È da circa un anno che sono impegnato in una ricerca interdisciplinare sul gioco. Una parte degli articoli che ho letto riguardano l’impiego del gioco a diversi livelli del processo educativo. Dall’asilo nido fino all’istruzione universitaria, c’è una tematica che sembra essere ricorrente in questi lavori. Da un lato si vorrebbe arruolare il gioco tra i metodi d’insegnamento, per trarre vantaggio dal suo carico di affettività positiva e dalla sua capacità di promuovere il coinvolgimento. D’altra parte ci si trova, anche nel contesto educativo, a fronteggiare una tendenza diffusa a perseguire risultati “commerciabili”, precisi e misurabili, là dove invece i vantaggi ottenibili con le attività di gioco sono di carattere generale e non facilmente misurabile.
In questo post vorrei riportare il punto di vista di un bell’articolo1 che affronta la situazione in modo concreto. Si tratta di un documento prodotto da Project Zero (un centro di ricerca basato ad Harvard) in collaborazione con una scuola danese e la fondazione LEGO. L’obiettivo degli autori è quello di sviluppare alcune indicazioni pratiche adatte a definire la situazione di un apprendimento basato sul gioco. L’articolo si intitola, significativamente, “Verso una pedagogia del gioco”, e sottolinea l’importanza di raggiungere un punto di vista condiviso su come il gioco possa essere impiegato in ambito pedagogico. La tesi principale è che al fine di realizzare una situazione di apprendimento basato sul gioco si debbano soddisfare i tre criteri di Scelta, Meraviglia, Godimento2 (in inglese Choice, Wonder, Delight).
La dimensione della scelta implica che i partecipanti “decidano gli obiettivi, sviluppino e condividano idee, facciano e modifichino le regole, e negozino le sfide. Inoltre scelgono i collaboratori ed i ruoli, per quanto tempo lavorare o giocare, e quando muoversi.”
La dimensione della meraviglia “implica un’esperienza di curiosità, novità, sorpresa e sfida, che può coinvolgere ed affascinare colui che apprende. Dal punto di vista di un osservatore, un senso di meraviglia comporta improvvisazione o esplorazione, creazione od invenzione, simulazione o immaginazione, il prendersi dei rischi o l’imparare da prove ed errori.”
La dimensione del godimento (che potremmo anche tradurre come piacere, o diletto) “include eccitazione, gioia, soddisfazione, ispirazione, anticipazione, orgoglio e appartenenza.”
Come si nota dalla varietà dei termini citati, non siamo di fronte ad una definizione cristallina ed univoca, e questo riflette la difficoltà ampiamente riconosciuta di definire esattamente il fenomeno del gioco. Nondimeno si tratta di un approccio, in fase di sviluppo, che fornisce riferimenti concreti a chi si propone di impiegare il gioco in campo educativo.
Andando oltre quanto sostenuto nell’articolo in oggetto vorrei proporre alcune osservazioni utili a ricollegare i tre criteri sopra citati ad un modello più astratto e generale di cosa sia il gioco.
La dimensione del godimento e del diletto fa riferimento al fatto comunemente accettato che il gioco sia un’esperienza affettivamente positiva, ossia una forma di piacere. Questo non basta però a definire il gioco, come si può comprendere facilmente tenendo presente che esistono altre forme di piacere molto differenti dal gioco. Penso ad esempio alla soddisfazione della fame e della sete, oppure al piacere dell’esercizio fisico e all’erotismo.
Dal modo in cui sono descritte la dimensione della scelta e della meraviglia comprendiamo che il tipo di piacere con cui abbiamo a che fare è un piacere di natura cognitiva, che riguarda il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Dalla dimensione della meraviglia si nota anche in modo evidente come questo tipo di piacere sia sostenuto dalla novità. Nella dimensione della scelta riscontriamo invece l’impostazione autonoma di un obiettivo arbitrario. E vediamo che il piacere cognitivo si esercita nel coordinare i mezzi a disposizione verso il soddisfacimento di questo obiettivo.
Ci troviamo dunque a descrivere una forma di piacere di origine cognitiva, che è promossa dal senso di novità, e che si manifesta nel perseguimento di uno scopo scelto in autonomia. Messa così la descrizione può apparire piuttosto astratta, motivo per cui vorrei provare a ricondurla ad una situazione di gioco concreto, al di là del contesto educativo. Vygotskij, ad esempio, parla di due sorelle che un giorno decidono di giocare a fare le sorelle. In questo caso lo scopo (scelto perché se ne trae immediato piacere) è quello di rendere evidente l’essere sorelle, ed uno dei mezzi con cui viene perseguito é vestirsi e parlare in modo simile.3
Le osservazioni riportate in questo post sono preliminari ad un discorso più completo sul gioco che al momento è in fase di sviluppo. Chi scrive adotta una concezione del gioco sviluppata a partire dalla visione delle neuroscienze affettive, che intendono il gioco come una delle sette emozioni di base. Per altre considerazioni teoriche sul gioco si possono leggere questi post:
1Mardell, B., Wilson, D., Ryan, J., Krechevsky, M., Ertel, K., & Baker, M. (2016). Towards a Pedagogy of Play. Cambridge, MA: Harvard Graduate School of Education.
2La traduzione di Delight con Godimento non è priva di rischi. Ho scelto di impiegare la parola Godimento perché denota il senso di intima partecipazione tipico del gioco (Vedi anche la voce Godimento nel vocabolario Treccani: “Sentimento di soddisfazione e di intima contentezza, che si prova nel possesso, nella partecipazione o nella contemplazione di un bene fisico o spirituale, e più genericam. piacere, diletto”)
3La natura cognitiva del piacere di questo gioco sta nel fatto che la fonte di piacere è il rappresentasi come sorelle. L’episodio citato si trova menzionato in quest’articolo: Vygotsky, L. (1978). The Role of Play in Development (pp. 92-104). In Mind in Society. (Trans. M. Cole). Cambridge, MA: Harvard University Press.
Nel suo libro Coscienza e Cervello1, Stanislas Dehaene ci parla di come sono organizzati lo spazio cosciente e l’elaborazione inconscia dell’informazione. All’inizio del nostro articolo daremo subito una descrizione concisa di queste strutture e delle cosiddette firme del pensiero cosciente. Parleremo quindi di alcuni fenomeni sperimentali significativi e delle applicazioni cliniche, finalizzate ai pazienti nei quali il normale funzionamento dello stato di veglia è compromesso. Vedremo come questa visione del cervello si interseca con la nostra comprensione dei mondi di vita del bambino, dell’animale e della malattia (più in particolare della schizofrenia). Accenneremo infine al modo in cui la visione “cognitiva” di Dehaene potrebbe incontrare quella delle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp.
COSCIENZA ED INCONSCIO
Dehaene insegna psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France ed è a capo del più avanzato laboratorio francese di neuro-imaging. Il suo cognome si pronuncia Dehan, con l’acca aspirata e l’accento sulla e. Se Jules Verne ha scritto Viaggio al centro della Terra, Dehaene ci racconta il viaggio degli stimoli che dalla periferia degli organi di senso riescono ad attraversare i territori dell’elaborazione inconscia, fino ad accedere alla coscienza centrale. È un viaggio lungo in termini di complessità attraversata, ma dura soltanto alcune frazioni di secondo.
I processi inconsci di elaborazione degli stimoli sono circoscritti in zone specifiche del cervello, come è il caso, ad esempio, della corteccia visiva o di quella uditiva. Questi processi inconsci sono soggetti ad un rapido decadimento, a meno che riescano a coalizzarsi in strutture più estese e a penetrare attraverso regioni successive della corteccia cerebrale. La zona di elaborazione inconscia è popolata da una moltitudine di stimoli che in frazioni di secondo si originano e tentano la via verso la coscienza, la quale si configura come uno spazio di condivisione globale dell’informazione. Solo pochi dei processi inconsci però, riescono a raggiungerla: la maggior parte di essi ricade nell’indifferenziazione da cui si erano sollevati.
Nel corso di una festa per esempio, vi sono molte voci che arrivano all’apparato uditivo e subiscono una prima elaborazione inconscia, ma di queste solo la voce su cui siamo concentrati arriva alla coscienza, oppure la voce di qualcun altro che ha appena pronunciato il nostro nome (il quale viene riconosciuto a livello inconscio). L’elaborazione del contenuto verbale di tutte le altre voci si ferma in qualche stadio di elaborazione inconscia e non entra in coscienza. Qui è evidente come i processi di elaborazione inconscia costituiscano una sorta di pre-selezione del materiale destinato ad essere elaborato dallo spazio cosciente.
