Il matriarcato e la casa delle donne

I cacciatori raccoglitori che praticano forme di accumulazione tendono ad assumere strutture patriarcali gerarchiche.1 Rientrano in questo gruppo di popolazioni quelle dove si riscontrano fenomeni di coltivazione temporanea. Tipicamente queste culture hanno dei miti che dicono più o meno quanto segue: una volta c’era il matriarcato e il potere apparteneva alle donne, poi un giorno gli uomini sono riusciti a rubarglielo, e adesso devono stare molto attenti a tenere le donne sottomesse perché se no queste si riprenderebbero il potere.

Il matriarcato
Il matriarcato

In questo post riporto gli appunti che ho preso da un video sul matriarcato di Chris Knight (il video, in inglese, si trova a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=DrKhQRfKiJ8)

In questi miti è presente spesso una “casa delle donne” in cui solo le donne possono entrare. La casa delle donne era collegata ai misteri della riproduzione e del ciclo mestruale, e se un uomo provava ad entrarvi veniva violentato. O almeno così raccontano questi miti, secondo i quali la presa di potere degli uomini è spesso avvenuta grazie ad un uomo coraggioso che ha scoperto i segreti con cui le donne tenevano in scacco gli uomini (per esempio facendo rumori misteriosi attribuiti agli spiriti). Fu in seguito alla presa di potere degli uomini che la casa delle donne divenne la casa degli uomini.

Nella lezione che ho ascoltato Chris Knight legge alcuni esempi di questi miti, nei quali si riscontrano, accanto alla linea narrativa principale, molte varianti collegate ai flauti magici piuttosto che al sangue mestruale.

Cosa c’è di vero in questi miti? Di certo hanno una funzione giustificatoria delle strutture patriarcali. Le donne sono pericolose, dunque gli uomini devono tenerle sotto controllo con ogni mezzo, inclusi il segreto e la violenza, escludendole dalla gestione del potere. Questo è il messaggio che passa.

Al di là della funzione giustificatoria, c’è una domanda che sorge spontanea: è davvero esistita un’epoca precedente al patriarcato in cui c’era una sorta di matriarcato in cui le donne avevano il potere? Si e no.

Dopo essersi dilungato ad illustrare i miti cui ho accennato, Knight fa riferimento ad alcuni studi che riguardano i cacciatori raccoglitori puri sopravvissuti fino ai giorni nostri. Quelli di origine più antica. Quelli che non coltivano e non accumulano niente. Come i boscimani del Kalahari o altre popolazioni delle foreste pluviali centroafricane. (Ricordiamoci che tutte le popolazioni extra-africane hanno un’origine relativamente tardiva).

In particolare Knight si sofferma su un rito in uso presso gli Mbuti, i pigmei del Congo descritti da Colin Turnbull nel libro “I Pigmei. Il Popolo Della Foresta”. Quando una ragazza aveva la prima mestruazione, questo era per tutta la tribù un evento gioioso. La ragazza si ritirava con alcune amiche più giovani e alcune amiche più anziane in una costruzione dove gli uomini non potevano entrare, e lì una donna adulta insegnava loro i misteri della procreazione. Gli uomini rimanevano fuori, ma sembra che ad un certo punto le ragazze scegliessero uno dei ragazzi, il quale veniva inseguito, catturato e portato nella “casa delle donne”. Qui tutte le ragazze lo “assalivano” per una sorta di iniziazione sessuale. E il tutto avveniva in un’atmosfera di festa.

Sembra dunque che una forma di dominanza femminile sia esistita, ma solo in modo episodico o periodico, senza i caratteri oppressivi che il patriarcato avrebbe poi assunto nei confronti delle donne. La casa delle donne è esistita, ma il suo significato è stato falsificato nei miti che giustificano il patriarcato. Questa è l’ipotesi di lavoro che pare più probabile.

C’è anche altro da aggiungere. Negli esseri umani il periodo mestruale medio è molto prossimo alla durata del ciclo lunare. Quest’ultimo è un fenomeno molto importante per l’organizzazione della vita dei nostri antenati cacciatori raccoglitori. Nelle notti di luna nuova è pericoloso uscire a cacciare, perché nel buio completo si rischia di essere preda dei grandi felini. È più sicuro uscire a cacciare nelle notti di luna piena, mentre nelle notti di luna nuova è possibile che i nostri antenati si stringessero cantando insieme per tenere lontani i grossi predatori con il suono del canto.

In queste società potevano verificarsi dei rituali in cui le donne, in gruppo, prendevano possesso del centro dell’accampamento. Questi rituali femminili si alternavano ad altri rituali in cui gli uomini mettevano in mostra le loro capacità di cacciatori. È possibile che ci fosse un’alternanza fra questi riti femminili e maschili basata sul ciclo lunare. I riti a dominanza femminile avvenivano dunque in coincidenza con la luna nuova, mentre i riti a dominanza maschile coincidevano con la luna piena, quando si poteva cacciare. E tale alternanza avveniva in modo fluido, senza forme gerarchiche rigide e durevoli.

Che considerazioni si possono aggiungere al punto di vista di Chris Knight (un antropologo britannico), che ho fin qui esposto?

Gli equilibri emotivi del matriarcato
Gli equilibri emotivi del matriarcato

Non è facile avere dati certi sulla vita che l’uomo conduceva decine e centinaia di migliaia di anni fa. Quel che si delinea è una società dai valori egualitari dove non si erano ancora manifestate le strutture gerarchiche in cui viviamo oggi. Il mondo dei cacciatori raccoglitori puri (quelli che non attuavano nessuna forma di accumulazione e di agricoltura) non era un paradiso in terra privo di difficoltà, ma sembra che vi regnasse un equilibrio emotivo di qualità superiore al nostro. Non è poco. Anzi, è tantissimo.2

Non è necessario avere la certezza oggettiva che tutte le popolazioni di cacciatori raccoglitori vivessero in una quotidianità libera dall’incombere del futuro, comparabile al paradiso terrestre. Ci basta molto meno. Ci basta sapere che alcune volte, nel corso della storia dell’uomo, si sia verificato un equilibrio stabile per una lunga linea di generazioni nel quale gli uomini abbiano vissuto un contesto emotivo alimentato da amore e gioco, al polo opposto di una dominanza totalizzante e sorda che opprime e controlla più di quanto sarebbe necessario.3

