No alle parole interiori

Le parole servono per dire qualcosa agli altri, ma il nocciolo del pensiero non è fatto di suono. Troppo spesso le parole pronunciate all’interno della mente si rivelano un giro inutile e un inganno contro noi stessi.

No alle parole interiori.

No alle parole pronunciate all’interno della mente.

 

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L’occhio

L'occhio

L’occhio, la parte più mobile e sfuggente del corpo.

L’occhio è la porta attraverso la quale il mondo entra nello spirito. Noi guardiamo troppo: bisogna dare soltanto gli sguardi che servono, quelli che salvano le parti del mondo di cui ci vogliamo ricordare. Quello che non vale la pena salvare, quello non va guardato.

 

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La Maschera

La Maschera

La Maschera

Il senso della maschera sta nel poter impiegare la sensazione dei muscoli facciali come struttura stabile attorno alla quale organizzare le onde mutevoli del pensiero. Sia nella dimensione sociale sia da soli, in compagnia di se stessi.

 

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DANCING ATTITUDE FASE 1: IL PRIMO SLOGAN

In attesa dell’apertura del nuovo sito sulle mie ispirazioni danzanti, dancingattitude.com, pubblico qui il primo slogan sulla danza:

“Vuoi una rivoluzione?
Non ascoltare i politici,
ascolta il tuo corpo: danza!”

Vuoi una rivoluzione? Danza!

Vuoi una rivoluzione?
Non ascoltare i politici,
ascolta il tuo corpo: danza!

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LA DANZA DEL QUI ED ORA: UN PARADISO TASCABILE

IL CONTESTO GRIGIO
LA ZONA DEL COLORE

IL CONTESTO GRIGIO

Il nostro pensiero è l’arte di organizzare quello che vediamo in funzione di un obiettivo, ma quello che noi vediamo è drammaticamente poco rispetto al brusio assordante del divenire che impazza dappertutto nel mondo, negli uffici e nelle menti, sugli schermi, nelle fabbriche e nelle atmosfere.

Noi pensiamo di sapere come andranno le cose e ce ne facciamo un’immagine nella testa. Ma il resto del mondo non si organizza per compiacere le nostre aspettative. C’è una natura intrinseca nelle cose che procede con le sue logiche indifferenti ai nostri programmi. E soprattutto ci sono le intenzioni degli altri uomini, contrapposte alle nostre.

Le maglie del ragionamento si allargano nel tentativo di avvolgere le conseguenze e le condizioni dei processi produttivi, ma non si può tenere conto di tutto. Basta aspettare, ed arriva sempre qualcosa che non era previsto e ci costringe a cambiare il pensiero per adeguarlo al mondo. Le nostre aspettative sono un cristallo che andrà in frantumi negli ingranaggi insensibili del divenire.

C’è qualcosa di perverso nel modo in cui l’uomo si innamora dei suoi progetti sul mondo, che nascono con tanto entusiasmo ma poi incastrano in sé stessi il medesimo uomo che li aveva amati, rendendo triste il suo ragionare. La società funziona per mezzo di questa perversione al cui meccanismo è difficile sfuggire.

Ma se il ragionamento sul mondo è divenuto triste, allora il pensiero ha bisogno di un luogo a parte dove dimenticarsi del mondo. Se la società è una foresta alta dove non penetra la luce, noi cerchiamo una radura che sfugge alle ombre per ritrovare il cielo. Noi ce ne andiamo dal futuro per restare nel presente, abbandoniamo il resto del mondo per guardare solo a queste case, ci distogliamo dalle parole delle persone ritraendoci nell’interno che non parla.

Aries Tottile diceva che se l’uomo è ragione, allora il bene dell’uomo è l’esercizio della ragione; ma l’uomo è anche e soprattutto corpo. Accantonare il ragionamento guasto per dare spazio al corpo può essere la strategia migliore per poi tornare ad un ragionare che prenda le mosse da ambienti del pensiero più puliti.

Spesso la volontà che organizza l’azione per raggiungere gli obiettivi finisce per creare una sorta di cortina fumogena tra noi ed i nostri movimenti, che vengono compiuti senza essere vissuti. Ma una volta che ci siamo lasciati alle spalle i ragionamenti andati a male, l’azione si può liberare dalla schiavitù dei risultati e le diviene accessibile quel tanto di sacro che è insito in ogni movimento.