Come già accennato, i processi inconsci di elaborazione iniziale degli stimoli sono specifici e fra loro isolati, nel senso che possono accedere soltanto ad altri processi limitrofi, e non sanno ciò che avviene nelle parti lontane del cervello. Lo spazio cosciente invece ha per caratteristica quella di condividere l’informazione proveniente da molte zone diverse del cervello fra loro distanti.2 Le informazioni che entrano a far parte della coscienza possono essere mantenute attive per un intervallo prolungato di tempo, indipendentemente dalle circostanze esterne. Tali informazioni diventano disponibili per le altre regioni del cervello e ne influenzano l’azione. La capacità di produrre espressioni verbali è un tratto caratteristico dello stato di integrazione rappresentato dallo spazio cosciente.3
Da un punto di vista anatomico, la struttura dello spazio cosciente condiviso si fonda su di un sistema di connessioni a lunga distanza (parecchi centimetri). Questa rete è costituita dai neuroni piramidali, caratterizzati da un corpo cellulare di dimensioni notevoli, da assoni molto lunghi per trasmettere i segnali, e da ramificazioni dendritiche con migliaia di spine ricettive.4
La rete di connessione a lunga distanza è caratterizzata dalla reciprocità, per cui se vi sono delle connessioni dal punto A al punto B della corteccia cerebrale, solitamente ve ne sono anche in direzione opposta, dal punto B al punto A. Vi è inoltre la tendenza a formare connessioni triangolari (e quindi a formare dei percorsi ad anello), nel senso che se vi sono connessioni dal punto A al punto B e dal punto A al punto C, allora si avranno facilmente connessioni anche tra il punto B e il punto C. Queste forme di reciprocità connettiva tendono ad avere un effetto auto-stabilizzante.5
Gli stimoli che riescono a compiere solo la parte iniziale del percorso di elaborazione sono chiamati subliminali, e non sono accessibili da parte della coscienza. Gli stimoli denominati precoscienti sono invece quelli che hanno compiuto dei passi ulteriori per accedere allo spazio centrale. Questi stimoli non sono ancora coscienti, ma dirigendo in modo opportuno la nostra attenzione è possibile recuperarli.6
Dehaene prende in esame il modo in cui i frammenti di informazione entrano nel dominio cosciente. Si tratta di un discorso centrato sul processo percettivo, con la possibilità dunque di costruire esperimenti in laboratorio. Gli stimoli sono il punto di partenza esterno chiaramente osservabile, mentre l’osservazione dell’output (lo stato del cervello) può compiersi con i metodi di brain-imaging. Dehaene si occupa meno di ciò che si intende per inconscio quando con questa parola ci si riferisce all’influenza di antiche memorie. In tal caso infatti vi è una sorgente di informazione interna alla mente (le strutture della memoria), più difficile da gestire in una situazione sperimentale.
Dalla nostra lettura di Dehaene sembra plausibile che il modo in cui le memorie entrano in coscienza sia assimilabile al modo in cui entrano in coscienza gli stimoli sensoriali. Ne segue che l’inconscio non si presenterebbe come una sorta di scantinato nel quale si aggira una personalità nascosta che ad un certo punto può saltare fuori. È solo nella sfera cosciente che sussisterebbe una personalità completa, attiva ed integrata. L’inconscio inteso come sedimentazione delle nostre esperienze di vita esisterebbe sì, ma non come un giardino dove i ricordi continuano una loro vita attiva indipendente, bensì piuttosto come un ricco deposito di impronte che tornano vive quando noi vi accediamo deliberatamente (là dove è possibile) o quando vengono risvegliate dall’attivazione di connessioni inconsce.789
Leggendo Dehaene – La fioritura del pensiero cosciente Mi piace immaginare il brulicare dei processi inconsci come una schiera di germogli fluidi che si avvicendano tentando l’accesso alla zona cosciente, la quale offre loro la possibilità di integrarsi al resto della vita mentale giungendo a piena fioritura. (Bisognerebbe aggiungere dei fiori già sbocciati ma sbiaditi e nascosti negli anfratti, a simboleggiare le tracce delle memorie di vita che possono essere recuperate a nuova vita)
LA RILEVAZIONE DELLA NOVITÀ ED IL BRUSIO DI FONDO
Nel corso della sua esposizione Dehaene ha modo di richiamare l’attenzione su un paio di modalità di funzionamento tipiche della corteccia cerebrale. La prima di esse èla tendenza…
(… parte omessa nella pubblicazione web. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail…)
LE FIRME DELLA COSCIENZA
Ciò che Dehaene chiama firme della coscienza sono delle proprietà dell’attività neurale che corrispondono non tanto a uno stato continuo di veglia o di vigilanza, quanto all’ingresso nella coscienza di una specifica informazione. Le firme della coscienza non si attivano invece quando l’elaborazione dello stimolo si arresta ad un livello precosciente.
La prima firma della coscienza è costituita semplicemente dall’invasione di molte regioni del lobo parietale e di quello prefrontale da parte del segnale sensoriale. La seconda firma della coscienza è data dalla cosiddetta onda P3. Si tratta di un intenso voltaggio rilevato nella parte superiore della testa. Tale intensità è da intendersi relativamente, trattandosi comunque di pochi microvolt. Quest’onda comincia circa 3 decimi di secondo dopo la presentazione dello stimolo, ma si presenta soltanto se lo stimolo viene riconosciuto a livello cosciente.
La terza firma della coscienza è un aumento notevole dell’attività elettrica del cervello nelle frequenze alte, quelle sopra i 30 Hertz, chiamate onde gamma. La quarta firma è la sincronizzazione di parti del cervello poste a grande distanza fra loro (parecchi centimetri). Questa sincronizzazione avviene alle basse frequenze (alfa e beta), e costituisce un presupposto per la comunicazione reciproca fra tali aree. Anche la terza e la quarta firma emergono con un terzo di secondo di ritardo rispetto alla presentazione dello stimolo.
Il ritardo dell’onda P3 e delle altre firme della coscienza corrisponde al fatto che la nostra rappresentazione del mondo esterno viaggia con un ritardo di almeno tre decimi di secondo rispetto alla realtà circostante. Questo ritardo è compensato in parte dall’esistenza di molti servo-circuiti incoscienti che gestiscono l’esecuzione di azioni automatiche in modo più rapido rispetto all’elaborazione cosciente.10 Per mantenere il coordinamento con la realtà esterna inoltre, il nostro cervello costituisce continuamente un’anticipazione sensomotoria di ciò che sta per accadere.11 Quando si verifica un imprevisto succede dunque che ci troviamo, per un istante, nella posizione di apprezzare una sfasatura fra la realtà corrente e la nostra previsione. Dehaene fa l’esempio del bicchiere di latte che cade perché urtato accidentalmente. Vorremmo prenderlo al volo, ma possiamo solo osservare la lentezza della nostra reazione.
ALCUNI FENOMENI SPERIMENTALI
Dehaene descrive una grande varietà di fenomeni sperimentali, tra i quali particolarmente significativi sono le immagini subliminali, la rivalità binoculare, la cecità disattenzionale, la visione ceca, la valutazione di appropriatezza al contesto.
Le immagini subliminali sono immagini presentate al di sotto (sub-) di un certo tempo limite (limen), che corrisponde a circa 50 millisecondi. A causa del brevissimo tempo di presentazione queste immagini non arrivano alla coscienza, ma riescono comunque ad accedere alle prime zone del cervello dedicate all’elaborazione visiva, lasciando una traccia del loro accesso per un breve periodo di tempo, circa un secondo. Nei cosiddetti esperimenti di priming subliminale la presentazione subliminale di una parola accelera il successivo riconoscimento di quella stessa parola, se la seconda presentazione avviene entro un secondo dalla prima. L’accelerazione è dovuta al fatto che alcuni circuiti nervosi inconsci erano si già sintonizzati su quello stimolo.
La rivalità binoculare si ha quando si presentano all’occhio sinistro e all’occhio destro due immagini fra loro scollegate, ad esempio per mezzo di un sistema di specchi o con degli schermi opportunamente allestiti. Ciò che succede è che la visione oscilla tra un oggetto e l’altro, ad esempio tra un volto e una casa. L’oscillazione avviene a livello inconscio, ed è al di fuori della portata della decisione consapevole di seguire una o l’altra immagine.
Un esperimento interessante che si può fare è presentare il volto e la casa con immagini oscillanti a frequenze diverse, così che poi si possa riscontrare la traccia di una o dell’altra immagine per mezzo di un elettroencefalogramma. Nelle prime fasi dell’elaborazione visiva sono presenti contemporaneamente entrambi gli stimoli (la casa ed il volto), mentre a partire da un certo punto del processo di elaborazione è presente soltanto uno stimolo oppure l’altro, che si alternano nel tempo.
La cecità disattenzionale consiste nel fatto che quando si è concentrati su un determinato aspetto della scena si diventa incapaci di notare i cambiamenti che si svolgono in altre zone dell’ambiente osservato. Questo implica che vi sia una focalizzazione dell’attenzione cosciente sui flussi inconsci che provengono da determinate zone della realtà, e la concentrazione su un determinato contenuto tende ad impedire l’accesso in coscienza di altri contenuti. Un esempio famoso è quell’esperimento dove si chiede ai partecipanti di contare il numero di passaggi in una partita di basket, e intenti nel contare non ci si accorge che un attore vestito da gorilla entra in campo nel mezzo della partita, battendosi le mani sul petto prima di andarsene.12
La visione cieca si ha quando il soggetto non ha una coscienza visiva integra della situazione circostante (a causa di malattie o traumi), ma nonostante questo…
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IN OSPEDALE
All’inizio del capitolo sei Dehaene fornisce una descrizione degli stati principali di coscienza danneggiata. Il caso peggiore è quello della morte cerebrale, che è facilmente identificabile perché i neuroni muoiono, non sono più in grado di attivarsi elettricamente, e le memorie vanno a perdersi definitivamente col dissolvimento della struttura cellulare. Nel caso del coma invece, il paziente non è in grado di risvegliarsi per un periodo prolungato (per più di un’ora), ma le cellule cerebrali sono integre, come si può riscontrare facilmente dall’attività registrata con l’elettroencefalogramma. Molti pazienti in stato di coma si risvegliano tornando ad avere funzioni normali, ma alcuni di loro si risvegliano rimanendo insensibili, recuperano l’alternanza fra sonno e veglia ma non danno segni di consapevolezza: questo è lo stato vegetativo. Il problema è che dietro la maschera esterna dello stato vegetativo si nascondono dei casi in cui i soggetti mantengono la coscienza, e non è facile identificarli.
