il SEEKING/voglia di fare si trova in uno stato di patologica sovreccitazione, si è in presenza di una fase di mania. Quando, all’opposto, il SEEKING/voglia di fare è in uno stato cronico di bassa attività, allora si è in presenza di una fase depressiva.

I sistemi emotivi della paura, della rabbia, e della pena della solitudine hanno una valenza negativa, e la loro tendenza generale è quella di deprimere le attività del SEEKING/voglia di fare. In particolare, secondo Panksepp, è la pena della solitudine (in inglese GRIEF) che con la sua azione protratta può condurre all’instaurarsi di fenomeni depressivi.

I sistemi emotivi che hanno una valenza positiva sono invece l’eccitazione sessuale, la cura, ed il gioco. Quando si parla di gioco nell’ambito della teoria di Panksepp bisogna ricordare che ci si riferisce essenzialmente agli episodi di gioco di lotta che sono comuni a molti mammiferi, uomo incluso.

Caratteristico della visione di Panksepp è che la pena della solitudine, la cura ed il gioco siano il sostrato emotivo grazie al quale è possibile la concretizzazione di formazioni sociali nei mammiferi. Questo implica che la socialità umana non sia il frutto specifico della razionalità verbale, la quale riuscirebbe finalmente a porre ordine nel disordine degli istinti e delle passioni. Piuttosto la radice della socialità viene a trovarsi ad un livello pre-verbale e biologico. Ed in questo noi vediamo una nota di ottimismo per il futuro del nostro essere sociali.

Naturalmente questo breve post e questo schema costituiscono soltanto un approccio super-semplificato alla visione psicologica proposta da Jaak Panksepp. Per un primo approfondimento vi invito a leggere il libro “Le emozioni di base secondo Panksepp” che ho pubblicato nel 2017, e nel quale colgo l’occasione per aggiungere alcune osservazioni di natura filosofica all’impostazione sviluppata da Panksepp.

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L’intelligenza emotiva, un fattore eterogeneo

Il concetto di intelligenza emotiva é diventato famoso col libro omonimo di Daniel Goleman, scritto nel 1995. Sul nostro sito é disponibile un articolo in cui proponiamo un riassunto sintetico dei concetti principali esposti nel libro di Goleman. In questo post invece,  cercheremo di capire il fondamento scientifico del concetto di intelligenza emotiva, appoggiandoci in particolare ad un lavoro di Adrian Furnham.2

UN CAMPO DI APPLICAZIONE DELL’INTELLIGENZA GENERALE

Per mettere a fuoco il nodo concettuale dell’intelligenza emotiva può essere utile costruirci un esempio. Se fin da piccoli siete sempre stati appassionati di automobili e avete colto tutte le occasioni per impararne qualcosa, probabilmente ora le conoscerete molto bene, e potremo dire che avete una grande intelligenza automobilistica. Non per questo però sarà lecito ritenere che l’intelligenza automobilistica sia una struttura profonda del pensiero, con una natura ben distinta da quella dell’intelligenza generale. Al contrario, sembrerà più opportuno concepire lo sviluppo della vostra intelligenza automobilistica come una conseguenza del vostro livello di intelligenza generale e della continua frequentazione del mondo delle automobili. Le cose stanno in modo simile per quanto riguarda il caso dell’intelligenza emotiva, che non sembra essere tanto un tipo specifico di intelligenza, quanto il risultato di un’intelligenza generale applicata al mondo delle dinamiche emotive.

Il concetto di intelligenza generale si sviluppa nella moderna psicologia a partire dall’osservazione di Charles Spearman per cui i risultati scolastici nelle differenti materie sono collegati fra di loro, nel senso che di solito gli studenti ottengono risultati di un livello simile in tutte le materie, piuttosto che risultati di livello molto differente da una materia all’altra. Da ciò nasce l’ipotesi che vi sia un fattore generale di intelligenza al quale sono collegate tutte le prestazioni cognitive nei diversi campi del sapere.

Ciò di cui stiamo parlando è il quoziente di intelligenza che si misura normalmente nei test psicometrici. La rilevazione statistica di questa intelligenza generale non implica che se ne conosca la natura biologica, non ci dice se essa dipenda per esempio dal numero di neuroni, da quanto gli assoni dei neuroni sono intrecciati o da quanto frequentemente si attivino.3 Ciò che viene misurato è un’abilità largamente a valle delle strutture biologiche fondamentali da cui si origina, e che nondimeno presenta un significativo carattere di generalità.

MISURARE L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Fra i campi di applicazione degli studi sull’intelligenza emotiva vi sono il mondo del lavoro, dell’educazione, della salute. L’obiettivo di molti studi è quello di stabilire una correlazione fra le misure di intelligenza emotiva ed i risultati raggiunti da lavoratori, dirigenti, studenti, insegnanti, medici, etc. Nel prendere in considerazione il modo in cui viene definita e misurata l’intelligenza emotiva notiamo che vi sono tanti autori che se ne occupano, molti dei quali propongono una descrizione differente. Il tratto comune alle varie definizioni è l’abilità di riconoscere e regolare le emozioni sia in sé stessi che nell’ambito delle relazioni interpersonali.

Al di lá del modo in cui si definisce l’intelligenza emotiva, le misurazioni che se ne possono fare sono di due tipi fondamentali, il primo dei quali consiste nell’utilizzo di report composti di domande che chiedono al soggetto di autovalutarsi. Il vantaggio di tali questionari è la possibilità di interrogare direttamente gli aspetti qualitativi del vissuto personale. Lo svantaggio è che i soggetti possono alterare deliberatamente o inconsciamente le risposte, ad esempio per dare una migliore immagine di sé.x

L’altro metodo per misurare l’intelligenza emotiva consiste nel sottoporre i soggetti a dei test di abilità che non implicano i problemi collegati all’autovalutazione. Ad esempio, si mostra ai soggetti un’espressione facciale e gli si chiede di indicare a che emozione corrisponde. Si può chiedere anche di connettere le emozioni più adeguate a certi dipinti, fotografie, registrazioni vocali o descrizioni di situazione. Un’altra possibilità è verificare la capacità di individuare come si trasforma un’emozione a seguito di un’intensificazione.4

Furnham ha sviluppato insieme a K.V. Petrides un questionario per la misurazione dell’intelligenza emotiva che prende il nome di TEIQue.5 Nel 2016 Annamaria di Fabio ha pubblicato un articolo che si occupava di esaminare la validità della versione italiana di tale questionario su di un campione di 1154 giovani adulti italiani.6 Nel corso di questa ricerca è emersa una buona corrispondenza fra il questionario TEIQue ed un altro questionario molto popolare, quello sviluppato da Reuven Bar-on. Risulta invece bassa la correlazione fra il questionario TEIQue ed il test di abilità di Mayer, Caruso e Salovey (uno dei più importanti), ad indicare che le due procedure misurano qualcosa di diverso. La correlazione del TEIQue con il modello dei cinque fattori è moderatamente positiva: l’intelligenza emotiva da esso misurata “si sovrappone ad alcuni aspetti della personalità, ma è configurata come un costrutto distinto.”

ALCUNE CONCLUSIONI

Nel 1983 Gardner propose l’ipotesi che vi fossero 7 tipi fondamentali di intelligenza distinti uno dall’altro.7 Tale ipotesi si poneva come alternativa al fatto che vi fosse un unico fattore generale di intelligenza, ma in seguito vi sono stati alcuni studi che hanno riaffermato la validitá interpretativa del fattore unico. Il caso dell’intelligenza emotiva è simile a quello delle intelligenze multiple individuate anzitutto da Gardner e successivamente da altri. L’intelligenza emotiva sembra interpretabile meglio come un’applicazione dell’intelligenza generale al campo socio-emotivo, e non come un tipo di intelligenza a sé stante.

Per quanto riguarda la possibilità di stabilire una misurazione sicura e utile dell’intelligenza emotiva, al di là dei problemi specifici dell’autovalutazione, sembra più opportuno attendere che venga accumulata una maggiore mole di dati su cui vengano poi effettuate della meta-analisi di spessore adeguato.

L’intelligenza emotiva si presenta come un fattore parzialmente sovrapposto a ciò che già in precedenza veniva chiamato intelligenza sociale e a ciò che Gardner, ad esempio, indicava come intelligenza interpersonale e intrapersonale. Ciò non toglie che il gruppo di abilità collegate all’intelligenza emotiva abbia una notevole importanza pratica, ed il rinnovato focus di interesse sulle emozioni è da vedere con occhio positivo, anche se al momento gli studi scientifici di questo settore sembrano trascurare la natura delle emozioni fondamentali.

Facendo una ricerca su Google Scholar con la parola chiave “intelligenza emotiva”, ho scaricato una ventina di articoli accademici di cui ho controllato l’abstract e alcune bibliografie. In ció che ho letto non ho trovato riferimento alle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp, che sono un ottimo punto di riferimento per chi vuole comprendere quali siano i sistemi emotivi fondamentali. Sembra che l’attenzione dei lavori sull’intelligenza emotiva si concentri sul problema della misurazione, ma non su quali siano le emozioni di base che andrebbero riconosciute e regolate dai soggetti coinvolti nei test. Si dà per scontato il riferimento alle emozioni tipiche degli studi sulle espressioni facciali, che peró sono differenti da quelle individuate dagli studi di Jaak Panksepp. Per approfondire questo tema si possono leggere questi due articoli: Le emozioni di base secondo Panksepp, oppure Paul Ekman e le emozioni di base.