Una cosa molto, molto interessante è che questo lavoro archeologico/antropologico trova riscontro negli ultimi progressi delle neuroscienze affettive. Queste ultime assegnano un ruolo fondamentale alla cura, alla pena della solitudine ed al gioco considerandole come emozioni di base incluse nella nostra natura biologica. Siamo dunque molto diversi dal lupo di hobbesiana memoria, e ospitiamo dentro di noi degli istinti che promuovono il vivere sociale. Siamo istintivamente aggressivi, è vero, ma altrettanto istintivamente ci prendiamo cura, altrettanto istintivamente sentiamo il bisogno dei nostri simili, altrettanto istintivamente siamo predisposti alla gioia del gioco. Quest’ultima forse non è intrinsecamente di natura sociale, ma trova nell’interazione fra persone uno dei luoghi migliori per esprimersi.

Cosa comporta tutto questo discorso per la nostra vita di tutti i giorni? La conseguenza è che si rinforza la possibilità di definire e sostenere dei nuovi equilibri emotivi che non siano soltanto un rimedio all’ansia e agli attacchi di rabbia, bensì una promessa di paesaggi sociali più degni di essere vissuti (nello scrivere questa frase mi sto lasciando ispirare da Herbert Marcuse).

Chiudo riportando un passo del nostro libro divulgativo sulle neuroscienze affettive e sulle relative implicazioni filosofiche:

La visione di Panksepp sembra candidarsi come sostitutiva nei confronti di quella di Freud, la quale ha alimentato molte delle riflessioni di quell’importante gruppo di pensatori costituito dalla Scuola di Francoforte. Nella visione di Freud la riflessività era intrinsecamente necessaria al sociale per la sua funzione di freno nei confronti delle pulsioni fondamentali di piacere e di distruzione. Nella visione di Panksepp la riflessività si pone invece come elaborazione complessa di radici che includono in sé il valore sociale primario.

La ragione non pare più porsi come originaria fonte di luce. Assomiglia più alla modulazione di una luce che proviene da un altro luogo e che bisogna farsi carico di conservare, evitando le riflessioni che potrebbero neutralizzarla invano. In tale concezione perde di vigore il pessimismo cosmico implicito nel concetto di dialettica dell’illuminismo sviluppato da Adorno ed Horkheimer, esponenti massimi della Scuola di Francoforte, a metà del novecento.”

Da: “Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche.”

1Tieni presente quanto notava Richard Bulliet nel suo corso di World History alla Columbia University: non è necessario che il fenomeno della proprietà sia emerso anzitutto come proprietà della terra. Potrebbe essersi presentato anzitutto come proprietà degli animali piuttosto che dell’acqua: https://www.youtube.com/watch?v=gE_29Y64frk&t=7s (il titolo del video su youtube fa riferimento all’islam, ma ci deve essere un errore. In questa lezione Bulliet parla delle culture dell’Africa, in particolare del Sahara. È interessante in particolare il riferimento a Nabta Playa.

2Su questo tema vedi anche: Gray, Peter. “Play as a Foundation for Hunter-Gatherer Social Existence.” American Journal of Play 1.4 (2009): 476-522.

3A scanso di equivoci, preciso che noi consideriamo la dominanza come un fenomeno dotato di rivolti sia positivi e negativi. Il nostro sogno nel cassetto non è annullare il fenomeno della dominanza, bensì riformarlo perché si coniughi meglio ad un progetto umanistico che promuova la fioritura dell’uomo. A questo scopo sarebbe desiderabile individuare uno spettro di varianti di dominanza che vanno da quella sorda, totalizzante e ipocrita fino a quella più aperta e minimalista di se stessa.

Donald Winnicott, la psicoanalisi e il verbo più importante del mondo: indicare

Donald Winnicott si occupava dei bambini e del gioco. Presso il grande pubblico era diventato famoso grazie ad una serie di trasmissioni radiofoniche del secondo dopoguerra, nelle quali parlava dell’atteggiamento che la mamma dovrebbe/potrebbe tenere nei confronti del bambino. Winnicott è stato una figura molto importante nella psicoanalisi del novecento. Leggendo un suo libro, Gioco e Realtà,1 ho percepito la presenza di un filo rosso di significato che mi ha attratto particolarmente. Si tratta del modo in cui le persone possono crescere insieme, e proverò a parlarne in quest’articolo, a partire da un’esperienza personale.

Tanti anni fa, insegnavo ai nuovi assunti le operazioni manuali da fare per la produzione di chiusure lampo. Erano persone straniere, che venivano in azienda per fare i lavori di assemblaggio manuale durante i picchi stagionali. Mi mettevo vicino al tavolo del nuovo arrivato e prima di tutto mi dedicavo a sviluppare un linguaggio comune. Gli parlavo dei nomi usati per indicare le diverse parti della chiusura lampo. Poi gli spiegavo in che modo prendere il pezzo da assemblare, come ruotarlo, come posizionarlo rispetto agli altri componenti. Quindi gli chiedevo di provare a fare l’assemblaggio, osservavo il movimento della mano, ed intervenivo a correggere dove necessario. Ricordo ancora la mia curiosità nel constatare il modo diverso in cui le persone rispondevano alle stesse parole. Qualcuno capiva al volo, altri avevano bisogno di provare prima con dei movimenti lenti per poi modificare la torsione della mano, la presa con le dita, oppure il punto di appoggio del pezzo. Come dicevo, molte di queste persone erano extracomunitarie, e spesso parlavano poco l’italiano. Ciononostante, restandogli accanto ed osservandoli riuscivo a sintonizzarmi sul loro processo manuale, e spesso potevo rendere chiaro l’errore semplicemente fermando la persona al momento giusto e indicando col dito il problema. È questo il punto su cui mi interessa concentrarmi ora: l’affiancamento senso-motorio creava una situazione comune fra due persone, e tutto il significato di tale situazione si riversava nel semplice gesto dell’indicare col dito indice. Il collocamento in un contesto concreto poteva rendere molto più ricco e significativo un segno di per sé semplice. Dato quel contesto, il mio dito indice diventava capace di evocare la perfezione di un processo.