Ecco, sto smettendo di alimentare i pensieri dei progetti e degli obblighi in società. Lascio che le immagini del lavoro, delle persone e delle notizie diventino sbiadite. Dopo aver parcheggiato l’attenzione nell’ascolto del respiro, osservo con la coda dell’occhio i pensieri del giorno che continuano a germogliare. Ma se io mi trattengo e non li guardo, se io non li raccolgo, loro ritornano sott’acqua come un delfino che dopo essere uscito nell’aria ricade. E anche se ci sono attorno a me delle persone, no, non è vero: quelle persone non ci sono, sono solo creature in periferia che non sono interessate a quello che sto facendo, e nemmeno possono vederlo.

Se prima la ragione inviava l’ordine di muoversi per mezzo di telegrammi, adesso ascolta quello che il corpo ha da dire. È il momento dell’aderenza, dell’attenzione che si diffonde nei volumi della carne, nei muscoli grandi delle braccia e delle gambe ma anche in quelli minuscoli i cui nomi sono conosciuti dai medici soltanto. È il momento per accogliere il suono ordinato in ritmi ed armonie di note sovrapposte: la musica, l’allenatrice del corpo e del pensiero.

LA ZONA DEL COLORE

Tra le foglie di una pianta lo sguardo dell’uomo indaga nella speranza di un frutto, e quando si trova di fronte ad un volto lo interpreta disponendolo attorno agli occhi. Allo stesso modo la mente desidera trovare i punti polari della struttura musicale, e quando pensa di averne trovato uno, lo mette alla prova afferrandolo con il capitano di tutti i gesti: il piede che incontra il pavimento.

Ogni volta che il gesto indovina il tempo, l’energia non cala per il lavoro compiuto ma aumenta con la solidità della sensazione musicale. E se le gambe giocano bene, poi l’anima dell’ispirazione prende possesso anche del tronco, delle braccia, e delle mani; fino alle articolazioni delle dita. La struttura corpo è messa al servizio della struttura musica, come fosse un burattino dalle molteplici possibilità, ed ai gesti semplici che battono i tempi forti seguono montaggi più articolati.

Nei film d’avventura ci sono delle mattonelle segrete, e quando qualcuno per sbaglio le calpesta scattano le trappole infernali e crollano i palazzi. In questo video-real-game invece c’è un punto G segreto del cemento che si muove sotto il pelo della superfice come i grandi vermi nelle sabbie di Dune, e quando tu riesci a seguirlo con i passi, il pavimento prende vita e diviene un animale da cavalcare. Quando ne perdi le tracce ti devi fermare, immobile come una statua silenziosa, in attesa che l’intuito ne ritrovi la posizione.

Ma non siamo in un laboratorio teatrale del novecento, e non è un atleta quello che sta ballando, preoccupato di muscoli più resistenti per balzi più potenti. È un cittadino del triste impero che di professione fa qualcos’altro, ed usa con affetto il corpo che ha a disposizione per suonare lo spartito, senza arrabbiarsi per i limiti del suo strumento. Non è l’intensità della prestazione fisica che comanda in questo gioco, ma la sintassi delle parole movimento di cui il regista interiore dispone. E là dove la fatica si fa sentire, il cittadino danzante interpone pause immobili o diminuisce oltremodo l’intensità di ogni gesto, fino a lasciarne solo un cenno del capo o dello sguardo. Ma non rinuncia mai ad infatuarsi per le lucciole che si accendono nel triangolo magico fra il corpo, la mente ed il suono organizzato.

Il manuale dell’uomo ci insegna una danza per costruire il regno del Qui ed Ora, dando così un senso all’impresa di affrontare l’altrove che ci viene contro nei giorni. Non è un ballo per piacere allo sguardo di una platea; è una forma di bellezza che non viene osservata da quelli che stanno fuori, ma da quell’unico[1] che sta dentro.

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  1. [1]Una precisazione: non ho utilizzato questa espressione per indicare la fede in un io monolitico, che al contrario percepisco come molteplice. Credo che la convenzione dell’io grammaticale unitario sia un metodo liberamente utilizzabile a seconda delle occasioni. In questo caso si può considerare tale unico come il punto mentale in cui sta per formarsi l’ispirazione, non comandata da un ordine ma invitata da un’attesa.