1 Consiglio ad esempio quella che si trova sul sito tramedoro.eu

2 Adrian Furnham, Emotional Intelligence, (2012 INTECH Open Access Publisher). Ho scelto questo testo per via dell’autorevolezza dell’autore, perché ha contribuito a sviluppare uno dei test di riferimento per l’intelligenza emotiva, e perché tale testo è impostato come una meta-analisi che compara l’esito di approcci differenti al tema dell’intelligenza emotiva.

3 Si tratta di esempi di fantasia, non significativi.

3 Tale problema di misurazione viene meno là dove l’impiego di tali questionari si dimostra in grado di prevedere una variabile concreta quale il rendimento scolastico o la carriera in ambito professionale. Questa capacità previsionale è ciò che hanno di mira i ricercatori e si pone, per così dire, a valle di tutto. Se c’è quella, qualsiasi cosa possa essere accaduta nella mente di chi ha compilato i questionari non è più un’obiezione valida. Se infatti l’obiezione fosse stata valida, sarebbe stato impossibile riscontrare la capacità previsionale. Se c’è vento e devo tirare la freccia, si può giustamente dubitare della mia capacità di colpire il bersaglio. Ma la successiva osservazione di quante volte colpisco il bersaglio non vale di meno a causa di quei dubbi.

4 John D. Mayer, Peter Salovey and David R. Caruso, “Emotional Intelligence. New Ability or Eclectic Traits?,” American Psychologist Vol. 63, No. 6, (2008 September), 503–517. doi: 10.1037/0003-066X.63.6.503

5 Trait Emotional Intelligence Questionnaire. I quindici aspetti su cui si basa sono: adattabilità, assertività, espressione delle emozioni, gestione delle emozioni, percezione delle emozioni, regolazione delle emozioni, impulsività, abilità relazionale, autostima, automotivazione, competenza sociale, gestione dello stress, empatia, felicità, ottimismo.

6 Annamaria Di Fabio, Donald H. Saklofske and Paul F. Tremblay, “Psychometric properties of the Italian trait emotional intelligence questionnaire (I-TEIQue),” Personality and Individual Differences 96, (2016), 198–201. doi: http://dx.doi.org/10.1016/j.paid.2016.03.009.

7 Linguistico-verbale, logico-matematica, musicale, corporea, spaziale, interpersonale, intrapersonale.

La ruota delle emozioni di Plutchik

Nell’immagine potete vedere la ruota delle emozioni cosí come é stata impostata da Robert Plutchik. Questa figura é stata ottenuta dalle otto emozioni che Plutchik considera fondamentali. Le emozioni di qualitá opposta si trovano in posizioni contrapposte di 180 gradi. Abbiamo dunque la gioia opposta a dolore/tristezza (sorrow in inglese), la rabbia opposta alla paura, l’accettazione opposta a al disgusto, e la sorpresa in opposizione all’attesa. Plutchik é stato uno psicologo americano di impostazione psicoevoluzionistica, molto influente nel campo dello studio delle emozioni. Per una sintesi del suo pensiero puoi leggere questo post.

Concepire le emozioni a partire da Tonino Griffero

Come le emozioni sono diventate interiori, passando da Achille ad Ulisse

Tonino Griffero è un filosofo italiano che si occupa di atmosfere a partire dal lavoro del tedesco Hermann Schmitz. Per indicare la natura specifica delle atmosfere Griffero impiega il termine quasi-cose, che ne sottolinea la diversità rispetto alle cose materiali. Griffero considera le emozioni1 come simili a delle atmosfere e le colloca nell’esteriorità anziché nell’interiorità, in un modo che come egli stesso riconosce è controintuitivo. Su youtube si trovano alcune sue conferenze molto interessanti su questo tema, una delle quali è indicata sul fondo di questo articolo.2 3

Io credo che valga la pena aggiungere alcune osservazioni a partire dalla sua posizione. Noi infatti poniamo naturalmente gli oggetti materiali là fuori, anche dopo aver capito che essi sono un prodotto del sistema di percezione che sta dentro di noi. E allora, perché consideriamo gli oggetti materiali come esteriori e le emozioni come interiori?

Griffero ci ricorda che per i personaggi dell’Iliade le emozioni stavano fuori. Per esempio Achille non “si arrabbiava”, Achille era “preso dalla rabbia”, che si trovava fuori di lui. Invece Ulisse nell’Odissea, posteriore all’Iliade, gestiva in modo furbo la propria emotività e quella degli altri, considerandola interiore. Mi pare che proprio nel confronto tra Achille ed Ulisse si possa trovare il punto chiave, al di là della realtà storica, utilizzandoli come figure esemplificative ai fini dell’argomentazione. Se considerassimo le emozioni poste fuori alla maniera di Achille, potremmo essere forse più autentici nei confronti del mondo, ma anche più vulnerabili di fronte ad un furbo Ulisse. Chi sa nascondere le proprie emozioni ha un vantaggio manipolativo e organizzativo sugli altri. Chi sa fare a meno delle emozioni ne ricava dei vantaggi, ma ci perde qualcosa, ci perde vividezza del mondo. Che fare dunque? Ci piace l’intensità del mood che era di Achille, ma non vogliamo immergerci in una ingenuità che ci renda disponibili facilmente ai raggiri.

Quello che è successo da Achille ad Ulisse è un’evoluzione. Il vantaggio selezionistico dell’accantonare le emozioni è stato premiato, ma si è portato dietro l’effetto collaterale di un mondo più grigio, più povero d’emozione. Ciò pare avvenuto per mezzo dell’idea che le emozioni siano un che di interiore. Infatti, se pensiamo che le emozioni stiano dentro di noi, con ciò si fa evidente la possibilità di nasconderle. Localizzandole all’interno inoltre, depriva le emozioni della solida natura di cose e ci aiuta a dismetterle nelle loro forme più intense.

Ma non è detto che il vantaggio competitivo del pensare tenendo a bada le emozioni sia necessariamente connesso all’idea che esse siano interiori. Pensando che siano interiori, noi abbiamo una chiave intuitiva per eseguire i comportamenti esteriori, visibili agli interlocutori, come disgiunti dalle emozioni. Ma questo è solo uno stratagemma. Pensare le emozioni come interiori ci aiuta ad assumere comportamenti indipendenti dalle emozioni, ma lo stesso risultato può essere concepito senza localizzare le emozioni all’interno.

Tornando alla nostra situazione quotidiana, noi non possiamo fare a meno di inibire il massimo dell’emotività nel relazionarci con gli altri, ma dovremmo cercare di farlo senza castrarle, senza chiuderle nello spazio di una testa. Dovremmo renderci conto che la collocazione dentro/fuori è una costruzione mentale, ed allenarci ad attribuire liberamente il fuori ed il dentro parimenti alle cose ed a quelle quasi-cose che sono le emozioni. Al di là della circostanza specifica della furbizia di Ulisse, è impossibile concepire una vita contemporanea senza saper assumere una posa razionale che si tenga indipendente dai moti emotivi. Una più profonda consapevolezza del fuori e del dentro può far parte di una cultura che ci consenta di articolare il nostro vissuto tra situazioni di riflessività composta e situazioni di emozioni che pervadono tutta l’atmosfera.

Per approfondire il tema delle emozioni puoi leggere l’anteprima del libro che ho scritto sulle sette emozioni fondamentali individuate da Jaak Panksepp.

1Nota che in questo articolo il termine “emozioni” è utilizzato riferendosi a tutti i possibili sviluppi cognitivi della dimensione emotiva, e non specificamente alle sette emozioni di base di cui ho scritto nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp.”

2Tonino Griffero, Quasi-cose. Dalla situazione affettiva alle atmosfere. trópoς, I, numero speciale, 2008, pp. 75-92

3Tonino Griffero, Incontro con Tonino Griffero, youtube 02 Aprile 2016, Società Filosofica Feronia, https://www.youtube.com/watch?v=4hRb7dARc6c&t

THOMAS KUHN: LA STRUTTURA DELLE RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE

RIFLESSIONI SUL LIBRO DI THOMAS KUHN: LA STRUTTURA DELLE RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE[1]

-PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN
-IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA
-IL FUNZIONAMENTO DEL PRESUPPOSTO
-INTERNALISMO
-LA SCIENZA NORMALE: L’ATTIVITÀ GUIDATA DAL PARADIGMA STABILE
-INSEGUENDO I ROMPICAPO
-IL RUOLO DELLA CRISI
-LA DEFINIZIONE DI UN VOCABOLARIO?
-INCOMMENSURABILITÀ E IRRAZIONALITÀ NELLA TRANSIZIONE FRA -PARADIGMI
-INTIMITÀ DEL PARADIGMA
-SMETTERE DI SAPERE
-UN VERSO NELLA PSICHE
-ALCUNE CONCLUSIONI: LA RAZIONALITÀ RITROVATA

PENDOLI O PIETRE DONDOLANTI? GLI ESEMPI DI KUHN

Nell’esemplificare il succedersi dei paradigmi scientifici, Kuhn ci racconta molti episodi di storia della scienza, come l’ispirazione data a Galileo dagli scolastici in base alla quale divenne possibile vedere come un pendolo ciò che prima era soltanto una pietra dondolante;[2] o la concezione dell’elettricità come un fluido che può scorrere nei conduttori, e non come un effluvio che emana dai non conduttori;[3] o ancora l’idea che le onde di luce dovessero basarsi su un sostegno materiale chiamato etere, ed il tentativo di inserirne gli effetti nelle equazioni di Maxwell;[4] senza dimenticarsi di quello che secondo Kuhn “è forse il nostro più completo esempio di rivoluzione scientifica”:[5] il passaggio dalla teoria delle affinità elettive all’idea di Dalton per cui la relazione fra gli atomi dei reagenti chimici deve essere espressa da due numeri interi.[6]