Nel 2006 si è accidentalmente trovata una paziente in stato vegetativo nel cui cervello si attivavano reti cerebrali distinte a seconda dei pensieri che le venivano richiesti a voce. Con la risonanza magnetica funzionale è possibile osservare che nel cervello si attivano aree diverse a seconda che si stia immaginando di giocare a tennis oppure di muoversi nel proprio appartamento. Nel primo caso il focus è sull’attività motoria, mentre il secondo compito è assimilabile ad un orientamento nello spazio. Nel 2010 è stato organizzato un esperimento in cui ad un altro paziente in stato vegetativo è stato chiesto se aveva dei fratelli. Il paziente doveva pensare di giocare a tennis per dire di sì e di visitare il proprio appartamento per dire di no. Il paziente rispose correttamente a 5 domande su 5.
Il problema è che compiere questo tipo di analisi implica costi molto alti per via dei macchinari necessari. Nel 2008 Dehaene ed alcuni suoi colleghi hanno intrapreso…
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I DINTORNI DELL’UOMO
L’uomo si sviluppa dall’animale nel corso del processo evolutivo, emerge dal bambino nel corso della crescita, e può darsi il caso che nel corso della sua vita incontri la malattia. Dal nostro sapere sulla coscienza ci aspettiamo che vengano suggerimenti su ciò che accomuna e distingue l’uomo adulto da questi mondi vitali ad esso limitrofi: il bambino, l’animale, la malattia.13
I BAMBINI
Come abbiamo visto la coscienza è associata ad uno spazio globale costituito da connessioni tra zone del cervello molto distanti fra loro. Queste connessioni iniziano a formarsi…
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VERSO UNA GRANDE SINTESI
Chiudo l’articolo ricordando un altro importante studioso che recentemente ha proposto un’ampia visione del cervello: Jaak Panksepp. Panksepp propone di considerare il cervello distinto in tre livelli. Il livello primario riguarda le strutture più antiche del cervello, quelle più vicine al tronco cerebrale, e contiene tra l’altro le strutture nervose collegate alle emozioni fondamentali di cui Panksepp si occupa (paura, aggressività, eccitazione sessuale, cura, pena della solitudine, gioco, SEEKING/voglia di fare)14. Il livello secondario riguarda soprattuttoi meccanismi di apprendimento e memoria, mentrequello terziarioriguarda le funzioni più elevate, che hanno la corteccia cerebrale come organo principale. I processi terziari sono quelli su cui è centrato il discorso di Dehaene.
Dunque, se Dehaene si occupa soprattutto dei processi terziari e Panksepp di quelli primari, l’intuizione suggerisce che si possa creare una visione complessiva che tenga conto di entrambi i discorsi. Avremo dunque uno spazio neuronale globale come manifestazione di una coscienza che ha le sue radici nei sistemi emotivi collocati nel grigio periacqueduttale?15La scienza a volte sembra fatta di molte vallate fra loro isolate, e forse mettendo insieme le chiavi di interpretazione sparse qui e là è già possibile trovare la soluzione. Bisogna tenersi aggiornati: forse qualcuno sta già scrivendo il libro che aspettiamo.
1Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, 2014, Milano, Raffaello Cortina Editore. Titolo originale: Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Traduzione di Pier Luigi Gaspa.
2“…l’informazione non cosciente rimane confinata a un angusto circuito cerebrale, mentre l’informazione percepita coscientemente viene distribuita globalmente su gran parte della corteccia e per un tempo prolungato.” p. 188
3“Negli esseri umani, il formulatore verbale che ci consente di esprimere i contenuti della nostra mente è un elemento essenziale che può essere impiegato soltanto quando siamo coscienti” p. 155
4I neuroni più sviluppati da questo punto di vista si trovano nella corteccia prefrontale.
5Dehaene nota inoltre come “In pratica, tutte le regioni della corteccia direttamente interconnesse condividono a loro volta l’informazione tramite una via parallela d’informazione che passa attraverso un trasmettitore collocato in profondità nel talamo.” p. 233
Nello stesso passo Dehaene fa riferimento anche all’importante ruolo dei gangli basali e dell’ippocampo.
6“Per quanto ci sforziamo di percepirlo, uno stimolo subliminale non diventerà mai cosciente, laddove, invece, uno stimolo preconscio sì, se soltanto troviamo il tempo per occuparcene.”
7Non intendo certo dire che le impronte inconsce della memoria siano assolutamente immodificabili, ma che i processi a cui sono soggette sono qualitativamente differenti da quelli della vita cosciente. Considera in proposito questa affermazione: “Il nostro cervello si comporta come uno statistico esperto, che rileva regolarità significative nascoste in sequenze apparentemente casuali, e tale apprendimento statistico avviene senza sosta, in sottofondo, anche quando stiamo dormendo.” p. 122
8È interessante in proposito la teoria del riconsolidamento delle memorie, che prevede la possibilità di cambiare forma alle memorie una volta richiamate in coscienza. Si veda: Karim Nader and Einar Örn Einarsson, “Memory reconsolidation: an update,” Ann. N.Y. Acad. Sci. 1191, (2010), 27–41 doi: 10.1111/j.1749-6632.2010.05443.x
9C’è un passo a pagina 148 dove Dehaene contrappone la visione di un inconscio in rapido decadimento alla visione di Lacan per cui l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Al di là dell’ipotesi di Lacan, a noi sembra che la posizione espressa in questo passo da Dehaene sia adeguata a descrivere l’inconscio sensoriale, ovvero il destino delle informazioni sensoriali provenienti dall’esterno, ma non l’inconscio biografico, inteso come stratificazione delle memorie che costituiscono la nostra storia di vita.
“Molti esperimenti mostrano che, nel cervello, lo stimolo subliminale va incontro a un decadimento esponenziale. Riassumendo queste scoperte, il mio collega Lionel Naccache ha concluso (contraddicendo lo psicanalista francese Jacques Lacan) che “l’inconscio non è strutturato come un linguaggio, ma come un decadimento esponenziale”. Sforzandoci, noi possiamo mantenere viva per un periodo leggermente più lungo l’informazione subliminale; ma la qualità di questa memoria si degrada a tal punto che il nostro richiamo, dopo pochi secondi d’intervallo, supera a malapena il livello della casualità. Soltanto la coscienza ci permette di coltivare pensieri duraturi.”
10“I nostri occhi e le nostre mani reagiscono spesso adeguatamente proprio perché sono guidati da un’intera gamma di circuiti veloci sensomotori che operano al di fuori della nostra consapevolezza cosciente” p. 177
11“In pratica, tutte le nostre aree sensoriali e motorie contengono meccanismi di apprendimento temporale, che anticipano eventi del mondo esterno.” p. 177
12Il video si trova su Youtube cercando: Daniel Simons Gorilla
Sarebbe interessante considerare questa resistenza della coscienza insediata per mezzo dei concetti di individuazione e metastabilità come sono stati sviluppati da Gilbert Simondon.
13Vi sarebbe almeno una quarta provincia da aggiungere ai dintorni dell’uomo: lo sviluppo di simulazioni software del funzionamento del cervello. Dehaene parla di una simulazione del cervello da lui sviluppata per verificare le dinamiche delle firme della coscienza. Per sviluppare tale simulazione ha preso di riferimento la colonna talamo-corticale come “unità computazionale di base del cervello dei primati”. Cf. p. 246
Inoltre: “In Europa si stanno riunendo forze di ricerca per il Progetto Cervello Umano (Human Brain Project), un epico tentativo di comprensione e di simulazione di reti corticali delle dimensioni di quella umana.”
14Nel campo delle emozioni Dehaene fa riferimento all’amigdala; ricordiamo che secondo Panksepp l’amigdala è meglio interpretabile come un canale di trasmissione, non una sorgente.
15Per approfondire la visione di Panksepp vi suggerisco il libro divulgativo da me pubblicato: “Le emozioni di base secondo Panksepp”.
In questo post daremo anzitutto una descrizione dell’assimilazione e dell’accomodamento così come sono intesi da Piaget. Successivamente proporremo un’interpretazione dell’assimilazione come una forma di omeostasi. Tale interpretazione è finalizzata ad una ricerca sulla natura del gioco, e prende spunto dal fatto che Piaget interpreta il gioco come una forma di assimilazione.
Il concetto di assimilazione, fondamentale nella teoria di Jean Piaget, è impiegato dal famoso psicologo svizzero per evidenziare l’aspetto sistemico degli organismi viventi. L’assimilazione viene contrapposta ad altri strumenti teorici quali la sequenza stimolo-risposta ed il concetto di associazione, coi quali spesso si isolano parti dei processi organici senza tenere conto adeguatamente della complessità interazionale propria dei viventi.
Al fine di concretizzare l’idea di assimilazione prendiamo come esempio il caso del cibo. L’assimilazione delle sostanze ingerite ha luogo grazie ai processi chimici che le trasformano rendendole assimilabili, appunto, da parte delle strutture organiche situate all’interno del corpo. Piaget considera l’assimilazione come un concetto valido sia per la dimensione organico-biologica sia per quella del comportamento. L’assimilazione è intesa come il processo per cui gli elementi esterni vengono ricondotti alle strutture già esistenti nell’organismo.
L’assimilazione assicura la continuità dell’organismo, ma non è un principio che agisce da solo. Se ci fosse solo assimilazione, l’organismo non sarebbe soggetto a sviluppo. L’assimilazione è accompagnata dal suo processo complementare, chiamato accomodamento. L’accomodamento è il processo per cui le strutture esistenti cambiano a causa dei nuovi elementi che vengono assimilati.