LA NASCITA DI UNA RELIGIONE: IL SAPERE, IL CONTESTO E LA TRASPARENZA

LA CONTABILITÀ, LA FILOSOFIA E GLI OROLOGI DI CRISTALLO

Antefatti contabili: l’ignoranza del contesto

Quando ho iniziato a lavorare nell’ufficio acquisti non conoscevo ancora nulla della contabilità. Mi limitavo a girare al commercialista le fatture acquisti con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza dell’IVA. Non avevo un’idea precisa dei percorsi in cui gli impiegati contabili incanalavano i documenti. Se si parlava di Dare e di Avere potevo seguire il ragionamento per un paio di frasi, ma poi non capivo più la direzione dei crediti e dei debiti. Sapevo che c’era una lista di tutti i conti che si chiamava appunto piano dei conti, ma ne conoscevo soltanto poche voci appartenenti alla sezione dei costi; più precisamente le righe che in tale sezione stanno più in alto, quelle relative agli acquisti delle materie prime che ero abituato a gestire. Già le suddivisioni fra i diversi tipi di servizi mi rendevano diffidente, e sapevo che andando più sotto c’erano cose strane come i costi indeducibili, gli oneri straordinari e le minusvalenze. Per non parlare dei ratei e dei risconti: non mi ricordavo mai quali riguardavano i ricavi oppure i costi.

Dopo un paio di anni dal mio ingresso in azienda è venuto il momento di portare all’interno la gestione della contabilità (prima, come ho già accennato, era tenuta dallo studio del commercialista). Ciò è successo in contemporanea all’acquisto di un server AS400, e sono stato io a gestire entrambe le novità, cogliendo l’occasione per fare pratica con i conti. Eravamo a metà degli anni ’90 e non c’era Google a darmi una mano; ho imparato la materia confrontandomi con il programmatore del software contabile e, ovviamente, col commercialista. Nel giro di alcune settimane ho iniziato a capire la differenza fra il Dare e l’Avere che avvengono nello Stato Patrimoniale piuttosto che nel Conto Economico, e in alcuni mesi mi sono abituato a muovermi fra le insidie del giro degli effetti e delle operazioni di fine anno. Adesso registro normalmente bolle doganali, buste paga di fine rapporto e fatture d’acquisto con gli assoggettamenti IVA più diversi. Diciamo che ne so abbastanza per valutare le competenze di un’impiegata contabile in un colloquio d’assunzione.

La consapevolezza del contesto e la natura del cristallo

C’è stato un tempo in cui prevaleva l’ignoranza e la contabilità era per me soltanto un fastidio, un indirizzo a cui mandare le richieste e da cui attendere le risposte. Vedevo quello che vi entrava e quello che ne usciva senza capire il collegamento tra input ed output. L’ignoranza della materia mi portava a volte a sottovalutarne la complessità o, al contrario, a temerne eccessivamente le conseguenze. Dietro a quella parola c’era nella mia mente un aggregato di punti di vista esterni, non una struttura di pensieri pertinente alla realtà che essa indicava.
Successivamente ha avuto luogo un’esperienza per mezzo della quale si è formata una solida consapevolezza del contesto, e oggi, di fronte alla pezza giustificativa dell’operazione di banca, non rimango più fermo a pensare: passo subito a registrarla in prima nota. Quando spuntando l’estratto conto trovo qualcosa che non quadra ho già in mente dove può essere l’origine del problema, e so come verificarlo. Se prima la contabilità era il nome di un bosco di cui non conoscevo i sentieri, oggi è un dominio al cui interno posso vedere come se fosse un orologio di cristallo nel quale distinguo i meccanismi in movimento.

Col passare dei mesi e degli anni ho preso dimestichezza anche con altri contesti all’interno dell’azienda, scoprendo orologi di cristallo nell’ufficio commerciale e in produzione, nella gestione delle risorse umane e nelle questioni più strettamente tecniche. Al di fuori dell’ambiente di lavoro ho trovato orologi di cristallo nei comportamenti delle donne, nei discorsi dei politici e naturalmente negli esami universitari.