IL PARADIGMA: FUNZIONE ED ESSENZA

Kuhn indica il paradigma come un sapere condiviso da una certa comunità scientifica ed in grado di guidare la ricerca definendo le questioni concrete da affrontare e i metodi per gestirle. Eccone un esempio:
“…il paradigma Frankliniano suggerì quali esperimenti sarebbe valsa la pena condurre e quali no, in quanto rivolti a fenomeni secondari o troppo complessi dell’elettricità. Soltanto col paradigma il lavoro divenne di gran lunga più efficace, in parte per via della fine dei dibattiti fra scuole diverse che si concludevano in continue ripetizioni sui fondamentali, e in parte perché la sicurezza di essere sulla strada giusta incoraggiò gli scienziati a intraprendere lavori più precisi, esoterici ed impegnativi.”[7] [8]
Se la funzione guida del paradigma è molto chiara, altrettanto non si può dire della sua essenza. Nel poscritto del 1969, nel rispondere ad alcune critiche che gli sono state mosse, Kuhn suddivide il concetto di paradigma in due componenti principali, delle quali la prima è denominata matrice disciplinare ed è costituita da elementi prossimi al sapere discorsivo, fra cui i valori, i presupposti metafisici del discorso scientifico, e le espressioni simboliche per mezzo delle quali si può usufruire della potenza del linguaggio matematico.
La seconda componente del paradigma, quella più caratteristica della visione di Kuhn, viene indicata con il termine exemplars, e consiste in una conoscenza tacita, automatica e non disponibile alla volontà umana, in quanto collocata in zone della mente più profonde ed inconsce rispetto alla normale razionalità operativa.
Kuhn si richiama a Wittgenstein[9] per chiarire che il paradigma può svolgere la sua funzione anche senza la consapevolezza di cosa esso sia esattamente. Gli scienziati possono condividere un paradigma pur senza essere in grado di descriverlo compiutamente, così come si è in grado di affermare che un certo oggetto è una sedia pur senza la necessità di dire esattamente l’essenza della sedia.[10]

L’articolo integrale é stato pubblicato sul sito filosofiprecari.it

 

  1. [1]La versione presa in esame è quella in lingua originale: Kuhn, T. S. (1996) The structure of Scientific Revolutions, third edition, Chicago, The University of Chicago Press.
    Dove non è indicato diversamente, i riferimenti di pagina nelle note seguenti sono riferiti a quest’opera. La traduzione delle citazioni è a cura dell’autore di questo articolo.
  2. [2]Pagg. 119-120
  3. [3]Pag. 14
  4. [4]Pagg. 73-74, 107
  5. [5]Pag. 133
  6. [6]Pagg. 130-135
  7. [7]Pag. 18
  8. [8]Può essere utile considerare il controesempio di un sapere che non ha tale effetto guida: “Ma anche se questo tipo di raccolta dei fatti è stata essenziale per l’origine di molte scienze significative, chiunque esamini, per esempio, gli scritti enciclopedici di Plinio o le storie naturali di Bacone del diciassettesimo secolo scoprirà che ci conduce in un pantano.” Pag. 16
  9. [9]“Cosa abbiamo bisogno di sapere, chiedeva Wittgenstein, per poter impiegare termini come sedia, o foglia, o gioco inequivocabilmente e senza provocare discussioni? Questa domanda è molto vecchia e generalmente gli si è risposto dicendo che noi dobbiamo conoscere, consapevolmente o istintivamente, cosa sono una sedia, una foglia o un gioco. Noi dobbiamo, sarebbe a dire, cogliere un qualche insieme di attributi che tutti i giochi e soltanto tutti i giochi hanno in comune. Wittgenstein, comunque, concludeva che, dato il modo in cui usiamo il linguaggio e il tipo di mondo in cui lo applichiamo, non c’è bisogno che esista un tale insieme di caratteristiche. […] Per Wittgenstein, in breve, giochi, sedie, e foglie sono famiglie naturali, ciascuna costituita da una rete di somiglianze sovrapposte e incrociate. L’esistenza di tale rete è in grado di spiegare a sufficienza il nostro successo nell’identificare gli oggettti o le attività corrispondenti.” Pagg. 44-45
  10. [10]“Gli scienziati possono […] essere d’accordo sull’identificazione di un paradigma senza essere d’accordo su, o senza nemmo tentare di produrre, una completa interpretazione o razionalizzazione di esso. La mancanza di un’interpretazione standard o di una riduzione in regole concordata non impedirà al paradigma di guidare la ricerca.” Pag. 44

Le emozioni di base secondo Panksepp

Le emozioni di base secondo Panksepp“Le sette emozioni di Panksepp non sono un punto di arrivo, ma il punto di partenza per un lavoro su se stessi. È come aver trovato i capi liberi che fuoriescono da un gomitolo aggrovigliato.”

Dalle neuroscienze affettive emerge un nuovo paradigma psicologico destinato a cambiare la concezione che abbiamo di noi stessi. Sette emozioni fondamentali sono state individuate nel sistema nervoso: paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, pena della solitudine, gioco e ricerca/voglia di fare. Queste emozioni sono la radice della coscienza ed il presupposto della nostra socialità. Offrono una nuova chiave di comprensione a fenomeni quali la depressione e la mania, la dipendenza da droghe, l’identità sessuale, il legame sociale.
La teoria dei sistemi emotivi trova una sistemazione organica grazie al lavoro di Jaak Panksepp (1943-2017), psicologo fisiologico emigrato dall’Estonia agli Stati Uniti. Il libro descrive in linguaggio divulgativo questa nuova visione della mente e i tratti fondamentali di ciascuna emozione di base. Segue una riflessione che ne mette in luce la rilevanza al fine della crescita personale e della ricerca di una sintesi sociale nuova.

SOMMARIO
INTRODUZIONE: IL MIO INCONTRO CON PANKSEPP
IL CERVELLO VISTO DA PANKSEPP
LE SETTE EMOZIONI
– LA RICERCA, O LA VOGLIA DI FARE
– LA PAURA
– LA RABBIA
– L’ECCITAZIONE SESSUALE
– L’IDENTITÀ SESSUALE
– LA CURA
– LA PENA DELLA SOLITUDINE
– IL GIOCO
PROSPETTIVE PER LA PSICOTERAPIA
RIFLESSIONI E CONNESSIONI FILOSOFICHE
BIBLIOGRAFIA

INTRODUZIONE: IL MIO INCONTRO CON PANKSEPP

Da molto tempo ero in cerca di un sapere scientifico sulla mente che fosse fruttuoso nell’ambito di un percorso di autocomprensione. Nel 2013 ero rimasto affascinato dalla teoria di Giulio Tononi, il quale prometteva una formula matematica in grado di catturare l’essenza della coscienza. Dopo avere studiato alcuni articoli dedicati alla cosidetta information integration theory però, mi sono reso conto che non si trattava di ciò che cercavo. I complessi calcoli statistici di cui è composta la teoria conducono infatti a dei parametri numerici simili alle “firme di un pensiero cosciente” di cui parla Stanislas Dehaene nel suo recente libro sul cervello, ma purtroppo non forniscono una visione illuminante per l’autopercezione di noi stessi.
Dopo l’immersione nella statistica ho cercato dunque un’interpretazione del cervello più prossima all’esperienza personale, ed è stato così che ho incontrato Jaak Panksepp, il quale non tenta di estrarre l’essenza della coscienza per mezzo di un’elaborazione delle combinazioni dei neuroni accesi e spenti, ma ci parla di sistemi emotivi che possiamo connettere al volo con il nostro vissuto personale. Tra le altre cose, Panksepp è noto per avere identificato nei ratti un’emissione vocale equivalente alla risata, caratterizzata da una frequenza di circa 50Khz, al di sopra quindi della gamma di suoni udibili dall’orecchio umano. Questa emissione vocale è tipicamente emessa nelle situazioni in cui i ratti praticano giochi di lotta e di inseguimento. Secondo l’impostazione di Panksepp i sistemi emotivi fondamentali sono gli stessi in tutti i mammiferi, e quindi dallo studio degli animali si possono ricavare dei dati impiegabili anche per gli esseri umani. Detto questo è d’obbligo puntualizzare che Panksepp non adotta un approccio riduzionista che porta a perdere le specificità più preziose dell’umano, ma ci dà una descrizione delle fondamenta su cui può elevarsi l’edificio spirituale. L’attitudine umana di Panksepp si riconosce nelle foto che lo ritraggono mentre sorride naso a naso coi roditori che così spesso si incontrano nei suoi studi.
Panksepp individua il proprio territorio d’indagine con l’espressione ‘neuroscienze affettive’, ed adotta un approccio triplice allo studio delle emozioni, costituito dall’osservazione del comportamento degli animali, dallo studio del funzionamento fisico-chimico del cervello, e dai resoconti introspettivi dei soggetti umani. Ad esempio nel caso della paura avremo un ratto con due elettrodi inseriti nelle corrispondenti zone sottocorticali del cervello. A seguito dell’applicazione di un livello minimo di corrente il ratto si immobilizza, mentre con un livello più elevato di corrente l’animale scappa. A questa osservazione dei comportamenti di immobilizzazione e fuga si associa il resoconto di uomini a cui viene praticata una stimolazione elettrica simile a quella applicata al ratto, resoconto nel quale i soggetti coinvolti dichiarano di essere spaventati.
I primi studi di questo genere risalgono alla metà del ventesimo secolo, ma è stato necessario molto tempo perché emergesse una visione complessiva dei sistemi emotivi come quella elaborata da Panksepp. Nelle pagine a seguire troverete un’introduzione ai suoi risultati basata sul libro L’archeologia della mente, un testo di lettura non facile per via della ricchezza dei dettagli chimici ed anatomici che vi vengono descritti. Nel comporre la sintesi che costituisce la prima parte del qui presente libro ho lasciato cadere quasi completamente tali dettagli, essendo io interessato ad un discorso non specialistico. Sulla base di tale sintesi segue una seconda parte del libro costituita da riflessioni di taglio filosofico sul modo in cui le idee di Panksepp possono essere connesse alla creazione di una sintesi sociale nuova.