Piaget porta un esempio relativo al bambino che si succhia il pollice. In questo caso diciamo che il pollice è stato assimilato, incorporato, nel processo del succhiare, il quale originariamente avveniva solo col seno della madre. Nel contempo è avvenuto un accomodamento del processo del succhiare: l’articolazione dei movimenti del succhiare è cambiata adattandosi alla diversa conformazione del pollice rispetto al capezzolo della madre.
Va precisato che nella teoria di Piaget assimilazione ed accomodamento non sono due processi ben precisi, unicamente determinati e quindi fisicamente rintracciabili nell’organismo o nella psiche. Si tratta piuttosto di due categorie che funzionano bene per descrivere le strategie dell’organismo corporeo e psichico, e che possono venire utilizzate a diversi livelli di analisi.
ASSIMILAZIONE ED OMEOSTASI
Dopo aver esposto l’idea di assimilazione come è intesa da Piaget, proveremo ora a connetterla con l’idea di omeostasi. A tal fine abbiamo sintetizzato in un altro post il concetto di omeostasi, che consideriamo essere il mantenimento delle condizioni interne di un organismo vivente.
Ora, mi pare abbastanza evidente che in prima approssimazione l’assimilazione può essere concepita come un caso di omeostasi, nel senso che assimilando gli elementi esterni alle strutture esistenti si mantengono tali strutture.3 Siamo però subito indotti a fare alcune precisazioni.
Abbiamo visto in precedenza che il concetto di omeostasi, nato in riferimento agli organismi viventi, può essere esteso all’ambito ingegneristico, nel quale il mantenimento dello status quo si realizza attraverso la gestione di un piccolo numero di variabili numeriche, che esprimono ad esempio la temperatura di una stanza o l’acidità di un bagno chimico. Il caso dello schema senso-motorio del succhiare però, non è riducibile ad una situazione così semplificata.
D’altra parte, il mantenimento di uno schema di comportamento non è nemmeno identificabile al mantenimento di un fondo composto da un denso tessuto di relazioni chimico-fisiche4. Sembra piuttosto che si abbia a che fare con una struttura ben definita, là dove invece il concetto di omeostasi si origina come mantenimento di un mezzo (il milieu di cui parlava Claude Bernarde) che si pone come un ambiente da cui le strutture definite possono emergere. L’omeostasi vera e propria mantiene un mezzo, un apeiron, un fondo indifferenziato, un terreno. L’assimilazione invece (almeno nell’esempio citato) sembra riguardare più delle strutture ben precise e distinte, un sistema di cose specifiche, e non un fondo indistinto e generatore.5
Il concetto di assimilazione ci interessa soprattutto in quanto Piaget interpreta il gioco come una predominanza dell’assimilazione.6 Ora, una manifestazione fondamentale del gioco negli uomini e negli animali è il gioco di lotta, che ha per proprietà l’alternanza fra momenti di attacco e di difesa (là dove vince sempre lo stesso individuo, il gioco tende a finire). A noi è parso che impiegando l’omeostasi per spiegare l’assimilazione si ottenesse la possibilità di impiegare il concetto di ciclo omeostatico (si veda l’articolo sull’omeostasi per comprendere meglio a cosa mi riferisco) per comprendere meglio l’alternanza di ruoli difensivi e d’attacco nel corso del gioco di lotta. Questa alternanza potrebbe essere un’esemplificazione della tendenza dell’organismo a a ripetere i propri cicli nello spazio delle fasi.7
Va ricordato che quella appena enunciata è soltanto una possibilità intravista, la situazione necessita di essere approfondita, e quanto qui proponiamo sono soltanto delle riflessioni preliminari. Che effettivamente il gioco sia interpretabile come assimilazione e come omeostasi, credo dipenda in ultima analisi da come si impostano questi concetti.
Da tutta questa riflessione nasce però una domanda che mi pare avere una natura più decisiva. Se il gioco è interpretabile come il mantenimento di un profilo mentale elevato rispetto allo strato percettivo, allora potremo chiederci: ciò che è mantenuto dal gioco ha più la natura di un fondo continuo o di una struttura definita e discreta?
1Piaget J. (1976) Piaget’s Theory. In: Inhelder B., Chipman H.H., Zwingmann C. (eds) Piaget and His School. Springer Study Edition. Springer, Berlin, Heidelberg
2Piaget J. (1972) La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia Editrice, Scandicci (FI). Titolo originale: La formation du symbole chez l’enfant. (1945). Traduzione di Elena Piazza.
3Anche l’insieme del processo di assimilazione e di accomodamento potrebbe essere considerato come un’omeostasi. Ovviamente in un caso e nell’altro cambierà la concretizzazione esatta di ciò che consideriamo essere il processo omeostatico.
Nota che mettere sullo stesso piano l’omeostasi e l’assimilazione implica che le strutture preservate dall’assimilazione siano assimilabili al mezzo preservato dall’omeostasi.
4Si potrebbe far notare che anche il microclima interno alle stanze della casa e la condizione fisica del bagno chimico non si risolvono in un piccolo numero di variabili, ma il punto è che la complessità concreta di tale microclima e del bagno chimico non partecipano al sistema di regolazione omeostatico ingegneristicamente realizzato. Ciò che vi partecipa sono solo il valore della temperatura e quello del Ph.
5Le strutture mantenute dall’assimilazione sembrano avere una natura intermedia tra quella di un fondo diffuso e quella di un piccolo numero di variabili ingegneristiche.
Certo le cose specifiche possono aver bisogno di emergere da un fondo, e forse sono un processo che fluisce con continuità da un fondo. Nondimeno penso che sia meglio tenere vicina l’idea di omeostasi al concetto di fissità del mezzo interiore. Volendo si potrebbe concepire uno spettro che si estende da ciò che è fondo indistinto e generatore a ciò che cataloghiamo come ente, come struttura ben definita e distinta (a tale scopo può essere utile immaginare un tessuto di molteplici strutture che finisca per essere assimilabile ad un mezzo. Così come tante strutture molecolari formano un fluido). Di conseguenza avremmo uno spettro dell’azione del mantenere che andrebbe dal mantenere un mezzo (l’omeostasi) al mantenere una struttura precisa (il che può coincidere con almeno alcuni casi di assimilazione).
6“L’equilibrio progressivo tra l’assimilazione delle cose alla propria attività e l’accomodamento di quest’ultima rispetto a quelle sfocia infatti nella reversibilità caratteristica di quelle azioni interiorizzate che sono le operazioni della ragione, mentre il ruolo predominante dell’accomodamento caratterizza l’imitazione e l’immagine, e quello dell’assimilazione spiega il gioco ed il simbolo «incosciente»” Piaget 1972, p.7.
7Potremmo anche tentare di ricondurre parte di ciò che Piaget chiama accomodamento alla differenza, al rumore che caratterizza ogni ripetizione reale.
Ho rivisto il primo film della serie di Terminator, quello del 1984, e me ne sono rimaste tre impressioni. La prima impressione è quella della distanza fra il nostro tempo e le atmosfere dei primi anni ottanta. Terminator non ha mai visto il volto di Sarah Connor, e ne cerca il nome scorrendo il dito sulla carta di una guida telefonica trovata in una cabina pubblica. Pare una razza umana diversa quella così vincolata agli oggetti non informatici, quella che non conosce la pratica di internet, dei social e degli smartphone.
Seconda impressione: la povertà dei personaggi. C’è una bella ragazza e c’è il bel ragazzo che arriva per salvarla dal nemico. Al di fuori della coppia e del nemico non vi sono altri ruoli di rilievo, e muoiono tutti come niente. Hai un valore se sei il combattente predestinato che salverà l’umanità intera, altrimenti, amen. Non vi è posto per l’idea, tra gli altri di Epicuro e del Mahabharata, che la ricchezza di una vita dipende dalla cerchia di persone di cui ci circondiamo. Come controesempio penso ad un film ricco di ruoli come il Padrino.
Terza impressione: l’azione del film mi ha preso. Il tempo vola. Dall’inizio alla fine c’è qualcosa che sta per succedere. Non fa niente se lo scheletro del robot si muove a scatti, con degli effetti speciali da ridere. Questo non arriva a guastare l’atmosfera. C’è un senso di urgenza che ti prende.
Il terminator osserva la situazione, riflette, valuta la scelta migliore, e agisce in assoluta libertà dalle norme sociali. È questo il significato della facilità eccessiva con cui si uccide e con cui si sterza in mezzo al traffico incuranti dell’incolumità degli altri e dei danni causati al proprio corpo.
È questa la miglior incarnazione del senso di libertà? Assolutamente no, ovviamente per l’eccesso di violenza. Vi sono espressioni alternative della liberta che non coinvolgano la violenza? Certo che si. Un bell’esempio su due piedi potrebbe essere Captain Fantastic, e mi riprometto a breve di vedere Summerhill, di cui ora sto leggendo il libro.
Il giorno dopo aver visto il primo terminator ho voluto fare il bis e ho rivisto anche il secondo. Ed il senso d’urgenza qui te lo scordi. Nel primo episodio il terminator era sempre in arrivo, e l’incalzare del film si basava sull’alternanza di fuga e raggiungimento. Nel secondo episodio le atmosfere paranoiche di Sarah colorano il tono affettivo fondamentale. È come se nel primo film della serie vi fossero semplicemente delle cose pericolose, mentre nel secondo ci fosse qualcosa di diverso. Nel secondo episodio le cose pericolose sono condite con tanta riflessione sulla paura che permea di se le pareti bianche dell’istituto psichiatrico in cui Sarah Connor è rinchiusa.