Winnicott: il premio dell’attesa

In Winnicott ho trovato un grande acume unito a una preziosa forma di modestia teoretica, che apprezzo molto. Winnicott nota che a volte l’analista prova soddisfazione nel dare al paziente l’interpretazione perfetta, perché così facendo mostra la propria intelligenza. Ma spesso sarebbe meglio attendere, guidando il paziente a trovare da solo l’interpretazione giusta. Winnicott dice che gli è servito molto tempo per imparare ad attendere.
Nel libro Gioco e Realtà Winnicott riporta alcuni resoconti delle sue sedute psicoanalitiche. Lì ci vedi l’uso della parola per curare. Nel corso di queste lunghe sedute si creano delle situazioni mentali che formano il presupposto per la formulazione di interpretazioni adeguate alla soluzione del problema del paziente. Sedendosi e parlando a lungo con l’analista, si creano delle situazioni nelle quali la frase giusta funziona come un dispositivo che convoglia i significati dandogli la possibilità di fluire in un canale nuovo.

A questo punto vorrei provare a dire qualcosa che forse mette insieme i racconti psicoanalitici di Winnicott con quei ricordi sulla fabbrica di chiusure lampo.

Nel corso di una seduta di psicoanalisi si sviluppa una situazione che consente di posizionare le parole in modo particolarmente efficace. La stessa interpretazione fornita a freddo non avrebbe lo stesso impatto, scivolerebbe via senza far presa. Quello che io mi chiedo è se non vi siano altri modi per posizionare le parole al punto giusto dove possano fare presa. E la risposta che mi do è che è necessario condividere una situazione. Così come osservare i movimenti dei lavoratori mi consentiva di usare il dito indice con una particolare significatività, così osservare da vicino il processo giornaliero di un altro uomo potrebbe consentirci di piazzare la parola giusta al momento giusto per notare in che modo le sue abitudini cognitive favoriscano lo sviluppo di dinamiche depressive piuttosto che la degradazione di un rapporto di coppia.

Nel dire questo, mi sto immaginando un paziente che accetti di farsi affiancare da un’analista in tutti i risvolti di un’intera giornata. D’altra parte, ad un certo punto noi vorremmo anche uscire dall’ottica di una relazione analista-paziente, e spostarci a considerare il vivere normale. La dimensione della psicoanalisi è molto utile per tenere ben viva l’idea di quanto sia possibile fare con la parola, ma poi questo modo di fare parola si vorrebbe importarlo nelle proprie relazioni quotidiane, senza lasciarlo confinato al patologico.

Uscendo dal rapporto medico-paziente non vi è più una patologia a recitare, per cosí dire, il ruolo del nemico da sconfiggere, e ci troviamo a coltivare dei risultati di natura più ambigua, perché non sappiamo ancora quali siano.

Eccoci dunque a parlare di Couchsurfing. Couchsurfing è un social network nel quale si ospitano persone e si viene ospitati senza scambio di denaro. Qualcuno è attratto soprattutto dalla possibilità di dormire da qualche parte senza pagare, ma il vero spirito di Couchsurfing mette al primo posto l’atmosfera dell’incontro.

(Prima di Couchsurfing c’era Servas, che è un sistema nato nel secondo dopoguerra per facilitare lo sviluppo di rapporti internazionali, allo scopo di prevenire la guerra. Non c’era internet, e si usavano liste su carta con gli indirizzi. Al centro vi era l’idea di condividere un paio di giorni di vita. Servas esiste ancora, e mi sto informando per iscrivermi.)

Ora, detto molto semplicemente, io mi chiedo se sia possibile impiegare la rete di Couchsurfing per realizzare una condivisione di esperienza come quella descritta sopra. Una condivisione di esperienza per scoprire e per farsi scoprire. Per rendere visibili le forme del nostro vivere, e creare così l’opportunità di indicarle. Perché l’atto dell’indicare riesce a convogliare la coscienza in un luogo circoscritto, che prima di essere indicato era sì presente, ma senza essere percepito come un’unità a sé stante. Come la statua nel blocco di marmo non ancora scolpito.

Adesso proviamo a togliere tutto. Togliamo l’indice che addestra alle chiusure lampo, togliamo la tradizione psicoanalitica cui Donald Winnicott appartiene, e togliamo anche Couchsurfing e Servas. Cosa rimane di tutto questo discorso?

Domanda sbagliata. La domanda giusta è: “Cosa vogliamo che rimanga di tutto questo discorso?”.

Se io sapessi già la soluzione di questo piccolo enigma, allora potrei fare a meno di scriverla, e aspettare che il lettore ci arrivi da solo, così come faceva Winnicott coi suoi pazienti. Ma non è così, noi siamo qui per provarci insieme, e la mia idea non si qualifica come una formula che risolve, bensì come un dispositivo da mettere alla prova. Per vedere dove funziona, e dove invece servono correzioni.

Il centro del nostro discorso stava dunque già nel titolo. Il verbo più importante non è il verbo essere, ma il verbo indicare. Lo facciamo quasi da sempre. A partire da quando riusciamo a ricordarci un collegamento fra due cose che si susseguono, la prima viene ad avere la seconda come significato, e la può dunque indicare.

Il problema nostro (o almeno, il problema di molti occidentali ad inizio 21mo secolo) è che ci troviamo a vivere in un mondo di cose isolate e di concetti costruiti come termini isolati. Il che ci porta a vivere come individui (troppo) separati.

I modi dell’indicare sono un luogo privilegiato per fuggire dalla prigione dei termini separati. È ampliando la base concreta in cui si radica l’indicazione che potremo pronunciare parole evocative, parole che fanno la differenza, parole che trasfigurano.

 

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1 Donald W. Winnicott, Gioco e realtà (Roma: Armando Editore, 1974). Titolo originale: Playing and Reality, London, 1971. Traduzione di Giorgio Adamo e Renata Gaddini.

 

 

 

Ortega Y Gasset: L’uomo e la gente. Società, reificazione e fenomenologia.

Ortega Y Gasset: L'uomo e la gente.

José Ortega y Gasset: L’uomo e la gente.