IL CERVELLO VISTO DA PANKSEPP

All’inizio del suo discorso Panksepp fornisce una ricostruzione storica per giustificare il fatto che l’attenzione della ricerca scientifica sia arrivata a concentrarsi sulle emozioni soltanto negli ultimi anni.
Il desiderio di costruire un edificio del sapere che sia inattaccabile e che risponda in ogni sua parte ad un’infallibile criterio di verità può spingere a diffidare dei riferimenti alle profondità invisibili della soggettività umana. Questo è quanto purtroppo succede con la corrente di pensiero del comportamentismo, che domina l’ambito degli studi psicologici accademici fino agli anni sessanta del secolo scorso, e che si propone di studiare soltanto il comportamento osservabile, vietandosi di impiegare il dato dei resoconti introspettivi. È per questo che Panksepp individua nel comportamentismo uno dei fattori che sono d’ostacolo allo studio delle emozioni.
A partire dalla metà del ventesimo secolo però, la prassi dei calcolatori rende possibile concepire l’uomo come una macchina dotata di software, istituendo una metafora con cui si puó concepire in modo scientificamente accettabile il pensiero che sta invisibile dentro la testa. Tale concezione è influenzata dal fatto che il software è di fatto un’implementazione di quella parte di filosofia che è la logica formale, la quale si occupa delle regole di ragionamento equivalenti ad operazioni esatte sui segni. L’impiego della metafora del pensiero come software è il tratto distintivo della corrente di pensiero che in psicologia prende il nome di cognitivismo e che si sostituisce al comportamentismo come orientamento dominante a partire dagli anni settanta.
Abbiamo dunque in psicologia una tradizione comportamentista prima che vieta per principio di fare riferimento al vissuto personale, ed un cognitivismo poi, che accetta di parlare dei mondi invisibili della soggettività, ma soltanto per coglierne i tratti di razionalità riflessiva più affini al pensiero logico. Secondo Panksepp l’influenza del comportamentismo e del cognitivismo ha ritardato fino ad oggi uno studio scientifico e sistematico delle emozioni, e tale influenza è ancora viva in molti studiosi attivi nel campo delle neuroscienze.

Venendo a descrivere la situazione attuale degli studi sul cervello, Panksepp riscontra che è difficile capirsi fra aree specialistiche diverse, perché diverso è il modo in cui vengono utilizzati termini simili. Per questo motivo propone di fare chiarezza distinguendo le strutture biologiche del cervello in tre livelli: il livello primario (quello di cui si occupa Panksepp) che corrisponde alle risposte emotive grezze, il livello secondario che è composto dai meccanismi di memoria ed apprendimento, ed il livello terziario in cui troviamo le complessità cognitive della riflessione.
Per fissare le idee possiamo esemplificare il livello primario con il terrore immobilizzante o con la fuga che nascono trovandosi di fronte ad una tigre, il livello secondario con il ricordo dei segni, dei luoghi e degli odori del predatore, ed il livello terziario con la discussione di un progetto per catturare la tigre.

Pensando al cervello di solito ci immaginiamo quelle pieghe grigie che formano la corteccia cerebrale, mentre il lavoro di Panksepp riguarda soprattutto ciò che vi sta sotto. Un principio empirico a cui spesso Panksepp fa riferimento è quello che collega la posizione dei componenti del cervello con la loro età evolutiva. Quelli più vicini alla colonna vertebrale sono i più antichi, mentre quelli in posizione più lontana sono i più recenti. Fra questi vi è la corteccia cerebrale, che possiamo concepire come un mantello venuto ad avvolgere infrastrutture preesistenti.
La localizzazione dei circuiti emotivi avviene inserendo degli elettrodi nel cervello per produrre una stimolazione elettrica in punti specifici. Fondamentale per i sistemi emotivi è il ruolo della zona sottocorticale denominata grigio periacqueduttale (GPA), con le emozioni a valenza negativa che tendono ad essere collocate sul dorso di essa, ed altre a valenza positiva situate sul lato opposto.

Panksepp circoscrive il proprio oggetto di studio individuando i tratti formali dei sistemi emotivi. Ognuno di essi può rispondere inizialmente ad alcuni semplici stimoli innati e successivamente può imparare ad attivarsi a seguito di molteplici oggetti e situazioni che si incontrano nell’ambiente. Ogni sistema emotivo è inoltre caratterizzato dalla capacità di elaborare contemporaneamente più stimoli in ingresso. Per quanto riguarda invece l’output, ciascun sistema emotivo produce un particolare tipo di risposta sotto forma di un comportamento che non riguarda oggetti predefiniti, come si nota ad esempio con la tendenza distruttiva della rabbia, che può trovare sfogo su oggetti diversi. Un terzo punto è che i sistemi emotivi non rispondono alle influenze dell’ambiente in modo immediato: al contrario della lampadina che si accende e si spegne istantaneamente premendo l’interruttore, i sistemi emotivi si comportano come delle ruote che una volta messe in movimento vanno avanti a girare per inerzia e hanno bisogno di tempo per fermarsi. Altra caratteristica importante è che i sistemi emotivi sono soggetti a regolazione da parte delle zone riflessive del cervello, e a loro volta hanno una profonda influenza sul funzionamento di tali zone. Infine è rilevante il fatto che noi percepiamo direttamente la qualità affettiva e distintiva di ciascuna emozione, il suo particolare sapore mentale.

Le emozioni fondamentali descritte da Panksepp sono sette, ed a ciascuna di esse abbiamo dedicato un capitoletto nelle pagine seguenti. Alcune di queste emozioni rientrano nel novero di quelle normalmente impiegate nel discorso psicologico, mentre altre vi appariranno insolite. Tutte ricevono un significato particolare dall’essere state individuate come una parte fisica del cervello. Esse sono la ricerca/voglia di fare, la paura, la rabbia, l’eccitazione sessuale, la cura, la pena della solitudine, il gioco. La loro elaborazione cognitiva nei processi secondari e terziari può dare luogo ad una molteplicità di manifestazioni più variegate quali ad esempio coraggio, invidia, colpa, gelosia, orgoglio, vergogna, disdegno.

I sistemi emotivi non esauriscono l’intero spettro affettivo, che si completa prendendo in considerazione anche gli affetti di natura sensoriale e quelli…

Quello che avete appena letto è l’inizio del libro “Le emozioni di base secondo Panksepp”. Il libro può essere acquistato sui principali store online.

 

BIBLIOGRAFIA

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La reificazione interpretata con Simondon

In ogni compravendita avviene che un bene od un servizio vengano concepiti per mezzo di un numero che indica la quantità di denaro necessaria all’acquisto. Questo è il punto di partenza della mercificazione dei rapporti sociali, della loro riduzione alla condizione di cose materiali, processo questo che indichiamo con la parola reificazione. Impiegando i termini di Gilbert Simondon potremmo dire che ogni comportamento di acquisto, ogni interazione con la merce, fornisce un germe da cui la reificazione puó partire. In tale ottica la natura umana reificata costituisce una condizione più stabile rispetto alla quale gli stati di maggiore ricchezza spirituale dell’uomo sono metastabili. Metastabile si dice di uno stato che puó conservarsi in isolamento, ma che inizia a disgregarsi in favore di un altro stato più stabile se i due stati vengono messi “a contatto”. Ciò si accorda bene con l’idea di Simondon per cui gli stati stabili sono quelli con una minore energia potenziale, in quanto la reificazione corrisponde ad uno stato in cui c’è meno potenziale nei progetti di vita degli uomini che ne sono affetti. Messa in questi termini la questione, si arriva abbastanza facilmente a chiedersi come si possa cambiare la dinamica provocata dai germi degli atti di compravendita, per evitare che la reificazione abbia luogo.

La concezione di Simondon prende spunto dalla cristallizzazione dei minerali, e questo ci puó essere d’aiuto per l’inquadramento del nostro problema. Nel caso dello zolfo succede che ponendo dei germi di cristallo rombico (forma alfa) in un reticolo di cristalli a forma di ago (forma beta) si da inizio ad un processo di trasformazione dell’intera massa di zolfo in un reticolo cristallino rombico. D’altra parte, alzando la temperatura ad esempio a 96 gradi, l’equilibrio chimico cambia e non si verifica più la riproduzione del germe cristallino rombico a scapito dei cristalli a forma di ago. Se ritorniamo dalla cristallizzazione dello zolfo al caso della società in cui si verifica la reificazione degli umani, ci chiediamo se esistono delle condizioni socio-psicologiche in grado di bloccare la propagazione dei germi di reificazione costituiti dagli atti di compravendita, così come l’innalzamento di temperatura è in grado di bloccare la proliferazione dei germi di cristallo rombico nello zolfo.