Le cose pericolose incontrate in un mondo libero non ingessano l’azione, anzi, la scandiscono. Quando invece alla semplicità di un oggetto pericoloso circoscritto si sostituisce un timore diffuso ovunque, piu stratificato, l’orizzonte si chiude. E non conta quante volte si spara, quanto nera e pesante sia la mitragliatrice, e se le munizioni sono grosse come pere. Il senso dell’agire non dipende dalla quantità di esplosivo.
Tirate le somme, ciò che vorrei ricordare è questa differenza. Non è una differenza dovuta a una cosa presente in piu o in meno, ma al modo in cui le cose sono disposte e vengono allo sguardo. È quella libertà che nel film del 1984 c’era, e che in quello del ’91 già era persa.
In questo post daremo una descrizione canonica del concetto di omeostasi per poi proporre alcune riflessioni sui cicli che si possono sviluppare in un sistema omeostatico. Questo breve scritto é finalizzato a dare un’interpretazione dell’assimilazione (Piaget) in termini di omeostasi.12
L’omeostasi è la tendenza tipica dei viventi a mantenere inalterate le proprie condizioni interne rispondendo alle perturbazioni provenienti dall’esterno. È famosa l’espressione con cui nell’ottocento Claude Bernarde ne sintetizza il significato: “fixité du milieu intérieur”. In Italiano traduciamo con “stabilità del mezzo interno”, dove “mezzo” ha il significato di matrice o sostanza. La parola precisa “omeostasi” è stata coniata da Walter Cannon nel 1929. Omeo- significa “simile”, mentre stasi si riferisce all’azione dello stare. L’omeostasi è una sorta di “stare nello stesso posto”. L’uso del prefisso omeo- (simile) anziché omo- (stesso) evidenzia come nell’omeostasi non vi sia una fissità esatta dei parametri che identificano lo stato del sistema in esame, quanto piuttosto una fascia di valori all’interno del quale il sistema fluttua rimanendo funzionante.3
La temperatura corporea, la pressione arteriosa, la concentrazione di zuccheri nel sangue sono esempi di variabili che nell’organismo sono sottoposte a regolazione omeostatica. La sete ha una funziona omeostatica nello spingerci ad assumere liquidi per integrare quelli persi. Al livello cellulare l’omeostasi è quell’insieme di processi con cui si mantengono costanti le concentrazioni di certi elementi chimici all’interno della membrana cellulare.
L’omeostasi è un concetto che ha una possibilità di applicazione molto vasta. Diverse possono essere le variabili soggette a regolazione. Dalla composizione del liquido intracellulare si può andare, spostandosi nel campo dell’ecologia, all’equilibrio fra predatori e prede in un ambiente naturale. La concezione dell’intero pianeta come un organismo che mantiene il proprio equilibrio va sotto il nome di Gaia, ed è un altro esempio di omeostasi.4 Da un punto di vista ingegneristico possiamo ricordare l’esempio del riscaldamento di una casa, in cui le temperature rilevate dal termometro provocano l’accensione e lo spegnimento della caldaia per mantenere costante la temperatura, compensando gli scambi di calore fra la casa e l’ambiente esterno. Una situazione simile è quella della vasca di un impianto elettro-galvanico in cui il Ph (il grado di acidità) della soluzione deve rimanere all’interno di un certo range desiderato. Il sensore del Ph è allora collegato all’attivazione di due pompe distinte, una che aggiunge (ad esempio) acido solforico alla soluzione per abbassare il Ph, e l’altra che aggiunge soda per alzarlo.
Nel caso dell’impianto galvanico o del riscaldamento della casa la situazione si riduce ad un set ridottissimo di variabili. Abbiamo come input la temperatura ed il Ph, e come output l’azionamento della caldaia e delle due pompe chimiche. Nel caso invece degli organismi viventi abbiamo una molteplicità di valori regolati omeo-staticamente a diverse scale di grandezza, dalla cellula fino al corpo nella sua interezza. Possiamo parlare di omeostasi per descrivere ciò che accade nel riscaldamento di una casa o nella regolazione di un bagno chimico, ma dobbiamo aver ben presente che nel caso dell’organismo vivente siamo di fronte ad una enorme complessità del sistema e all’interazione reciproca di un numero smisurato di processi.
I CICLI PRODOTTI DALL’OMEOSTASI
L’omeostasi implica che si generino continuamente dei percorsi di ritorno all’equilibrio ogni volta che il sistema è stato spostato da tale equilibrio a causa di una perturbazione esterna. Assistiamo dunque ad incessanti viaggi che il sistema compie nel suo spazio delle fasi (la mappa, per così dire, dei possibili stati in cui il sistema si può trovare). Questi viaggi possono presentarsi come una serie di percorsi chiusi5 ogni volta diversi,6 interpretabili come una serie di anelli.7 In tal caso potremmo dire che ognuno di questi anelli consiste in una ripetizione caratterizzata da una certa specifica differenza, consistente nel particolare percorso di ciascun anello.
Quello di cui sto parlando non è un legame formale esatto fra il sussistere di un’omeostasi ed il verificarsi di cicli. Ciò che mi interessa notare qualitativamente è come il sussistere di un’omeostasi possa dar luogo a fenomeni che visti dall’esterno corrispondono ad una ripetizione di cicli, e dunque ad un’alternanza. Questo modo di intendere l’omeostasi è finalizzato all’interpretazione dell’assimilazione e del gioco nella teoria dello psicologo svizzero Jean Piaget, come vedremo meglio in un post successivo.
I cicli prodotti dall’omeostasi nello spazio delle fasi
2 Antonio Damasio, Hanna Damasio (2016) Exploring the concept of homeostasis and considering its implications for economics, Journal of Economic Behavior & Organization, Volume 126, Part B, 2016, Pages 125-129, ISSN 0167-2681, https://doi.org/10.1016/j.jebo.2015.12.003.
3 L’omeostasi è un idea che si adatta bene all’habitat concettuale idealista. Sembra in grado di far sussistere una stabilità a partire da radici che arrivano umili, molteplici e sfumate da molto, molto lontano. Il luogo dove si perde la loro origine è forse l’inafferrabile cosa in sé?
5 Si può dare il caso in cui i due percorsi si sovrappongano e che dunque sia più opportuno parlare di un oscillazione avanti ed indietro anziché di un percorso chiuso. Ma io sto pensando al caso in cui il sistema sia concreto ed abbastanza complesso da variare continuamente e rendere pressoché impossibile un semplice andare avanti e indietro, che corrisponderebbe al permanere immutate di tutte le altre variabili del sistema a parte quella sottoposta a controllo omeostatico.
6 Dipende ovviamente dal tipo di sistema concreto e dalle variabili che prendiamo in esame.
7 Al fine di evitare confusione, faccio notare che i disegni a forma di anello che si trovano facilmente in connessione al concetto di omeostasi si riferiscono solitamente alle sequenze causali fra i diversi elementi del sistema, e non ai percorsi seguiti dal sistema nello spazio delle fasi, che è ciò di cui sto parlando in questo articolo.
Nel novembre 2017 ho pubblicato un libro divulgativo sulle sette emozioni di base secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp (1943 – 2017), una delle quali corrisponde appunto al gioco. Da lì ho deciso di intraprendere una ricerca interdisciplinare sul modo in cui viene teorizzato il gioco. Dopo aver letto una serie di articoli appartenenti ad aree di studio molto differenti fra loro, penso di poter dire che vi sono due poli principali attorno ai quali si muove la teorizzazione del gioco. Uno di questi due poli è il gioco di lotta, diffuso in molti mammiferi fra cui l’uomo, ed esemplificabile facilmente con i cuccioli dei cani che si rincorrono e lottano alternandosi nei ruoli di sottomissione e dominanza. È essenzialmente questo il gioco a cui si riferisce la teoria dei sistemi emotivi di Panksepp. L’altro polo fondamentale degli studi sul gioco è il cosiddetto gioco di fantasia (in inglese pretend play). Uno studioso importante di questo soggetto è il russo Lev Vygotskij (1896 – 1934). Nel solco della tradizione psicologica che ha in Vygotskij il proprio riferimento (1) troviamo Daniil Elkonin (1904 – 1984), il quale ha sviluppato una descrizione del gioco di fantasia basata su quattro distinti livelli. Due studiose di area russa (E.O. Smirnova e O.V. Gudareva) hanno pubblicato nel 2015 un articolo in cui si impiegava questa distinzione in quattro livelli per valutare il grado di sviluppo del gioco di fantasia nei bambini in età prescolare (2). Lo scopo dell’articolo era comparare tale grado di sviluppo fra i bambini di oggi e quelli di alcuni decenni addietro. Il risultato è che al giorno d’oggi il livello di gioco di questi bambini appare meno sviluppato che in passato: “Dunque, sulla base dei risultati dell’osservazione, possiamo affermare che il livello di sviluppo del gioco tra i bambini in età prescolare è oggi molto inferiore rispetto ai loro omologhi a metà del secolo scorso. Solo alcuni bambini raggiungono una forma di gioco sviluppato (livello 4), soprattutto dopo i sei anni di età, dunque verso la fine del periodo prescolare. Questi dati sono essenzialmente in linea col punto di vista degli insegnanti degli asili nido e conferma il declino nelle attività di gioco dei bambini” (2, p.13).