Ortega apre “L’uomo e la gente”1 sottolineando l’importanza della dimensione sociale e denunciando che la sociologia non è stata in grado di chiarirne la natura.2 Per rimediare a questa mancanza il filosofo spagnolo ripercorre le tappe principali con cui il discorso fenomenologico (si pensi a Husserl e a Heidegger) individua le realtà fondamentali del mondo in cui viviamo, arrivando a definire la società come un’architettura di usi. Nella prima parte dell’articolo proponiamo una nostra sintesi di tale riflessione.

Ortega ritiene che l’uso abbia una natura automatica, meccanica, cosale, e per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno prendere in esame il concetto di uso in relazione alla problematica della reificazione. Di questo tema ci occupiamo nella seconda parte dell’articolo.

Nella terza ed ultima parte introduciamo una metafora specifica per descrivere il pensiero che privilegia la dimensione autentica dell’essere, molto cara ad Ortega. Ne segue una riflessione sulla possibilità di coniugare l’autenticità con la dimensione relazionale.

1.LA SOCIETÀ COME ARCHITETTURA DI USI

I.PROLOGO CON LO SMARTPHONE

Ci sono alcuni brevi episodi che vorrei raccontare a riguardo del mio smartphone, e vedremo al punto successivo come questo ci possa tornare utile per introdurre la visione di Ortega.

Io vivo a Szeged, in Ungheria, e quando torno in Italia devo cambiare la SIM ungherese con quella italiana. Mi propongo sempre di farlo in anticipo, per esempio mentre sono in volo, ed invece finisco regolarmente per aprire il telefono nei momenti più sbagliati: in piedi nel corridoio dell’aereo, in coda ad aspettare il controllo dei documenti, oppure sulla panchina in attesa dell’autobus. Mi capita spesso di appoggiare lo smartphone, la SIM ed il guscio di gomma sulla coscia sollevata a novanta gradi, in equilibrio instabile. E c’è sempre qualcuno che mi osserva chiedendosi se tutto cadrà per terra.

Lo smartphone costa caro, e cercano di rubarlo. L’estate scorsa stavo sdraiato al sole nel parco di Dugonics tér, avevo i pantaloncini corti e non sapevo dove metterlo. Allora me lo sono appoggiato sulla pancia: così ne sentivo il peso e non potevano rubarmelo. Infatti quando il gentiluomo che passava di lì per caso me l’ha preso io sono scattato all’istante, l’ho afferrato per un braccio, e senza dir nulla mi sono ripreso il mio smartphone.

Sul lavoro uso molto lo smartphone per fare fotografie, alle macchine e alle chiusure lampo che produciamo, e mi capita a volte di aprire la cartella delle immagini in presenza degli amati colleghi. Ma devo starci attento, perché nello smartphone ci sono tante fotografie personali che saltano fuori quando non te l’aspetti. Soprattutto quelle delle donne.

II.NATURA DI UNA COSA: NEL BOSCO DELLE STORIE

Il mio smartphone è una cosa. In questo momento lo colgo appena con lo sguardo in un angolo del campo visivo, ma basta questo a sollevare tra i pensieri i ricordi delle storie e delle situazioni che ho appena descritto. Noi accediamo alle cose soprattutto per mezzo delle immagini visive, ma le cose sono fatte di comportamenti e di storie molto più che di immagini. Strutture temporali anziché componenti visive. La visione è insostituibile, ma non come dimensione essenziale, piuttosto come interfaccia d’accesso a una dimensione fatta di storie.

La tradizione fenomenologica dà meno importanza alle superfici visibili e più importanza a tutte le storie alle quali un oggetto può prendere parte. Lo sguardo fenomenologico non rimane incastrato nel visivo,3 ma coglie la dimensione temporale delle cose e del mondo da esse composto. Questo significa che nel vedere uno smartphone si è consapevoli delle storie ad esso collegate. Si è consapevoli delle storie, ricordate o immaginate, di cui lo smartphone è un personaggio.4

Dello smartphone, e più in generale di ogni cosa, in ogni momento noi possiamo vedere solo un lato, e solitamente un numero limitato di dettagli visivi. Possiamo però aver presente anche quello che in quel frangente non percepiamo direttamente. A questo fatto Ortega si riferisce col termine compresenza, preso da Husserl.5

III.LE COSE SONO TANTE, MILIONI DI MILIONI

Il mio smartphone è una cosa, e ci sono tante cose oltre al mio smartphone. Ci sono il netbook, lo zaino, la matita, gli occhiali; c’è Google, c’è gmail, c’è il treno, ci sono i piatti sporchi nel lavandino, c’è la lista di cose da fare sul lavoro. C’è la tessera sanitaria che scade e ci sono tutti i miei libri sulla scrivania. C’è la pianta grassa che sta morendo di sete, c’è l’essenza di eucalipto, ci sono i fiammiferi e le candele. Ognuna di queste cose si porta appresso il suo repertorio di storie, così come fa lo smartphone.

IV.NATURA DEL MONDO: ALICE COLPISCE ANCORA

Il mondo non è una prospettiva tridimensionale nella quale possiamo inscatolare ciò che vediamo. Non è un pavimento di mattonelle, non è un piano dove ci si può spostare di un metro esatto. Il mondo non è una stanza completa di tutto il proprio volume, ma un luogo in cui l’attenzione si concentra in alcuni punti. Il mondo in cui di volta di volta ci troviamo, o circostanza, è l’insieme di tutte le cose e delle loro interconnessioni.6 7 Il modo in cui l’uomo percepisce le cose nel mondo somiglia ad una luce che cerca nella notte piuttosto che ad un paesaggio illuminato a giorno. La luce è l’attenzione che soffermandosi ravviva i percorsi delle storie e provoca la nascita di oggetti e di idee nuove.

Il mondo insegnato dallo sguardo radicale8 non è poi così lontano da quello di Alice nel paese delle meraviglie. È una collezione di oggetti galleggianti. È un vestito di arlecchino inclusivo di una riflessione sulla cucitura delle pezze. Ma nel prenderlo in mano vi accorgete che la cucitura è elastica, provate a tirarla, e vi rendete conto che dentro, nel vestito, si nasconde qualcuno.