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CONTRO IL RUMORE

Le aringhe, le donne e i discorsi

Questo articolo è stato scritto in risposta all’articolo di Federico Sollazzo: “Se una para-democrazia si fa dogma” pubblicato sulla rivista Critica Liberale il 17 giugno 2013.

1 – LA DISTRAZIONE DEL PREDATORE

Konrad Lorenz si chiedeva il motivo per cui molti pesci piccoli ed indifesi come le aringhe si muovono in branchi. A prima vista non è molto logico, sembra che si faccia un favore al predatore riunendo tutti gli obiettivi in un volume relativamente piccolo. Non sarebbe meglio, dal punto di vista delle aringhe, disperdersi in uno spazio il più ampio possibile? La spiegazione di Lorenz è che quando il predatore si lancia all’attacco non riesce a mantenere la concentrazione su una singola aringa perché viene distratto dalla possibilità di catturarne un’altra che nel frattempo è divenuta più vicina. Spostando continuamente la concentrazione da un’aringa all’altra, il predatore si trova a dover prevedere la posizione futura di una preda di cui conosce la posizione presente ma non la velocità e la direzione di provenienza.

2 – IL MOMENTO DI CHIUSURA

Io non sto facendo immersioni fra i banchi di aringhe, sto bevendo un succo di frutta in un caffè nella via centrale di Szeged, dove fa caldo e per strada passano tante donne vestite poco. Ma se mi giro a guardarle tutte, non ne conquisterò nessuna. Forse la mia situazione non è poi tanto diversa da quella descritta da Lorenz.

È finito il tempo in cui si diceva che i sensi erano una cosa cattiva, ma un’autodisciplina è necessaria. Non possiamo guardare tutto quello che ci si propone alla vista. Bisogna esercitare un autocontrollo tenendo le porte normalmente chiuse ai suggerimenti dei sensi. L’apertura al mondo è necessaria ma va circoscritta, non nei suoi tratti qualitativi, ma dal punto di vista dell’estensione. Infatti, tale apertura trova un suo motivo d’essere nella possibilità che ci dà di attingere all’inesauribile alterità del mondo, e questo si lega al suggerimento di Federico di non definire la qualità che richiediamo ad un discorso. Sempre parlando di donne ma intendendo discorsi: non bisogna farsi distrarre da tutte quelle che passano per strada, bisogna coltivare alcune amicizie in privato.

3 – UNA SITUAZIONE SFAVOREVOLE

C’è da dire che in quanto fruitori di discorsi ci troviamo in una situazione più svantaggiata rispetto ai predatori di aringhe e a quelli di donne. Nel momento in cui il predatore dovesse risolvere la sua incertezza, scegliendo definitivamente la preda da inseguire, riuscirebbe a prevederne i movimenti e a mangiarla (o almeno si spera, dal punto di vista del predatore…).

Mettiamoci invece nei panni del cittadino, soprattutto di quello giovane in fase di formazione, che si trova a dover valutare un ventaglio di discorsi politici. Il suo primo problema è quello di scegliere fra questi discorsi che si rinnegano l’un l’altro. Ma se anche poi si decide a compiere una scelta, non è detto che con ciò abbia risolto il problema, anzi, è facile che il discorso politico scelto si riveli essere un inganno.

4 – IL SOVRACCARICO

Forse possiamo individuare un paio di caratteristiche della situazione di rumore nella presenza di molti discorsi alternativi e nell’inconsistenza di molti di essi. Si pone quindi il problema di adottare una strategia di ricerca fra le alternative. Dedicando poco tempo a ciascuna alternativa si finisce per non essere in grado di riconoscere i discorsi più profondi, passandoci sopra senza riconoscerli. Se invece vogliamo esaminare con più attenzione ogni alternativa, il carico di lavoro che ci sobbarchiamo diventa insostenibile. E’ così che si attua la censura del rumore.

5 – INSUFFICIENZA DEI METODI PREDETERMINATI

Il ruolo dei dispositivi selettivi sarebbe quello di sfoltire il fascio delle alternative eliminando quelle di qualità insufficiente. Una prima osservazione che mi viene in mente da fare su questi dispositivi selettivi riguarda la loro natura. La necessità, evidenzata da Federico, di preservare la natura sfuggente della qualità dei discorsi ci consiglia di evitare qualsiasi metodo predeterminato e sembra richiede l’impiego in prima linea della capacità di giudizio di una mente. Un esempio di questo lo si trova nelle riviste di maggior prestigio internazionale, le quali adottano dei meccanismi di revisione paritaria per valutare gli articoli da pubblicare.

6 – UNA REDENZIONE TOTALE?

Una seconda osservazione riguarda l’ambito di applicazione di tali meccanismi selettivi. A tratti percepisco nelle parole di Federico l’idea di una rimozione completa del rumore, altre volte mi sembra che abbia in mente uno spazio privilegiato, per esempio nel passo in cui dice che gli scenari di qualità si dovrebbero distinguere anche “nei tempi e nei luoghi […] dal rumore”.

Personalmente, mi pare che l’uomo libero lasciato a sé stesso abbia dimostrato che nel 90% dei casi ha per obiettivo di vita lo starsene seduto tranquillo in poltrona a guardare la TV. O qualcosa di simile. Con questa premessa, temo che ciò in cui possiamo sperare sia al massimo la creazione di luoghi circoscritti in cui il rumore non abbia accesso. Mi sembra difficile una rimozione del rumore da tutte le case e le strade del mondo.

7 – UN GIARDINO PRIVATO

Se penso a dei luoghi ristretti nei quali abbia luogo la rimozione del rumore, mi vengono in mente un paio di alternative. La prima è che ad essere bonificate dal rumore siano le zone sociali prossime o interne alle istituzioni dello stato. Ad esempio i discorsi del parlamento. Questo sarebbe auspicabile, ma fatico a credere che possa avvenire. La seconda alternativa è che ad essere pulito dal rumore sia un contesto sociale privato, delimitato, altro dalle istituzioni. Qui il rischio è quello di trovarsi a non parlare più di questioni politiche generali, ma della gestione di un’organizzazione specifica con fini specifici.

8 – I MOLTI GIARDINI

Come si può fare ad evitare questo rischio, ad assumere una posizione contraria al rumore che sia praticamente sostenibile ma senza ritirarsi in un ambito politicamente troppo circoscritto? E’ possibile enunciare una serie di norme da mettere in atto per “vivere intensamente”1 (e non soltanto sopravvivere) in un mondo di rumore? E’ concepibile un manuale pratico contro il rumore, avente per destinatari i cittadini e in grado di facilitare la loro cooperazione in organismi sociali in grado di difendersi da un ambiente irrimediabilmente rumoroso?

  1. Come auspicava Federico in un precedente scambio di pareri.

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JACQUES MONOD: IL CASO E LA NECESSITÀ

RIFLESSIONI SUI CONCETTI PRINCIPALI DEL LIBRO DI JACQUES MONOD: IL CASO E LA NECESSITÀ.[1]

LE TRE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEI VIVENTI
LA DIFFERENZA FRA TELEONOMIA ED INVARIANZA
LA STRUTTURA DELLE PROTEINE
IL CASO
LA NECESSITÀ NEL DISCORSO SELEZIONISTA
IL BISOGNO DI SPIEGAZIONI
IL CONFLITTO FRA LA SCIENZA E LE SPIEGAZIONI
CONCLUSIONI: VERITÀ O VOLONTÀ?
NOTA BIOGRAFICA

LE TRE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEI VIVENTI

Jacques Monod - foto

Jacques Monod

Jacques Monod inizia questo libro proponendosi di stabilire come distinguere gli oggetti naturali dagli oggetti artificiali prodotti da una creatura intelligente. Inizialmente prende in considerazione la regolarità e la ripetizione come proprietà tipiche degli oggetti artificiali, ma finisce per constatare che questi criteri strutturali non sono adeguati allo scopo, in quanto presenti anche negli esseri viventi (i quali sono considerati come oggetti naturali), oltre che nei cristalli e nei prodotti di alcuni animali, come ad esempio i favi delle api.

Successivamente Monod sposta l’attenzione sulla definizione di alcune proprietà di carattere diacronico[2] che consentono di individuare in modo oggettivo gli esseri viventi. La prima caratteristica fondamentale dei viventi, a cui viene dato il nome di teleonomia,[3] è che sono oggetti dotati di un progetto. Questa proprietà non è però sufficiente da sola a distinguere gli esseri viventi dagli oggetti artificiali, in quanto anche questi ultimi sono dotati di un progetto.
Il passaggio successivo consiste nell’osservare che, mentre la costruzione degli oggetti artificiali avviene principalmente per mezzo dell’azione di agenti esterni, gli esseri viventi si costruiscono da sé. Questa proprietà viene chiamata morfogenesi autonoma.[4]
La terza caratteristica degli esseri viventi è costituita dal “potere di riprodurre e di trasmettere l’informazione corrispondente alla loro struttura”[5] e viene denominata riproduzione invariante, o semplicemente invarianza. Essa si riferisce chiaramente al DNA che i viventi si tramandano di generazione in generazione.