Qui di seguito riporto una breve descrizione dei livelli di gioco basata sull’articolo di Smirnova e Gudareva.
LIVELLO 1 – Si usano soltanto giocattoli realistici. Vi sono delle sequenze, ma sono prive di una struttura fissa. I ruoli non sono predeterminati ma derivano dagli oggetti impiegati o dall’azione intrapresa. I bambini giocano da soli o vicini, senza che si creino gruppi ben definiti.
LIVELLO 2 – Le sequenze riproducono quelle delle azioni della vita quotidiana. Vi sono parole che indicano i ruoli, ma questi non sono ancora oggetto di discussione esplicita. Non vi sono ancora regole esplicite. I giocattoli non sono ancora scelti in anticipo. Iniziano le interazioni che originano gruppi piccoli e di durata limitata.
LIVELLO 3 – Il gioco consiste essenzialmente nel performare dei ruoli individuati già prima che il gioco cominci. I ruoli determinano le sequenze di comportamento, ed il bambino protesta se il comportamento non è conforme al ruolo. Emergono delle regole che vengono rispettate, anche rinunciando alla soddisfazione di altri desideri spontanei. I giochi sono scelti in anticipo. La narrativa si fa più complessa ed aumenta la durata del gioco.
LIVELLO 4 – Il focus del gioco si sposta sulle relazioni fra i ruoli, che sono definiti esplicitamente prima del gioco. Emerge una fase preparatoria. I gruppi divengono più durevoli.
P.S.
In Piaget si trovano dei riferimenti che potrebbero essere messi in connessione con questi 4 livelli del gioco. Si veda ad esempio questa osservazione: “Per quanto riguarda il simbolismo collettivo, limitiamoci a notare la maniera in cui J. ed L., continuando, a partire dai sette-otto anni, la loro collaborazione diventata sistematica (e non più episodica come al livello precedente) nei giochi di bambole e famiglia, sono giunte ad organizzare continuamente, per loro stesse e per T. (poi con T.), delle specie di “commedie” o rappresentazioni teatrali. All’inizio tutto era improvvisato e la commedia non consisteva che in un gioco simbolico collettivo con spettatori. Successivamente il soggetto veniva posto prima e discusso per grandi linee (a volte persino con preparazione dettagliata del principio), ma, una volta rappresentata la parte preparata, restava sempre un margine assai largo di sviluppi improvvisati. La fine, in particolare, non era mai prevista in una forma conclusiva.” (3)
(1) D.B. ELKONIN (2005) THE PSYCHOLOGY OF PLAY, Journal of Russian & East European Psychology, 43:1, 11-21, DOI: 10.1080/10610405.2005.11059245
(2) E.O. Smirnova & O.V. Gudareva (2015) Play and Intentionality Among Today’s Preschoolers, Journal of Russian & East European Psychology, 52:4, 1-20, DOI: 10.1080/10610405.2015.1184891
(3) Jean Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione. La Nuova Italia, 1999, p. 204.
Riporto qui di seguito la concezione di idealismo e realismo da me impiegata nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche”. Detto in estrema sintesi, l’idealismo mette in luce il nostro ruolo di attori costitutivi del mondo, e si pone quindi come una piattaforma concettuale adatta per approcciare la dimensione emotiva, evitando il rischio di appiattire la nostra concezione delle emozioni al solo piano delle cose materiali.
“L’opposizione fra realismo ed idealismo è vecchia di secoli, e non saremo noi qui in questa sede a venirne a capo, nondimeno è utile ai nostri scopi proporne un approccio semplice. Se io (realista) dico che c’è una realtà là fuori, subito tu (idealista) puoi farmi notare che c’è stato bisogno di un soggetto perché la mia affermazione potesse essere concepita, ma io (realista) posso risponderti che tale soggetto aveva bisogno di un sostegno materiale, ad esempio di un corpo con un sistema nervoso e poi tu (idealista) puoi di nuovo farmi notare che tutto questo discorso è creazione interna ad un soggetto.
È abbastanza facile vedere che queste due mosse possono essere concatenate una sull’altra a formare un battibecco illimitato. Un punto di equilibrio sano potrebbe consistere in una cornice di riferimento idealista che ospita al suo interno un realistico riconoscimento delle parti solide del mondo (in questo modo la percezione della solidità della realtà prevale sul suo trovarsi fuori o dentro). Siamo dunque idealisti nel considerare il mondo come una creazione del soggetto, e siamo realisti nel riconoscere le parti solide del mondo, che dobbiamo accettare così come sono e non rispondono al nostro desiderio immediato. Ad esempio io posso prendere la decisione di uscire di casa, ma riconosco realisticamente che la decisione di vedere la tastiera rossa anziché nera non sta nelle mie possibilità. Siamo idealisti, di nuovo, nell’assumere il punto di vista per cui il mondo è creato dall’uomo, più precisamente dal lavoro dell’uomo, dove tale lavoro si pone in tanti modi qualitativamente differenti, dal costruire un muro di mattoni allo scrivere un software, dal prendere decisioni politiche allo scrivere libri, dall’alzare un braccio al produrre la percezione per mezzo del sistema nervoso.
Le emozioni così come le abbiamo descritte hanno sia una parte solida, non modificabile, sia una parte che è raggiungibile dal lavoro dell’uomo. Noi non possiamo cambiare la radice biologica delle nostre emozioni, non possiamo alterare la loro collocazione anatomica, e non possiamo interferire direttamente coi processi chimici dei neurotrasmettitori. Possiamo però elaborare nuove prese cognitive per le situazioni che originano le emozioni. Possiamo costruire idee nuove per vivere equilibri emotivi diversi.
Noi non possiamo interferire con l’origine sotterranea del flusso emotivo, ma possiamo portare la nostra accoglienza consapevole sempre più vicina alla sorgente di questo flusso, pur senza mai toccarla. È proprio per favorire tale atteggiamento che troviamo adeguata una sensibilità idealista. Una concezione soltanto realista rischierebbe infatti di concepire le emozioni come un qualcosa di troppo fisso e predefinito, impedendo al senso interno di allenarsi a cogliere le sorgenti del vissuto.
La scienza vede il pensiero come una creazione del sistema nervoso, e questo corrisponde all’osservazione idealista che per dire qualsiasi cosa sul mondo serve un soggetto. Inoltre, in accordo con un approccio idealista come lo abbiamo descritto qui sopra, la scienza più recente pone un accento significativo sul fatto che il mondo è costruito dal nostro agire. Ad esempio, le qualità specifiche della vista non sono intrinseche al segnale che gli occhi mandano al cervello (né tantomeno a ciò che sta là fuori), ma dipendono da come i segnali dell’occhio cambiano in base al movimento dell’occhio stesso e dell’intero corpo. La qualità intrinseca del vedere dipende da come cambia l’informazione proveniente dagli occhi al cambiare dell’impulso motorio. Noi creiamo il vedere per mezzo del nostro agire, dove il nostro agire include l’attività del sistema nervoso.1
La posizione di riferimento che abbiamo scelto è idealista, ma c’è qualcosa di più fondamentale che decidere se vogliamo vivere la nostra vita sotto il titolo dell’idealismo o sotto quello del realismo. Questa cosa più fondamentale è l’accento posto sulle possibilità per l’uomo di costruirsi il mondo con il proprio lavoro, incluso il lavoro su sé stesso. È in tale ottica che continuiamo il nostro ragionamento con alcune osservazioni sulla percezione, con particolare riferimento a quella visiva.”
1“…l’esperienza percettuale non è un evento interno o uno stato del cervello ma un’abile attività costituita in parte dalla conoscenza pratica (da parte di chi percepisce) del modo in cui la stimolazione sensoriale varia col movimento. Sensi differenti hanno diversi schemi di dipendenza sensomotoria, e chi percepisce ha una profonda ed implicita competenza di tali differenze. Nella visione, per esempio, quando l’occhio ruota, la stimolazione sensoriale della retina slitta e si deforma in un modo preciso, determinato dall’ampiezza del movimento dell’occhio, dalla forma sferica della retina, dalla densità variabile dei fotorecettori della retina dalla fovea alla parafovea, e via dicendo. Quando il corpo si muove in avanti, lo schema del flusso ottico della retina si espande, quando il corpo si muove indietro, si contrae. Quando gli occhi si chiudono durante i battiti delle ciglia, la stimolazione diviene uniforme (l’immagine retinale si svuota). Queste dipendenze sensomotorie sono distintivamente visuali, là dove quelle caratteristiche dell’udito e del tatto hanno strutture differenti.”
Evan Thompson, Mind in Life. Biology, phenomenology, and the sciences of mind, (Cambride: The Belknap Press of Harvard University Press, 2010), 254.
Per approfondire il tema si può fare ricerca su questa parola chiave: ‘sensorimotor contingency theory’.
Breve introduzione alla visione psicologica delle neuroscienze affettive.
Questo schizzo è una mia interpretazione semplificata della visione psicologica di Jaak Panksepp. Vi sono sette emozioni fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde una struttura biologica sottostante, delle strutture nervose e dei sistemi di interazione chimica. Non si tratta soltanto di costrutti di natura sociale.
Di queste strutture emotive, la piú antica e profonda è quella che in inglese si chiama SEEKING. Noi abbiamo scelto di indicarla con l’espressione italiana “voglia di fare”. Questo sistema emotivo è in stretta correlazione con il livello di attività generale dell’organismo. Quando il SEEKING/voglia di fare si trova in uno stato di patologica sovreccitazione, si è in presenza di una fase di mania. Quando, all’opposto, il SEEKING/voglia di fare è in uno stato cronico di bassa attività, allora si è in presenza di una fase depressiva.