V.IMMERSI, TRA OSTACOLI E STRUMENTI, CHE NON CI DANNO RISPOSTA

Ecco dunque che ci troviamo collocati in un mondo fatto di cose. A queste cose non ci poniamo in modo neutro. Esse assumono sempre un ruolo nei nostri confronti, presentandosi come strumenti oppure come ostacoli.9 Noi interagiamo con esse, e da questa interazione nasce il repertorio di storie di cui le cose stesse sono costituite.10

Le cose però non rispondono alla nostra azione, là dove invece gli altri uomini sono in grado di farlo. Questa capacità di risposta è il fatto fondamentale della coesistenza. Noi impariamo a tenerne conto nelle azioni che rivolgiamo verso gli altri, motivo per cui la nostra relazione con loro è qualitativamente differente dalla relazione che abbiamo con le cose. Anche gli animali rispondono alle nostre azioni, ma la loro capacità di risposta è molto più ridotta rispetto agli uomini.11

VI.GLI ALTRI, I QUALI RISPONDONO, DA UN LUOGO NON VISTO

Dal fatto che gli altri danno una risposta alle nostre azioni, noi intuiamo l’esistenza di un pensiero individuale che è all’origine delle loro azioni. Non si tratta di una deduzione razionale, del risultato di una riflessione retrospettiva su ciò che accade con gli altri. Non si tratta soltanto di un fatto culturale che potrebbe anche non avere luogo, a seconda dell’istruzione che si riceve. L’intuizione dell’altro ha radici profonde nelle strutture biologiche dell’essere umano.12

Mentre possiamo gestire le cose materiali in modo diretto, considerandole costituite dalla percezione che ne abbiamo, noi ci rendiamo conto che c’è qualcosa degli altri a cui non possiamo attingere direttamente, ma solo attraverso quel che vediamo del loro comportamento.13 Potremmo dire che questo qualcosa è il loro pensiero, o la loro anima. Gli altri, al contrario delle cose, sono un tipo di realtà che ci trascende,14 che va oltre, nel senso che si posizionano in un luogo difficilmente raggiungibile, e nel senso che l’interazione con loro ci porta ad una profonda trasformazione personale.

VII.AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DELL’ALTRO

La parola che usiamo per rivolgerci all’altra persona che abbiamo di fronte è il pronome tu.15 Per quanto esposto, ci rendiamo conto che il tu arriva quando l’io non si è ancora visto. Il tu è più primitivo dell’io, il quale non è così strettamente necessario come potremmo pensare. Per relazionarci con le cose del mondo è sufficiente avere una percezione delle cose e qualche obiettivo da raggiungere. È soltanto dopo aver iniziato a concepire gli altri come individui che iniziamo a concepire noi stessi in modo simile. Noi formiamo l’io ad immagine e somiglianza del tu.16 17

VIII.GLI USI: ABITUDINI GARANTITE TRA I TU

Nel corso dell’interazione con gli altri riflettiamo sulle situazioni in cui ci veniamo a trovare e prendiamo decisioni su come comportarci, apprendendo molte abitudini al riguardo. Tipico dell’abitudine è passare dalla situazione alla decisione senza eseguire esplicitamente tutti i passi intermedi del ragionamento. Le abitudini verso gli altri possono essere apprese per imitazione, oppure possono essere stabilite da noi personalmente a seguito del ripetersi di situazioni e decisioni simili. Va precisato che anche le abitudini provenienti per imitazione dall’esterno hanno avuto origine in un individuo ben determinato, con un atto creativo che si pone a monte di una catena di trasmissioni interpersonali.

Con il termine uso ci riferiamo a tutte quelle abitudini riguardanti l’interazione con gli altri e garantite da una qualche forma di coercizione esterna.18 L’insieme degli usi, composto per la maggior parte da abitudini provenienti dall’ambiente esterno, costituisce la dimensione sociale, e la società è concepibile come un’architettura di usi. È questo il nocciolo teorico del libro di Ortega.19

IX.USI DEBOLI E FORTI: LA COLAZIONE E LO STATO

Esempi di usi sono il vestire, il mangiare, la lingua, l’opinione pubblica, ed anche i rapporti sociali correnti, fra i quali ad esempio il saluto. Possiamo dire che questi usi sono deboli e diffusi. Sono caratterizzati dal fatto che la loro instaurazione e la loro coazione avvengono lentamente; inoltre l’invito e la coazione non provengono da individui determinati. Per esempio, la coazione avviene “in forma di giudizi sfavorevoli e cose simili”.20

Al gruppo degli usi deboli e diffusi si oppone quello degli usi forti e rigidi, aventi caratteristiche opposte: instaurazione e coazione rapida, ed invito e sanzione provenienti da persone precise. Fra di essi troviamo gli usi economici, il diritto, lo stato.

Tra gli esempi più specifici di uso proposti da Ortega vi sono: il saluto pacifico, inteso come una sorta di set up in occasione dell’incontro fra due individui; il saluto bellico, qualitativamente ben distinto da quello pacifico; l’impiego del cappotto; la colazione.

2.USO E REIFICAZIONE

I.L’INCONSAPEVOLE SOTTO ACCUSA

Ortega pone come umano ciò che facciamo consapevolmente.21 Per contrapposizione è inumano tutto ciò che ha carattere di inconsapevolezza ed al quale si accompagnano l’essere meccanico, abituale, inautentico.22 Nel suo ragionamento il valore positivo (in quanto umano) assegnato al consapevole diventa valore negativo assegnato all’inconsapevole, e confluisce prima nell’uso (in quanto meccanismo inconsapevole), e da qui nel sociale (in quanto architettura di usi). L’individuo si trova così collocato in una società avente dei tratti fondamentalmente ostili a ciò che è più propriamente umano. D’altra parte Ortega stesso riconosce il valore positivo del sociale nel creare uomini e nell’oltrepassare problemi già risolti, dunque attribuire inumanità al sociale pare un appesantimento inutile nella descrizione della situazione umana. Non sembra il caso di partire con un’accusa che rende poi necessaria una riabilitazione.