LA DIFFERENZA FRA TELEONOMIA ED INVARIANZA

Riflettendoci, viene la tentazione di considerare la teleonomia come un sottinteso dell’invarianza e di ritenere il progetto teleonomico equivalente all’informazione trasmessa col DNA, la quale è denominata “contenuto di invarianza”.[6] Ma quando si parla di teleonomia il progetto che ha in mente Monod non è il codice sorgente del DNA, bensì il fatto che le varie parti del corpo sono strutturate in funzione di uno scopo: le gambe sono costruite per camminare, le ali per volare, e l’occhio per captare immagini.[7] Con il concetto di progetto teleonomico ci si riferisce all’insieme delle prestazioni tipiche del vivente compiuto, “che si possono considerare come aspetti o frammenti di un unico progetto primitivo, cioè la conservazione e la moltiplicazione della specie.”[8]

Per rimarcare la differenza fra questi due concetti, Monod porta ad esempio il confronto fra l’uomo ed il topo: per quanto riguarda l’invarianza notiamo che il DNA di questi due esseri viventi ha dimensioni e contenuto molto simili, mentre per quanto riguarda l’aspetto teleonomico osserviamo che molte prestazioni dell’uomo sono inesistenti nel topo, e si pongono su di un livello qualitativo completamente differente. Il fatto che il topo e l’uomo abbiano un contenuto di invarianza molto simile ma prestazioni teleonomiche molto differenti indica che l’invarianza e la teleonomia costituiscono due caratteristiche ben distinte.

A questa osservazione di Monod si potrebbe obiettare che l’insieme delle prestazioni teleonomiche del vivente è già dettagliatamente descritta nel codice sorgente del DNA, e che dunque anche la differenza fra le prestazioni deve per forza di cose essere già inclusa nel DNA.[9] Se guardando l’uomo ed il topo vediamo due DNA molto simili e due corpi dalle prestazioni molto differenti, forse è per via del fatto che non siamo in grado di apprezzare a sufficienza la portata delle differenze presenti nel DNA umano rispetto al topo, o forse perché sovrastimiamo la differenza fra l’uomo ed il topo, che si ridimensiona se li mettiamo entrambi a paragone con il mondo inorganico.

Ciò che è evidente è che esiste una trasformazione esatta la quale dal DNA conduce al corpo, e che nel corso di questa trasformazione certe differenze vengono amplificate, almeno dal punto di vista della capacità osservativa umana. Non disponiamo ancora di un linguaggio formale per descrivere significativamente il DNA, l’insieme delle prestazioni del corpo e la trasformazione che li lega, ma in una certa misura possiamo considerare il progetto teleonomico come il risultato di una trasformazione che ha come input il contenuto di invarianza del DNA. Ciò sembrerebbe richiedere un ulteriore esame per esplicitare meglio le relazioni fra questi due concetti che possono essere considerati distinti ma non indipendenti.

Un altro argomento che Monod utilizza per sostenere la distinzione fra invarianza e teleonomia è che tale distinzione corrisponde a quella fra le due classi principali di macromolecole presenti nelle cellule. Infatti l’invarianza si realizza per mezzo degli acidi nucleici che compongono il DNA,[10] mentre la realizzazione delle strutture corporee che consentono le prestazioni del progetto teleonomico avviene per mezzo delle proteine.[11]

LA STRUTTURA DELLE PROTEINE

Esistono proteine filamentose e proteine globulari. Queste ultime sono le più importanti per il funzionamento dell’organismo, e sono costituite da una catena di amminoacidi che si ripiega spontaneamente su sé stessa a formare un gomitolo dalla struttura molto precisa.[12]

I legami fra gli atomi si dividono in legami covalenti e legami non covalenti. I primi sono quelli in cui due atomi mettono in comune un elettrone che con i suoi percorsi li avvolge entrambi, mentre i secondi sono quelli dove ogni elettrone rimane a percorrere orbite limitate al proprio atomo. Il legame non covalente è molto più debole di quello covalente, di circa dieci volte;[13] per via di tale debolezza, il legame non covalente può sussistere solo quando gli atomi che si legano si trovano ad una distanza molto bassa.
I legami covalenti sono quelli che tengono insieme gli anelli della proteina, mentre i legami non covalenti sono quelli disposti “lungo il bordo della catena proteica”; sono questi ultimi quelli che determinano il modo esatto in cui la proteina si ripiega.

Immaginatevi ora la superficie di una proteina una volta che si è ripiegata nella sua forma definitiva. Su tale superficie, ricca di creste e avvallamenti, ci sono atomi predisposti a formare legami non covalenti, ma perché questo accada sarà necessario che la proteina incontri un’altra proteina con una superficie combaciante con la propria, in modo che gli atomi sul fondo delle proprie valli possano essere vicini agli atomi che si trovano sulle creste dell’altra proteina, e viceversa.

La debolezze dei legami non covalenti fa sì che due proteine riescano a legarsi solo quando le loro superfici si accoppiano in modo preciso, e le rende così capaci di riconoscersi in base alla forma. Possiamo esprimere questo concetto dicendo che le proteine hanno un comportamento stereospecifico.[14]

La conseguenza è che all’interno di un ambiente in cui sono presenti miriadi di composti chimici è possibile che una proteina formi dei legami soltanto con certe altre proteine di tipo ben preciso. Ciò rende fattibile la coesistenza di innumerevoli processi chimici fra loro indipendenti, il che è un presupposto importante per l’esistenza di una cellula altamente organizzata.

jacques monod - il caso e la necessità

jacques monod – il caso e la necessità

IL CASO

Dopo aver dedicato ampio spazio alle notevoli caratteristiche delle proteine, Monod ci fa notare che la sequenza degli amminoacidi che formano una proteina è del tutto casuale, nel senso che “conoscendo esattamente l’ordine di centonovantanove residui in una proteina che ne comprende duecento, è impossibile formulare una regola, teorica o empirica, che consenta di prevedere la natura del solo residuo non ancora identificato.”[15]

Le mutazioni che nel corso del tempo hanno portato il DNA di ogni specie allo stato attuale sono essenzialmente casuali, sia perché derivano dal confluire di avvenimenti molecolari tra loro indipendenti, sia perché la mutazione è un avvenimento dai caratteri quantistici e quindi è intrinsecamente imprevedibile per via del principio di indeterminazione.[16] [17]

Nella concezione di Monod il ruolo del caso è molto rilevante non solo per quanto riguarda la formazione del DNA e quindi delle proteine in esso codificate, ma anche per quanto riguarda l’origine della vita e l’esistenza stessa della biosfera: “Secondo la tesi che presenterò qui, la biosfera non contiene una classe prevedibile di oggetti o di fenomeni, ma costituisce un evento particolare, certamente compatibile con i primi principi, ma non deducibile da essi e quindi essenzialmente imprevedibile.”[18] [19]

LA NECESSITÀ NEL DISCORSO SELEZIONISTA

Tutto il ragionamente di Jacques Monod è inscritto in una concezione selezionista: “…si tratta dell’idea darwiniana che la comparsa, l’evoluzione e il progressivo affinamento di strutture sempre più fortemente teleonomiche sono dovuti al sopraggiungere di perturbazioni in una struttura già dotata della propria invarianza, e quindi capace di conservare il caso e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale.”[20] [21]
Il termine necessità assume una funzione precisa nel discorso selezionista di Monod là dove viene riferito alla raffinata e precisa organizzazione a livello molecolare destinata a garantire la riproduzione di un’informazione genetica identica all’originale. Potremmo dire che tale necessità, riproducendo per sempre ciò che è avvenuto una volta per caso, è il mezzo grazie al quale il caso diviene la sorgente da cui si possono sviluppare strutture altamente organizzate come i viventi.[22]

Monod specifica come la giusta interpretazione del selezionismo non sia quella di una lotta per la vita; la normale azione del selezionismo non è tanto l’eliminazione dei più deboli, quanto la promozione degli individui che all’interno della specie si riproducono maggiormente.[23] [24] Per quanto riguarda l’uomo però, a partire da quando si è raggiunto un livello di evoluzione tale da dominare l’ambiente circostante, si è creato il presupposto per la lotta fra gruppi distinti all’interno della specie: la guerra.[25]

Un’altra precisazione di Monod è che la selezione non proviene soltanto dall’ambiente esterno, ma è fortemente condizionata anche dalle precedenti scelte evolutive della specie oltre che dalle sue strutture e prestazioni specifiche.[26] In particolare, la notevole autonomia dell’uomo rispetto all’ambiente ha fatto sì che nel suo caso il comportamento orientasse la selezione più che negli altri esseri viventi.

jacques monod - citazione

jacques monod – citazione

IL BISOGNO DI SPIEGAZIONI

Monod osserva che per un tempo lunghissimo dell’evoluzione umana la forte integrazione nel gruppo sociale è stata un carattere premiante, e che quindi ci deve essere stata una selezione in grado di promuovere la coesione sociale. Monod è convinto che ci siano dei caratteri genetici che determinano l’angoscia esistenziale, la quale costringe l’uomo a cercare il significato dell’esistenza creando miti e storie. Questi si pongono a fondamento della legge che garantisce il funzionamento e l’unità del corpo sociale. “Come spiegare”, altrimenti, “l’universalità nella nostra specie del fenomeno religioso su cui si basa la struttura sociale?”.