I sistemi emotivi della paura, della rabbia, e della pena della solitudine hanno una valenza negativa, e la loro tendenza generale è quella di deprimere le attività del SEEKING/voglia di fare. In particolare, secondo Panksepp, è la pena della solitudine (in inglese GRIEF) che con la sua azione protratta può condurre all’instaurarsi di fenomeni depressivi.
I sistemi emotivi che hanno una valenza positiva sono invece l’eccitazione sessuale, la cura, ed il gioco. Quando si parla di gioco nell’ambito della teoria di Panksepp bisogna ricordare che ci si riferisce essenzialmente agli episodi di gioco di lotta che sono comuni a molti mammiferi, uomo incluso.
Caratteristico della visione di Panksepp è che la pena della solitudine, la cura ed il gioco siano il sostrato emotivo grazie al quale è possibile la concretizzazione di formazioni sociali nei mammiferi. Questo implica che la socialità umana non sia il frutto specifico della razionalità verbale, la quale riuscirebbe finalmente a porre ordine nel disordine degli istinti e delle passioni. Piuttosto la radice della socialità viene a trovarsi ad un livello pre-verbale e biologico. Ed in questo noi vediamo una nota di ottimismo per il futuro del nostro essere sociali.
Naturalmente questo breve post e questo schema costituiscono soltanto un approccio super-semplificato alla visione psicologica proposta da Jaak Panksepp. Per un primo approfondimento vi invito a leggere il libro “Le emozioni di base secondo Panksepp” che ho pubblicato nel 2017, e nel quale colgo l’occasione per aggiungere alcune osservazioni di natura filosofica all’impostazione sviluppata da Panksepp.
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Nella prima parte di questo articolo esporremo i concetti fondamentali della teoria delle emozioni elaborata da Klaus Scherer: il modello processuale componenziale (in inglese Component Process Model, abbreviato nella sigla CPM). Successivamente svilupperemo alcune considerazioni relative agli spunti che si possono trarre da questa teoria dal punto di vista della crescita personale. Nella terza parte proveremo a indicare somiglianze e differenze fra il pensiero di Scherer e la visione sviluppata da Jaak Panksepp, fondatore delle neuroscienze affettive, alla cui opera ho recentemente dedicato un libro divulgativo.
La teoria di Scherer
Il modello di Scherer si chiama componenziale perché non concepisce le emozioni come entità elementari, bensì come dinamiche emergenti da un sistema complesso costituito da molte componenti. La componente più caratteristica della concezione di Scherer è il processo di valutazione (in inglese appraisal) delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno. Il processo di valutazione è analizzato da Scherer in grande dettaglio ed implica ad esempio il riconoscimento dell’importanza di un evento, della sua piacevolezza, del suo grado di novità rispetto alle nostre aspettative sul mondo, del fatto che ostacoli o favorisca i nostri obiettivi, della possibile presenza di qualcuno che lo governi, della nostra possibilità di gestirlo, del suo significato nell’ambito del nostro sistema di valori. Tipico e distintivo dell’impostazione di Scherer è che venga individuata la sequenza secondo cui tali valutazioni avvengono.
Le situazioni sperimentali che Scherer passa in rivista includono spesso delle persone che giocano con videogames, grazie ai quali è possibile creare un contesto dotato di obiettivi da raggiungere. Un’altra situazione tipica prevede la presentazione di immagini di natura piacevole o spiacevole. Gli esperimenti più interessanti sono quelli in cui è stato possibile rilevare la sequenza degli atti di valutazione, sia registrando i movimenti dei muscoli facciali, sia rilevando l’attività cerebrale per mezzo di un elettroencefalogramma. Complessivamente emerge che la valutazione della novità precede quella della piacevolezza, la quale si sovrappone al riconoscimento della rilevanza agli obiettivi1. Successivamente avviene la valutazione di come l’evento si posiziona sull’asse ostacolo-facilitazione (grado di facilitazione), la quale probabilmente implica un’attività cerebrale piú prossima alla sfera della coscienza. Le prime tre valutazioni avvengono nell’arco di 200 millisecondi a partire dall’evento, mentre il grado di facilitazione viene valutato in un intervallo compreso tra i 500 e gli 800 millisecondi a partire dall’evento2. Siamo lontani dall’avere una piena descrizione del processo delle emozioni umane, nondimeno i risultati appena descritti danno supporto all’idea che vi sia un ordinamento preciso delle fasi di riconoscimento.
Altri esperimenti mostrano che gli ostacoli generano uno stato di maggiore attivazione (riscontrabile ad esempio nel battito cardiaco) rispetto alle facilitazioni. Il grado di piacevolezza o spiacevolezza invece non influenza l’energia complessiva ma la sua distribuzione. Sia la valutazione del grado di piacevolezza-spiacevolezza che quella del grado di facilitazione è collegato, nell’ambito dei muscoli facciali, all’attività del muscolo corrugatore del sopracciglio e di quello zigomatico3.
Un importante risultato della grande mole di ricerche condotte da Scherer è costituito da alcune tabelle secondo cui, ad esempio, ad uno stimolo valutato piacevole si accompagnano manifestazioni quali: “accelerazione del battito cardiaco, salivazione, dilatazione delle pupille, palpebra alzate, bocca e narici aperte, labbra separate con le estremità curve verso l’alto, sguardo diretto, espansione delle fauci e delle faringi, accorciamento e rilassamento del tratto vocale (‘voce ampia’, con aumento dell’energia alle basse frequenze, diminuzione della frequenza F1, leggero ampliamento della banda F1), movimenti centripeti di mani e braccia, postura espansiva, movimenti di approccio.”4
Oltre al processo di valutazione vi sono altre componenti fondamentali che fanno parte del sistema definito da Scherer. Queste sono: una componente che riguarda il sistema nervoso autonomo (ad esempio la circolazione sanguigna e la respirazione); le tendenze d’azione; una componente espressivo motoria che include i muscoli facciali, le modalità vocali e le posture del corpo; la sensazione soggettiva delle emozioni.
Gli elementi del sistema di Scherer si influenzano a vicenda e la loro interazione avviene in modo continuo, con aggiustamenti di equilibrio in base ai cambiamenti della circostanza esterna e del sistema interno. Scherer ritiene così che si possa costruire un modello in grado di rendere conto della complessità con cui avvengono le emozioni. Queste ultime sono concepite da Scherer come episodi ben circoscritti che hanno luogo a seguito del riconoscimento (da parte del processo di valutazione) di certi eventi nell’ambiente circostante.
Agli eventi emotivi corrispondono precise dinamiche del sistema componenziale. Questi decorsi caratteristici del sistema vengono chiamati attrattori, termine che proviene dalla teoria dei sistemi non lineari. Esso indica le famiglie di comportamenti tipici in cui un sistema complesso tende a ricadere, come se ne fosse attratto. La visione componenziale così descritta implica la possibilità che emerga una varietà indefinita di emozioni, fra le quali ve ne sono però alcune più ricorrenti che Scherer chiama emozioni modali5, quali ad esempio rabbia e paura.
Leggendo alcuni passi di Scherer ed osservando gli schemi esplicativi del CPM si potrebbe avere l’impressione di un’organizzazione molto complessa ed esigente in termini di riflessione, a fronte di fenomeni emotivi che possono essere molto rapidi. I processi di cui parla Scherer però, avvengono solo in parte ridotta nella sfera cosciente. Si parla di valutazione, ma questo non implica necessariamente una sequenza di proposizioni esplicite formulate a livello cosciente. Possiamo comprenderlo meglio pensando, ad esempio, alla valutazione istintiva di un peso, o a quella dello spazio che ci serve per sorpassare con l’auto prima che arrivi qualcuno dal lato opposto.
Nei suoi scritti Scherer fornisce anche un’interpretazione delle principali alternative alla sua concezione teorica delle emozioni, la quale fa parte della famiglia delle teorie dell’appraisal. Egli si esprime a volte in modo critico rispetto a chi sostiene l’idea delle emozioni di base. Ciò che però ha di mira quando critica tale posizione è il fatto che si concepiscano le emozioni come programmi rigidi e predefiniti.6 Nel parlare di emozioni di base Scherer si riferisce principalmente a Paul Ekman e Carroll Izard, ed egli stesso nota come, nel momento in cui le emozioni di base vengano concepite in modo flessibile, non vi sia più un contrasto netto col modello componenziale7. Tale flessibilità significa anzitutto che…
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1La rilevanza in riferimento agli obiettivi (in inglese Goal Relevance), è una parte di ciò che è chiamato semplicemente rilevanza, di cui fanno parte anche il riconoscimento della novità e della piacevolezza. Risponde alla domanda: “L’evento ha conseguenze per i miei bisogni o per i miei obiettivi?” (in inglese: “Does the event have consequences for my needs or goals?”). Cf Scherer 2009a, p. 1310
3Nel testo che abbiamo consultato non è specificato se si tratti del muscolo zigomatico maggiore o di quello minore. Presumibilmente la differenza non è rilevante.