Vero è che Ortega a tratti sembra dire delle cose che attenuano l’opposizione tra il nucleo individuale autentico ed il paesaggio sociale in cui questo si muove. Resta però il fatto, pesante, che Ortega fa un uso insistente di connotazioni negative atte a dare una grande rilevanza a tale opposizione.23 Lo si vede bene, ad esempio, quando pone l’accento sulla pericolosità e sul lato scuro del fare filosofia, in quanto forma di autenticità opposta al sociale,24 oppure quando mette l’accento sul ruolo della solitudine.25

II.RIABILITAZIONE DELL’ABITUDINE

(…) Questa parte del testo è stata omessa dalla pubblicazione online. Per avere gratuitamente la versione integrale potete scrivermi in messenger o tramite mail.

III.LA REIFICAZIONE CHE CI ABBASSA

Noi abbiamo un modo povero di guardare alle cose, ed è per questo che portare sull’uomo la stessa attitudine di sguardo che abbiamo per le cose provoca un’impoverimento dell’uomo. Lo sguardo fenomenologico nasce invece con una spiccata tendenza ad arricchire il modo in cui intendiamo le cose aggiungendovi spiritualità e senso. Per indicare la tendenza a concepire gli aspetti umani e sociali in modo simile agli oggetti materiali utilizziamo la parola reificazione, derivata dal latino res, che significa cosa.26 Quindi reificazione significa qualcosa di molto simile a cosalizzazione. Lo sguardo radicale tende a ridare vita alle cose rendendole più somiglianti al nucleo vitale dell’uomo, là dove il processo di reificazione fa l’opposto, sottraendo dall’umano tutto ciò che non è assimilabile alle cose, intese come entità sensibili, invarianti, oggettive, scientifiche, indipendenti, facilmente indicabili.27

Lo sguardo radicale rianima le cose alzandole verso l’uomo, mentre la reificazione toglie l’anima all’uomo abbassandolo verso le cose. Da questo punto di vista potremmo anche intendere lo sguardo radicale come una forma di neo-animismo.28 29

IV.UN PONTE VERSO UNA REGIONE

(…)

V.LE STESSE COSE MA IN MODO DIVERSO

(…)

VI.RIMANERE VIVI USANDO

(…)

VII.LA BANDA DISPONIBILE

(…)

3.ANALOGIE COL VISIVO

Abbiamo visto che Ortega accusa gli usi nel nome dell’autenticità Forse si può considerare questa mossa come la manifestazione di una tendenza concettuale più profonda. Mi propongo di fare un po’ di luce sulla natura di questo tema evidenziando alcuni aspetti della dimensione visiva e proponendo una metafora a questi collegata.

I.IL VISIVO ED I SUOI AMICI

(…)

II.RISIKO: REGIONI SEPARATE

(…)

III.METAFORA DEI PASSI E DELLA SUPERFICIE

(…)

IV.L’ESEMPIO DEL SALUTO

(…)

V.PROVIAMO A TOGLIERE LA SUPERFICIE

(…)

VI.LA DIREZIONE DELLA DETERMINAZIONE

(…)

4.CONCLUSIONI

Assumere la parte consapevole di noi stessi come la parte migliore sembra intuitivamente plausibile, ma il modo in cui Ortega procede da questa assunzione ci conduce alla creazione di un dramma esistenziale gratis, consistente nella contrapposizione del nostro nucleo più umano con i tratti più specifici del sociale. Ci ritroviamo con un contrasto diretto tra la valorizzazione del singolo da un lato e gran parte della vita sociale dall’altro, ed è questa una venatura scura a cui vorremmo porre rimedio.

Ortega concepisce la società come architettura di usi, e proprio da questo presupposto si possono cercare nuovi equilibri tra l’individuo ed il sociale. Lasciando inalterata la consapevolezza individuale come polo pregiato, cerchiamo di materializzare al polo opposto il suo nemico in qualcosa d’altro rispetto al sociale, ovverosia nella reificazione, la quale potrebbe avere la sua origine in alcune dinamiche selezioniste intraspecifiche.

Per come abbiamo impostato il nostro discorso l’uso appare come un fatto più circoscritto ed elementare, mentre la reificazione si presenta come una proprietà sistemica. La reificazione è un tratto globale implicante una degradazione della dimensione spirituale, mistica, di interconnessione, relativa a tutti gli abitanti della fauna mentale, là dove invece ciascun uso è un animale specifico di tale fauna.

Il fatto riconosciuto che la relazione con l’altro sia un modo fondamentale di aggiungere ricchezza alla vita umana, questo fatto si pone in opposizione con la dimensione di povertà che è invece il punto di connessione più evidente fra la reificazione e la solitudine, quest’ultima intesa non come condizione pratica ma come difetto strutturale di accesso all’altro.

Per rendere più chiaro un punto critico del ragionamento di Ortega abbiamo introdotto una metafora collegata alla strutturazione del dominio visivo. Per mezzo di tale metafora abbiamo indicato la possibilità di togliere alla riflessività l’obbligo di perseguire costantemente la costituzione di una profondità autentica collocata in direzione opposta alla socialità. Il momento creativo ha certo luogo nella dimensione intraindividuale, ma dovrebbe essere finalizzato anzitutto alla dimensione interindividuale. Data una struttura di usi, non è affatto detto che la direzione unica in cui cercarne una ristrutturazione debba essere l’interiorità privata, questo pare essere un pregiudizio. Che privata sia l’elaborazione va da sé, ma la zona in cui edificare le nuove strutture non sta per forza nel privato.

Nella misura in cui la struttura del visivo dovesse mostrarsi genetica (anche solo circolarmente) rispetto allo stile di determinazione che siamo portati a mettere in atto nella nostra cultura, ed a certi tratti di povertà dello spirito (ipotesi che qui poniamo soltanto), allora la prassi percettiva diventerebbe importante ai fini di una socialità migliorata.

Al di là di questa ipotesi, all’attitudine fenomenologica possiamo chiedere una ristrutturazione degli usi mirata alla realizzazione di un coro vivo, con l’attenzione posta ad evitare le trappole della reificazione e della solitudine, nel segno di una profondità diffusa.30

Szeged – agosto 2016

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N.B. Quello che avete letto é un estratto che include circa la metá dell’articolo originale. Per avere gratuitamente l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger, o tramite mail.

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BIBLIOGRAFIA

Craighero, Laila Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010).