A questa dinamica sarebbero riconducibili tutte quelle visioni del mondo che Monod cataloga come animistiche, le quali spiegano l’intero percorso evolutivo del cosmo riconducendolo a un progetto complessivo in cui l’uomo ha un posto d’onore. In questa categoria troviamo “tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, che sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza.”[27] In quest’ottica, un’attenzione particolare è data da Monod al materialismo dialettico,[28] che viene riassunto all’incirca nei termini che seguono.[29]

Secondo il materialismo dialettico c’è un solo principio che governa l’evoluzione del mondo intero, che si tratti della materia o dello spirito. Dunque, visto che lo spirito è accessibile alla nostra introspezione, noi possiamo osservare come esso si comporta e poi dire che il mondo si comporta allo stesso modo.[30] Kant, in precedenza, ha ritenuto di dover compiere un’analisi dello strumento con cui l’uomo indaga il mondo: la ragione. Ciò però non va d’accordo con il materialismo dialettico, secondo il quale lo spirito è intimamente connesso al mondo materiale: l’analisi di Kant implica che la ragione abbia dei limiti e che essa non sia “lo specchio perfetto”[31] di ciò che accade nel mondo.
L’idea di un’analisi della ragione si accorda invece con l’esistenza di un sistema nervoso che elabora i dati dei sensi prima di presentarli alla mente. Monod sottolinea che inizialmente l’idea di una critica della ragione era stata propria solo dei filosofi, mentre in seguito questa esigenza iniziò ad essere sentita anche dagli uomini di scienza, nella fase immediatamente precedente l’avvento della teoria della relatività e della meccanica quantistica.

IL CONFLITTO FRA LA SCIENZA E LE SPIEGAZIONI

Il fondamento della scienza, secondo Monod, è il principio di oggettività, che viene fatto risalire a Galileo e Cartesio e coincide con l’assenza di un progetto che governa il divenire del mondo materiale e degli esseri viventi.[32] [33] Questo fa sì che la scienza non possa accettare le storie che raccontano il divenire del cosmo riconducendolo ad un progetto universale assegnando un posto di rilievo agli esseri viventi e all’uomo in particolare.

Alla sua comparsa l’evoluzionismo lasciava una possibilità di mantenere una visione antropocentrica nel pensare l’uomo come erede ultimo e necessario del processo evolutivo, ma a partire dalla seconda metà del novecento questo non sarebbe più possibile, in quanto una ipotetica teoria universale potrebbe prevedere la possibilità degli esseri viventi ma non la loro necessità.

Il problema centrale che oggi ci troviamo di fronte è che la scienza su cui la nostra società è basata entra in conflitto con i nostri sistemi di valori, nel senso che distrugge le storie[34] che li giustificano:
“È vero che la scienza attenta ai valori. Non direttamente, poiché essa non ne è giudice e deve ignorarli; però essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica, dagli aborigeni australiani ai dialettici materialistici, ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti, le interdizioni.”[35]

Si evidenzia dunque una netta distinzione fra il discorso dei valori, l’etica, e il discorso della conoscenza. Noi perseguiamo dei valori il cui fondamento è negato dai tratti distintivi di una conoscenza di cui non possiamo fare a meno. Con queste premesse si possono impostare dei discorsi autentici soltanto tenendo chiara ed esplicita la distinzione fra il campo dell’etica e quello della conoscenza.[36]
Per eliminare alla radice il problema, Monod propone di adottare un’etica che ponga il raggiungimento della conoscenza oggettiva come obiettivo ultimo: “Essa impone istituzioni votate alla difesa, all’ampliamento, all’arricchimento del Regno trascendente delle idee, della conoscenza, della creazione.”[37]
Dando uno sguardo utopico verso il futuro, trovo possibile intravedere un progresso in cui, una volta risolte le necessità più stringenti del corpo, il sapere diventi il cibo più raffinato con cui formare lo spirito, ma personalmente non condivido l’idea di un’etica della conoscenza così come è stata impostata da Monod. Benché l’acquisizione del sapere sia un importante momento di formazione dello spirito, il sapere mantiene anche una ineliminabile dimensione strumentale, e mi risulta difficile porlo come unico fondamento di un’etica.[38]

CONCLUSIONI: VERITÀ O VOLONTÀ?

Questo libro è un discorso che ruota attorno alla natura degli esseri viventi: prende in esame le loro caratteristiche distintive ed il processo selezionista da cui si sono originati. Tale processo è caratterizzato dall’azione congiunta del caso e della necessità che Monod mette in luce con un esame dettagliato delle strutture cellulari fondamentali: le proteine globulari e il sistema del DNA.
L’esame degli esseri viventi viene condotto sottolineando il rispetto del metodo scientifico, il quale presuppone l’assenza di un disegno predefinito che governa l’evoluzione del cosmo. Il metodo scientifico stesso diviene oggetto del discorso là dove se ne prende in esame la compatibilità con le credenze dell’uomo, le quali sono da considerarsi influenzate dalla storia evolutiva dell’uomo stesso.

Monod ha uno stile scorrevole e fornisce informazioni scientifiche e interpretazioni di grande interesse, ma forse la sua argomentazione non è abbastanza precisa e puntuale per poter dire che abbia sviluppato una teoria solida come sarebbe stato lecito aspettarsi.

Personalmente mi trovo d’accordo con Jacques Monod là dove critica i facili antropocentrismi promossi dal marketing popolare delle concezioni animistiche che garantiscono l’illusione di un paradiso in cambio di una mano alzata, ma penso che l’alternativa non stia tanto nella ricerca della verità (a cui l’etica della conoscenza di Monod assomiglia molto), quanto nell’esercizio della volontà.

Se mettiamo la conoscenza oggettiva dinanzi a tutto, non è difficile immaginarsi creature naturali o artificiali in grado di soppiantare l’uomo. Il regno della conoscenza oggettiva non offre garanzie per la creatura uomo,[39] e ci rendiamo conto che se vogliamo un umanesimo dobbiamo costruircelo. L’umanesimo non è gratis, e l’uomo non può semplicemente credere nell’uomo: l’uomo deve volere l’uomo.[40]

NOTA BIOGRAFICA

Jacques Monod

Jacques Monod nasce a Parigi nel 1910 da una famiglia protestante. Il padre è ammiratore di Darwin e appassionato di musica. A metà degli anni trenta passa un anno al California Institute of Technology di Pasadena. Al ritorno ha la tentazione di fare il musicista per professione, ma alla fine sceglie di essere biologo. Nel corso della II guerra mondiale partecipa alla resistenza contro i tedeschi. Dal 1953 è capo laboratorio all’Institut Pasteur. Nel 1965 raggiunge la popolarità grazie al Nobel per la medicina per le ricerche sulla regolazione cellulare. Nel 1970 pubblica “il caso e la necessità”. Muore nel 1976, 4 anni dopo la moglie.

 

 