5“I also suggested the existence of certain modal outcomes that occur more frequently due to event contingencies and psychobiological prewiring.” Scherer 2009a, p. 1316
6“…there is no emergent pattern but the relatively rigid execution of a programme.” Scherer 2009b, p. 3460
Il concetto di intelligenza emotiva é diventato famoso col libro omonimo di Daniel Goleman, scritto nel 1995. Sul nostro sito é disponibile un articolo in cui proponiamo un riassunto sintetico dei concetti principali esposti nel libro di Goleman. In questo post invece, cercheremo di capire il fondamento scientifico del concetto di intelligenza emotiva, appoggiandoci in particolare ad un lavoro di Adrian Furnham.2
UN CAMPO DI APPLICAZIONE DELL’INTELLIGENZA GENERALE
Per mettere a fuoco il nodo concettuale dell’intelligenza emotiva può essere utile costruirci un esempio. Se fin da piccoli siete sempre stati appassionati di automobili e avete colto tutte le occasioni per impararne qualcosa, probabilmente ora le conoscerete molto bene, e potremo dire che avete una grande intelligenza automobilistica. Non per questo però sarà lecito ritenere che l’intelligenza automobilistica sia una struttura profonda del pensiero, con una natura ben distinta da quella dell’intelligenza generale. Al contrario, sembrerà più opportuno concepire lo sviluppo della vostra intelligenza automobilistica come una conseguenza del vostro livello di intelligenza generale e della continua frequentazione del mondo delle automobili. Le cose stanno in modo simile per quanto riguarda il caso dell’intelligenza emotiva, che non sembra essere tanto un tipo specifico di intelligenza, quanto il risultato di un’intelligenza generale applicata al mondo delle dinamiche emotive.
Il concetto di intelligenza generale si sviluppa nella moderna psicologia a partire dall’osservazione di Charles Spearman per cui i risultati scolastici nelle differenti materie sono collegati fra di loro, nel senso che di solito gli studenti ottengono risultati di un livello simile in tutte le materie, piuttosto che risultati di livello molto differente da una materia all’altra. Da ciò nasce l’ipotesi che vi sia un fattore generale di intelligenza al quale sono collegate tutte le prestazioni cognitive nei diversi campi del sapere.
Ciò di cui stiamo parlando è il quoziente di intelligenza che si misura normalmente nei test psicometrici. La rilevazione statistica di questa intelligenza generale non implica che se ne conosca la natura biologica, non ci dice se essa dipenda per esempio dal numero di neuroni, da quanto gli assoni dei neuroni sono intrecciati o da quanto frequentemente si attivino.3 Ciò che viene misurato è un’abilità largamente a valle delle strutture biologiche fondamentali da cui si origina, e che nondimeno presenta un significativo carattere di generalità.
MISURARE L’INTELLIGENZA EMOTIVA
Fra i campi di applicazione degli studi sull’intelligenza emotiva vi sono il mondo del lavoro, dell’educazione, della salute. L’obiettivo di molti studi è quello di stabilire una correlazione fra le misure di intelligenza emotiva ed i risultati raggiunti da lavoratori, dirigenti, studenti, insegnanti, medici, etc. Nel prendere in considerazione il modo in cui viene definita e misurata l’intelligenza emotiva notiamo che vi sono tanti autori che se ne occupano, molti dei quali propongono una descrizione differente. Il tratto comune alle varie definizioni è l’abilità di riconoscere e regolare le emozioni sia in sé stessi che nell’ambito delle relazioni interpersonali.
Al di lá del modo in cui si definisce l’intelligenza emotiva, le misurazioni che se ne possono fare sono di due tipi fondamentali, il primo dei quali consiste nell’utilizzo di report composti di domande che chiedono al soggetto di autovalutarsi. Il vantaggio di tali questionari è la possibilità di interrogare direttamente gli aspetti qualitativi del vissuto personale. Lo svantaggio è che i soggetti possono alterare deliberatamente o inconsciamente le risposte, ad esempio per dare una migliore immagine di sé.x
L’altro metodo per misurare l’intelligenza emotiva consiste nel sottoporre i soggetti a dei test di abilità che non implicano i problemi collegati all’autovalutazione. Ad esempio, si mostra ai soggetti un’espressione facciale e gli si chiede di indicare a che emozione corrisponde. Si può chiedere anche di connettere le emozioni più adeguate a certi dipinti, fotografie, registrazioni vocali o descrizioni di situazione. Un’altra possibilità è verificare la capacità di individuare come si trasforma un’emozione a seguito di un’intensificazione.4
Furnham ha sviluppato insieme a K.V. Petrides un questionario per la misurazione dell’intelligenza emotiva che prende il nome di TEIQue.5 Nel 2016 Annamaria di Fabio ha pubblicato un articolo che si occupava di esaminare la validità della versione italiana di tale questionario su di un campione di 1154 giovani adulti italiani.6 Nel corso di questa ricerca è emersa una buona corrispondenza fra il questionario TEIQue ed un altro questionario molto popolare, quello sviluppato da Reuven Bar-on. Risulta invece bassa la correlazione fra il questionario TEIQue ed il test di abilità di Mayer, Caruso e Salovey (uno dei più importanti), ad indicare che le due procedure misurano qualcosa di diverso. La correlazione del TEIQue con il modello dei cinque fattori è moderatamente positiva: l’intelligenza emotiva da esso misurata “si sovrappone ad alcuni aspetti della personalità, ma è configurata come un costrutto distinto.”
ALCUNE CONCLUSIONI
Nel 1983 Gardner propose l’ipotesi che vi fossero 7 tipi fondamentali di intelligenza distinti uno dall’altro.7 Tale ipotesi si poneva come alternativa al fatto che vi fosse un unico fattore generale di intelligenza, ma in seguito vi sono stati alcuni studi che hanno riaffermato la validitá interpretativa del fattore unico. Il caso dell’intelligenza emotiva è simile a quello delle intelligenze multiple individuate anzitutto da Gardner e successivamente da altri. L’intelligenza emotiva sembra interpretabile meglio come un’applicazione dell’intelligenza generale al campo socio-emotivo, e non come un tipo di intelligenza a sé stante.
Per quanto riguarda la possibilità di stabilire una misurazione sicura e utile dell’intelligenza emotiva, al di là dei problemi specifici dell’autovalutazione, sembra più opportuno attendere che venga accumulata una maggiore mole di dati su cui vengano poi effettuate della meta-analisi di spessore adeguato.
L’intelligenza emotiva si presenta come un fattore parzialmente sovrapposto a ciò che già in precedenza veniva chiamato intelligenza sociale e a ciò che Gardner, ad esempio, indicava come intelligenza interpersonale e intrapersonale. Ciò non toglie che il gruppo di abilità collegate all’intelligenza emotiva abbia una notevole importanza pratica, ed il rinnovato focus di interesse sulle emozioni è da vedere con occhio positivo, anche se al momento gli studi scientifici di questo settore sembrano trascurare la natura delle emozioni fondamentali.
Facendo una ricerca su Google Scholar con la parola chiave “intelligenza emotiva”, ho scaricato una ventina di articoli accademici di cui ho controllato l’abstract e alcune bibliografie. In ció che ho letto non ho trovato riferimento alle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp, che sono un ottimo punto di riferimento per chi vuole comprendere quali siano i sistemi emotivi fondamentali. Sembra che l’attenzione dei lavori sull’intelligenza emotiva si concentri sul problema della misurazione, ma non su quali siano le emozioni di base che andrebbero riconosciute e regolate dai soggetti coinvolti nei test. Si dà per scontato il riferimento alle emozioni tipiche degli studi sulle espressioni facciali, che peró sono differenti da quelle individuate dagli studi di Jaak Panksepp. Per approfondire questo tema si possono leggere questi due articoli: Le emozioni di base secondo Panksepp, oppure Paul Ekman e le emozioni di base.
1 Consiglio ad esempio quella che si trova sul sito tramedoro.eu
2 Adrian Furnham, Emotional Intelligence, (2012 INTECH Open Access Publisher). Ho scelto questo testo per via dell’autorevolezza dell’autore, perché ha contribuito a sviluppare uno dei test di riferimento per l’intelligenza emotiva, e perché tale testo è impostato come una meta-analisi che compara l’esito di approcci differenti al tema dell’intelligenza emotiva.
3 Si tratta di esempi di fantasia, non significativi.
3 Tale problema di misurazione viene meno là dove l’impiego di tali questionari si dimostra in grado di prevedere una variabile concreta quale il rendimento scolastico o la carriera in ambito professionale. Questa capacità previsionale è ciò che hanno di mira i ricercatori e si pone, per così dire, a valle di tutto. Se c’è quella, qualsiasi cosa possa essere accaduta nella mente di chi ha compilato i questionari non è più un’obiezione valida. Se infatti l’obiezione fosse stata valida, sarebbe stato impossibile riscontrare la capacità previsionale. Se c’è vento e devo tirare la freccia, si può giustamente dubitare della mia capacità di colpire il bersaglio. Ma la successiva osservazione di quante volte colpisco il bersaglio non vale di meno a causa di quei dubbi.
4 John D. Mayer, Peter Salovey and David R. Caruso, “Emotional Intelligence. New Ability or Eclectic Traits?,” American Psychologist Vol. 63, No. 6, (2008 September), 503–517. doi: 10.1037/0003-066X.63.6.503
5 Trait Emotional Intelligence Questionnaire. I quindici aspetti su cui si basa sono: adattabilità, assertività, espressione delle emozioni, gestione delle emozioni, percezione delle emozioni, regolazione delle emozioni, impulsività, abilità relazionale, autostima, automotivazione, competenza sociale, gestione dello stress, empatia, felicità, ottimismo.
6 Annamaria Di Fabio, Donald H. Saklofske and Paul F. Tremblay, “Psychometric properties of the Italian trait emotional intelligence questionnaire (I-TEIQue),” Personality and Individual Differences 96, (2016), 198–201. doi: http://dx.doi.org/10.1016/j.paid.2016.03.009.
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