Foucault, Michel, The order of things, (New York: Vintage Books, 1994). Titolo originale: Les Mots et les choses, 1966.

Honneth, Axel, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.

Ortega Y Gasset, José, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.

Panksepp, Jaak, and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

Quine, Willard Van Orman, Word and Object, (Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 1960).

Rawls, John, Una teoria della giustizia, (Milano: Feltrinelli, 1982). Titolo originale: A Theory of Justice, 1971. Traduzione di Ugo Santini.

NOTE

1José Ortega Y Gasset, L’uomo e la gente, (Roma: Armando, 2005). Titolo originale: El Hombre y la Gente, 1967. Traduzione di Lorenzo Infantino.

Nel seguito indicato con l’abbreviazione UG.

2“Si noti che tutte quelle idee (legge, diritto, stato, internazionalismo, collettività, libertà, giustizia sociale, ecc.), quando non lo manifestano già nella propria espressione, coinvolgono sempre, come loro ingrediente essenziale, l’elemento sociale, la società” UG, 30.

“È passato tanto tempo. Ma non dimenticherò mai la sorpresa, mista a vergogna e stupore, che ho provato quando, conscio della mia ignoranza, mi sono indirizzato, pieno di speranza e di illusioni, ai libri di sociologia. Ho scoperto una cosa incredibile: quei libri non dicono nulla di chiaro sul sociale, su ciò che è la società” UG, 30.

3“…sebbene ciò che è visibile ed il vedere si offrano come esempi di maggiore chiarezza per un primo approccio alla nostra teoria, sarebbe un grave errore supporre che la vista sia il “senso” più importante.” UG, 75.

4La presentazione delle cose come entità composte da storie o percorsi è una mia scelta, non presente in UG.

5“… alla presenza effettiva di ciò che è solo parte di una cosa si va unendo automaticamente il resto di essa. Questa porzione non ci è presentata, bensì ci è compresentata e compresente. […] L’idea è dovuta al grande Husserl.” UG, 68.

6Spesso in UG il termine ‘mondo’ è messo sullo stesso piano del termine ‘circostanza’. Cf. ad esempio “Dobbiamo ora studiare la struttura ed il contenuto dell’ambiente, circostanza o mondo in cui siamo chiamati a vivere.” UG, 67.

7Più precisamente Ortega in UG considera il mondo in questo modo: “La struttura del mondo risulta quindi un poco più complicata, poiché di esso abbiamo ora tre piani o termini: in primo luogo, la cosa che c’interessa, poi l’orizzonte sul quale la cosa appare, infine l’al-di-là latente.” e “L’orizzonte è la linea di frontiera tra la porzione evidente del mondo e la sua porzione latente.” UG, 70-71.

8Ortega utilizza spesso l’espressione ‘radicale’ per indicare qualcosa di molto prossimo alla dimensione cui si accede con l’indagine fenomenologica. “Chiamandola ‘realtà radicale’ […] intendo semplicemente dire che è la radice – di qui radicale – di tutte le altre” UG, 50.

Possiamo chiederci se l’essere radicale di un pensiero sia una questione stabilita una volta per tutte oppure soggetta al divenire storico dell’individuo e della società. Il pensiero che Ortega chiama radicale è un pensiero che nell’essere formulato si pone come radice capace di illuminare di comprensione gli altri pensieri che facevamo fino a quel momento. Ma se ci spostiamo di due o tre generazioni in avanti, considerando una certa sedimentazione del pensiero che oggi è radicale, ci troveremo forse ad affrontare una nuova struttura di pensiero consolidato per il quale si proporrà una nuova radicalità. È questo un tema chiaramente legato alla definizione (possibile?) di un limite tra il biologico ed il culturale.

9“La loro localizzazione in prospettiva e in regioni non deve farci dimenticare che al tempo stesso – né prima né dopo, bensì contemporaneamente – le cose sono per noi strumenti o ostacoli per la nostra vita, che il loro essere non è un essere per sé ed in sé , ma consiste solo in un essere per noi.” UG, 79.

10“Il mondo è una selva di faccende o cose importanti, in cui l’essere umano si trova – volente o no – impigliato. L’uomo, lo voglia o no, è destinato a nuotare in questo mare di faccende, delle quali è costretto senza tregua ad occuparsi.” UG, 66.

11In UG il concetto di coesistenza e di risposta è presentato inizialmente in riferimento agli animali: “L’animale mi appare, a differenza della pietra e della pianta, come una cosa che reagisce; in questo senso, come qualcosa che – esistendo anche io per esso – coesiste con me.” UG, 86.

“L’attributo caratteristico e primario di colui che denomino l’altro Uomo è che egli risponde, di fatto o potenzialmente, alla mia azione su di lui. Ciò impone al mio agire di tener conto in anticipo della sua reazione, della reazione dell’altro, la quale a sua volta dovrà tener conto della mia successiva reazione.” UG, 125.

12Cf. “…il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi ma è la chiave fondamentale per percepire gli oggetti che ci circondano e capire le azioni che vengono eseguite dagli altri. È stata una rivoluzione enorme, forse paragonabile a quella copernicana. […] la cosa sconvolgente è che gli stessi neuroni si attivano anche quando l’individuo è perfettamente fermo e semplicemente osserva qualcun altro eseguire la stessa azione con lo stesso scopo. Per i neuroni specchio non vi è differenza se l’azione è eseguita da me o da un altro.” Laila Craighero, Neuroni specchio, (Bologna: il Mulino, 2010), 8.

13“La vita dell’altro infatti non è per me una realtà evidente come lo è la mia: la vita dell’altro, diciamolo pure senza eufemismi, è solo una presunzione o una realtà presunta o pretesa – infinitamente verosimile, probabile, plausibile quanto si vuole – ma non radicalmente, indiscutibilmente, primordialmente ‘realtà’.” UG, 92.

14“La presentazione indiretta o compresenza della vita umana di altri mi conduce e mi pone davanti a qualcosa che trascende la mia vita” UG, 91.

15Più precisamente Ortega riferisce l’uso del pronome tu ad una persona ben identificata. “…il TU non è semplicemente un uomo, ma un uomo unico, inconfondibile.” UG, 102.