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  1. [1]Monod, J. (1997) Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano, Mondadori, Oscar classici moderni. Titolo originale: Le hasard et la nécessité, 1970.
    Dove non è indicato diversamente, i riferimenti di pagina nelle note seguenti sono riferiti a quest’opera.
  2. [2]Questo aggettivo non è utilizzato da Monod.
  3. [3]Dal greco télos che significa scopo, e nomia, che indica governo: la teleonomia indica un organizzazione mirata allo scopo. Il termine teleonomia fu introdotto da Colin Pittendrigh nel 1958* per rendere disponibile un termine per indicare che un sistema è organizzato in modo da favorire il raggiungimento di un obiettivo, ma senza che tale obiettivo possa essere considerato la causa che ha dato origine all’organizzazione del sistema.
    La questione presenta delle sfumature più complesse di quanto non sembrerebbe a prima vista; Pittendrigh aveva proposto la parola teleonomia in opposizione alla teleologia di Aristotele, ma secondo Mayr** questa non è un’impostazione del tutto corretta.
    * Pittendrigh, C. S. (1958) Adaptation, Natural Selection and Behavior, in Behavior and Evolution, ed. Roe, a. Simpson, G. G. New Haven, Yale University Press, pp. 390–416; p. 394
    ** Mayr, E. (1965) Cause and Effect in Biology, in Lerner, D. Cause and effect. New York, Free Press, pp. 33–50
  4. [4]Morfogenesi: dal greco morphé=forma. In senso lato è il processo da cui si genera la forma. In embriologia è “l’insieme dei processi che portano al differenziamento dei tessuti e degli organi da elementi indifferenziati” (Enciclopedia Treccani)
  5. [5]Pag. 17
  6. [6]Pag. 18
  7. [7]“… sarebbe arbitrario e sterile voler negare che […] l’occhio, rappresenti la realizzazione di un progetto (quello di captare le immagini)” Pag. 14
  8. [8]Pag. 19
  9. [9]Potremmo forse più correttamente dire: “nel sistema DNA-cellula”, in modo da tener conto che il DNA è significativo solo se associato al proprio sistema di conversione in proteine.
  10. [10]Andrebbe però notato che l’invarianza può aver luogo solo in un processo dove la partecipazione delle proteine è indispensabile. Si potrebbe forse dire che ad essere strettamente legata agli acidi nucleici non è tanto l’invarianza, quanto il contenuto di invarianza.
  11. [11]C’è un ulteriore argomento che Monod porta in favore della distinzione fra invarianza e teleonomia: “Oggetti capaci di riproduzione invariante, ma sprovvisti di qualsiasi apparato teleonomico sono perlomeno concepibili: le strutture cristalline ne sono un esempio” (Pag. 21). Ma il fatto che i cristalli siano sprovvisti di qualsiasi apparato teleonomico è opinabile; è possibile infatti considerare la semplice sussistenza del corpo cristallino come una funzione teleonomica elementare, in quanto influenza la crescita del cristallo (e là dove non la influenza, allora l’informazione della struttura cristallina non può essere considerata come riprodotta, e dunque non c’è riproduzione invariante),
    D’altronde, dopo aver definito “l’unico progetto primitivo” come “la conservazione e la moltiplicazione della specie”(Pag. 19)*, affinché ci sia invarianza riproduttiva senza teleonomia serve che l’informazione corrispondente alla struttura venga riprodotta inizialmente senza poi dar luogo a nessun nuovo corpo, nemmeno alla semplice ulteriore copia di sé, altrimenti la prima copia dell’informazione potrebbe essere considerata il mezzo per giungere alla seconda e assumerebbe così una funzione teleonomica.
    Forse sarebbe meglio considerare come esempio, al posto del cristallo, una cellula rotta la quale non fa altro che riprodurre il proprio DNA mandandolo all’esterno; in questo modo potremmo dire che la cellula non ha funzione teleonomica perché la sua attività non porta alla creazione di altre cellule. L’importante in questo caso è però che il DNA rimanga considerabile come informazione della struttura cellulare pur non disponendo più della possibilità effettiva di essere proiettato in una nuova struttura cellulare. Ciò sembra collegato al modo in cui definiamo il concetto di informazione.
    *Dopo aver parlato dell’”unico progetto primitivo”, Monod riformula il progetto teleonomico essenziale come “la trasmissione da una generazione all’altra del contenuto di invarianza caratteristico della specie” (Pag. 19). In questo modo il concetto di teleonomia si sposta ulteriormente verso quello di invarianza.
  12. [12]Monod sottolinea che nel DNA è scritta la sequenza degli amminoacidi, mentre il modo in cui avviene il ripiegamento è una conseguenza automatica di tale sequenza e dell’ambiente in cui avvengono le reazioni.
  13. [13]“Con una certa semplificazione e precisando che si considerano qui solo reazioni in fase acquosa, si può ammettere che l’energia assorbita o liberata, in media, da una reazione in cui compaiono legami covalenti è dell’ordine di 5-20 kcal (per legame). In una reazione in cui compaiono solo legami non covalenti l’energia media varierebbe da 1 a 2 kcal.” Pag. 54
  14. [14]Stereospecifico: dal greco stereo che indica tridimensionalità. Si ricollega al fatto che i legami chimici in questione si formano in base alla configurazione tridimensionale delle proteine.
  15. [15]Pag. 90
  16. [16]Il principio di indeterminazione implica l’impossibilità di conoscere in modo completo lo stato in cui si trovano le particelle elementari, e di conseguenza rende impossibile prevedere in modo esatto la loro evoluzione.
  17. [17]Non sono un esperto della materia, ma mi risulta che, nonostante le mutazioni casuali rimangano il paradigma di riferimento per l’origine del DNA, non sia più possibile considerare come completamente casuali le sequenze di amminoacidi nelle proteine. Per approfondire:
    http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3296660/?tool=pubmed Tiessen, A. e Pérez-Rodriguez, P. e Delaye-Arredondo, L.J. (2012) Mathematical modeling and comparison of protein size distribution in different plant, animal, fungal and microbial species reveals a negative correlation between protein size and protein number, thus providing insight into the evolution of proteomes
  18. [18]Pag. 44
  19. [19]A riguardo dell’origine della vita, bisogna notare che Monod prendeva come punto di riferimento un primo essere vivente equivalente ad una cellula dotata già del DNA e del relativo sistema di traduzione costituito di proteine, come negli esseri viventi odierni. Ma a seguito di alcune scoperte, a partire dai primi anni ottanta ha preso sempre più consistenza l’ipotesi di un RNA-world iniziale in cui sia il codice genetico che il meccanismo di traduzione erano costituiti da strutture simili all’attuale RNA (che garantisce una minore fedeltà nel riprodurre l’informazione). Dunque nei primissimi viventi sarebbe stata assente la dicotomia fra acidi nucleici e proteine. Per approfondire:
    http://www.arn.org/docs/odesign/od171/rnaworld171.htm Mills, G.C. e Kenyon D. (1996) The RNA world: a Critique.
    http://www.ploscompbiol.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pcbi.1002024 Takeuchi, N. e Hogeweg, P. e Koonin, E.V. (2011) On the Origin of DNA Genomes: Evolution of the Division of Labor between Template and Catalyst in Model Replicator Systems.
  20. [20]Pag. 26
  21. [21]Per Monod il fatto che l’invarianza sia antecedente alla teleonomia è un punto decisivo* ed è ciò che rende il selezionismo adatto al discorso scientifico. Ma cosa succede se ci chiediamo da dove è originariamente venuta l’invarianza destinata ad accogliere il caso facendone un agente di costruzione? Il fatto di considerare la comparsa dell’invarianza come un eccezionale frutto del caso (l’atteggiamento spesso assunto da Monod) taglia la questione sul nascere, mentre l’individuazione di eventuali passaggi intermedi fra l’assenza del meccanismo di riproduzione invariante e la sua presenza potrebbe forse comportare la necessità di riformulare in modo più sfumato l’affermazione in base alla quale l’invarianza precede la teleonomia. Ad esempio ponendo come punto di partenza un meccanismo invariante più semplice che poi si è evoluto in quello attuale.
    * “…dell’unica ipotesi che la scienza moderna considera accettabile, cioè che l’invarianza precede di necessità la teleonomia.” Pag. 26
  22. [22]“Ancora oggi molte persone d’ingegno non riescono ad accettare e neppure a comprendere come la selezione, da sola, abbia potuto trarre da una fonte di rumore tutte le musiche della biosfera. In effetti, la selezione agisce sui prodotti del caso e non può alimentarsi altrimenti; essa opera però in un campo di necessità rigorose da cui il caso è bandito.” Pag. 110
  23. [23]Pag. 111
  24. [24]La selezione a livello macroscopico avviene comunque soltanto dopo che ogni mutazione ha dovuto sottostare ad una sorta di test d’ingresso che avviene a livello microscopico: “noi abbiamo, della potenza, della complessità e della coerenza della cibernetica intracellulare […] un’idea abbastanza chiara, un tempo sconosciuta, che ci consente di comprendere […] che ogni ‘novità’ sotto forma di alterazione di una struttura proteica, verrà innanzitutto saggiata riguardo la sua compatibilità con l’insieme di un sistema già assoggettato a innumerevoli vincoli che controllano l’esecuzione del progetto dell’organismo.” Pag. 111
  25. [25]Pag. 147
  26. [26]A tal riguardo Monod propone un’ipotesi interessante a riguardo dell’origine dell’intelligenza che distingue l’uomo dagli altri esseri animali. Monod ipotizza che la causa dell’aumento di volume del cervello umano sia stata l’acquisizione del linguaggio. Infatti, senza linguaggio non c’è un grande vantaggio nell’essere più intelligenti, mentre in presenza del linguaggio l’intelligenza maggiore conferisce un vantaggio rilevante. Pagg. 119 e seguenti.
  27. [27]Pag. 44
  28. [28]Monod è attratto dall’idea socialista, ma ritiene che questa debba sganciarsi dalla teoria marxista, verso cui assume una posizione molto critica.
  29. [29]A Monod non interessa una ricostruzione precisa della teoria di Engels e Marx, ma individuare “il significato che di essa rimane nello spirito dei suoi seguaci e che le attribuiscono gli epigoni”. (Pag 37). A maggior ragione il mio brevissimo riassunto non può che essere un’ulteriore semplificazione di tale teoria.
  30. [30]Almeno in una certa misura ciò significa, aggiungo io, negare l’alterità del mondo, la quale è scomoda al pensiero umano, e questo concorda con l’interpretazione del materialismo dialettico come visione consolatoria dell’animo umano.
  31. [31]Pag. 38
  32. [32]Da notare che ciò si pone in contraddizione con il fatto gli esseri viventi sono dotati di un progetto, Monod lo evidenzia (pag. 25), ma non è molto chiaro nell’affrontare la questione. In particolare non distingue in modo preciso fra un progetto chesemplicemente corrisponde alla struttura del divenire ed un progetto perseguito da una volontà attiva; tra una finalità debole ed una finalità forte.
  33. [33]Il postulato di oggettività è un concetto definito da Jacques Monod, e si pone in un ruolo simile al più noto principio di causalità.
  34. [34]“È facile rendersi conto che le ‘spiegazioni’ su cui si fonda la legge, placando così l’angoscia, sono tutte ‘storie’ o più esattamente ontogenie.” Pag. 153.
  35. [35]Pag. 157
  36. [36]Pag. 159
  37. [37]Pag. 163
  38. [38]Sono più prossimo a considerare la conoscenza come un valore derivato: partendo da un’assegnazione di valore allo spirito, il sapere deriva il suo valore dall’essere un arricchimento per lo spirito. E tale valore risulta spostato più verso il processo di acquisizione del sapere da parte dell’uomo (e quindi anche verso la forma in cui il sapere è definito) che verso il processo di accumulo di un sapere fine a sé stesso.
  39. [39]A proposito dell’etica della conoscenza, Monod dice che “essa è anche un umanesimo, poiché rispetta nell’uomo il creatore e il depositario di questa trascendenza”. (Pag. 163) Come si capisce da quanto ho scritto sopra, a me pare che questa garanzia di umanesimo sia piuttosto debole.
  40. [40]Cfr: “Non si può credere nell’uomo. Bisogna volere l’uomo.” Cappello, M. (2011) Aforismi di un futuro, Brescia, Manuel Cappello. Aforisma N°759 pag. 80