La trasparenza come stile di vita

Con l’esperienza e lo studio la massa diviene trasparente; ogni lavoro è una coltivazione che evapora il terreno lasciando visibili le vene aurifere della conoscenza. La terra è soltanto temporanea. La vista degli occhi ci insegna le superfici opache, ma noi preferiamo cercare gli orologi di cristallo. La trasparenza diventa una religione, compatibile con il contesto produttivo e capace di condurci nelle province più colorate del Qui ed Ora.[1]

Certo, non basta sapere che i contesti sconosciuti possono essere imparati a farli diventare trasparenti, ma possiamo creare i presupposti perché ciò avvenga più facilmente, cambiando l’attitudine della mente con l’aspettativa di un mondo trasparente. La differenza sta nel renderci conto che ogni sostanza opaca è soltanto il punto di partenza per scoprire al suo posto una ragnatela impalpabile di relazioni. Cambia l’atteggiamento nei confronti della massa che smette di costituire una barriera allo svolgersi del pensiero, i cui sentieri si diramano in ogni direzione come le scale di Escher. Gli oggetti diventano reti di percorsi e il mondo si risolve nei movimenti di un pensiero luminoso e senza ombre.

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  1. [1]La relazione fra la trasparenza e la godibilità dei Qui ed Ora è un tema da approfondire. Qui mi limito ad un esempio: nel momento in cui la conoscenza di un contesto è progredita a sufficienza è possibile vivere tale contesto localmente senza andare a verificare che i risultati siano adatti alle richieste del contesto globale, poiché si sa già che l’output soddisfa le aspettative. In soldoni: se impari a fare abbastanza bene i tuoi compiti, poi potrai appassionarti al tuo lavoro, perché saprai in anticipo che i risultati saranno buoni e non ci sarà nessuno che verrà a romperti i coglioni per i tuoi errori.

NOMI PER SALVARE IL PENSIERO EVANESCENTE

È quasi mezzanotte e il freddo ci punge aspettando Micaela. Tu sei tante cose, tu sei frizzante. Ti dondoli con le mani in tasca e c’è più stile nelle tue pose che in un musical famoso dei settanta. Vai snocciolando le novità dall’ultima volta dando un tono di voce diverso ad ogni episodio con una recitazione divertita. Dietro le tue parole variegate si intravede una sottile volontà che fa da regia alla giostra degli eventi per condurla in un luogo del futuro. Io, sospeso in questa moderata euforia invernale disegnata dal tuo comportamento, percepisco che la tua pelle è diventata dura per i graffi subiti e apprezzo la tua mente lucida nel sottolineare le proprie competenze e contemporaneamente i limiti.

Il tuo buonumore è sostenuto dalla consapevolezza delle cose accadute. Le decisioni nel gruppo di artisti, le idee concepite per un video, i libri letti, le possibilità di un lavoro. Ma col passare delle ore le cose accadute vanno lontanandosi dal presente scivolando nel passato. I meccanismi del tuo umore se ne accorgono e vanno ad ispezionare il nuovo passato prossimo che nel frattempo si è costituito. Prendono nota delle novità giunte dal mondo esterno e dei nuovi compimenti che hai saputo confezionare. Se non è stata consegnata alla mente abbastanza struttura, le agenzie di rating dell’umore decideranno per un declassamento. Devi essere laboriosa in silenzio per rispettare le consegne e guadagnare un’estensione del tempo felice, evitando il game over.

Non basta però mettere un freno agli spunti dispersivi e concentrarsi sulle strade intraprese. Ogni lavoro è simile ad una raccolta e prima di iniziare è necessario preparare un contenitore in cui salvare gli sforzi. Trattandosi di aspettative e di umore, che sono pezzi di spirito, il contenitore non può che essere un nome. Devi dare un nome ai tuoi lavori prima di cominciarli, così saprai quando li avrai finiti e li potrai poi mettere in esposizione sulle mensole nei corridoi del pensiero.

Non è facile prendere in mano la felicità senza farla morire. E di solito quando affrontiamo il problema ci rendiamo conto che dovevamo fare qualcosa prima. Bisogna giocare d’anticipo, dando più consapevolezza al nostro costruire. Non basta lavorare, bisogna preparare i nomi attorno ai quali fissare i flussi evanescenti del pensiero.

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