16Nel nostro discorso abbiamo posto le cose come anteriori agli altri, ma questa è soltanto una comodità espositiva. Cf. “L’umano precede nella nostra vita l’elemento animale, vegetale, minerale. Vediamo tutto il resto come attraverso le sbarre di una prigione, attraverso il mondo degli uomini fra i quali nasciamo e viviamo.” UG, 99.

Basta pensare alla relazione del bambino con la madre per aver chiara la presenza primitiva dell’altro nella vita di ognuno. Ci sarebbe da discutere di un’eventuale percezione dell’altro nella vita prenatale. Ma non è questo il luogo, e non ne ho le competenze. Accenno però al fatto che la relazione con l’altro si fonda sulle strutture emotive, le quali sono presenti nelle parti più antiche del cervello già nella vita prenatale. Cf. Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

17“Al contrario di ciò che si potrebbe credere, la prima persona è l’ultima ad apparire.” UG, 103.

18“L’altro attributo dell’uso è che noi ci sentiamo costretti ad esercitarlo, a seguirlo. […] Vedremo in seguito che in ciascun tipo di uso la coercizione assume una forma diversa.” UG, 189.

19“Come si vede, gli usi si articolano e si basano gli uni sugli altri, formando una grandiosa architettura. Tale architettura è precisamente la Società.” UG, 185.

20UG, 180.

21“A tal fine, ci conviene mantenere fermo il chiaro concetto che in noi è propriamente umano solo quel che pensiamo, vogliamo, sentiamo ed eseguiamo con il nostro corpo, come soggetti creatori; o ciò che a noi stessi, come tali, accade. Il nostro pensare quindi è umano, solo se pensiamo qualcosa per conto nostro, rendendoci conto di ciò che significa.” UG, 64.

22“La realtà autentica del vivere umano contiene il dovere del frequente ritiro nel fondo solitario di se stessi. Tale ritiro – durante il quale esigiamo che le mere verosimiglianze in cui viviamo, quando non sono semplici inganni o illusioni, ci presentino le loro credenziali di autentica realtà – è ciò che si chiama con un nome di maniera, ridicolo e confusionario, filosofia.” UG, 94.

“[…] è costitutivo degli usi l’aver perso il loro significato; ossia l’essere stati un tempo azioni umane interindividuali ed intelligibili, azioni con un’anima, e l’essersi poi svuotati di senso, l’essersi meccanizzati, automatizzati, come mineralizzati, l’essere ormai senz’anima. Sono stati autentiche ‘vivenze’ umane che dopo, a quanto pare, sono divenute sopravvivenze, esseri umani putrefatti.” UG, 169.

23Cf. “ […] la teoria di Durkheim è beata e la mia è tremenda, ossia mette proprio paura.” UG, 155.

24“La filosofia è ritirata, anabasis, regolamento dei conti, nella spaventosa nudità, davanti a se stessi.” UG, 94.

“La filosofia è quindi critica della vita convenzionale, critica che l’uomo si vede obbligato a fare di tanto in tanto, portando tale vita davanti al tribunale della sua vita autentica, della sua inesorabile solitudine.” UG, 95.

25“Dal profondo della solitudine radicale che è senza dubbio la nostra vita, emergiamo costantemente con un’ansia, non meno radicale, di compagnia.” UG, 58.

26Per una ricognizione storica sul concetto di reificazione (in particolare per una comparazione della concezione di reificazione in Lukács, Heidegger, Dewey) si veda Axel Honneth, Reification: A Recognition-Theoretical View, scritto presentato alla conferenza The Tanner Lectures on Human Values, University of California, Berkeley, Marzo 2005.

27In precedenza avevamo introdotto la capacità di rispondere come la specificità per mezzo della quale l’altro entrava in scena, e potrebbe venire quindi il dubbio che la reificazione, in quanto cosalizzazione, sia da ricondurre ad una mancata percezione (negli altri) della capacità di rispondere. Se è vero che la percezione di questa capacità di rispondere è di sicuro un modo di arricchire l’oggetto della nostra osservazione, è anche vero che la capacità di rispondere di per sé può essere inglobata in una percezione complessiva della situazione molto meccanizzata, oggettivata, reificata appunto. Monodimensionale, per dirlo con Marcuse.

La povertà di spirito collegata alla reificazione è una questione più diffusa e profonda rispetto alla capacità di risposta, che per quanto importante appare più caratterizzata come un’abilità circoscritta.

28Cf. “’Cose’ significa nel linguaggio corrente tutto ciò che ha il suo essere in sé e per sé, che esiste indipendentemente da noi. Ma le componenti del mondo vitale sono tali solo per e nella mia vita, non sono per sé ed in sé. […] l’essere ‘cose’ stricto sensu viene dopo, è secondario ed in ogni caso è molto discutibile.” UG, 67.

29Il tema della reificazione chiama in causa il problema del riduzionismo inteso come impoverimento della concezione dell’uomo. Trovo opportuno precisare che la mia posizione personale è quella di un’identificazione completa tra stato mentale e stato cerebrale, là dove però questo non implica minimamente un’attitudine riduttiva. Lo stato mentale può essere descritto in termini di atomi fisici (in senso lato) così come può essere descritto in termini fenomenologici. Il passaggio da un tipo di descrizione all’altra va visto in termini di traduzione più che di riduzione. Descrivere uno stato mentale in termini di atomi fisici equivale a descrivere un desktop in termini di bit o in termini di pixel. Ma questo è estremamente scomodo, è molto più performante una descrizione in termini di icone, sfondo, barra di stato, puntatore del mouse. Quest’ultima corrisponde ad una descrizione fenomenologica dello stato mentale.

30La solitudine può avere un senso pratico, ma non come destino fondamentale. Questo esperimento è stato già vissuto e vorremmo evitare dolorose ripetizioni. Il profeta della solitudine è stato Nietzsche. Non c’è bisogno di recitare ancora quel ruolo.

La reificazione e la natura del cervello: dalle neuroscienze alle atmosfere

Stanislas Dehaene è un ricercatore a capo del più importante laboratorio francese di neuroimaging. Nel suo libro Coscienza e Cervello (di cui ho pubblicato una sintesi in un altro articolo) parla della relazione fra coscienza ed inconscio, ed ha modo di mettere a fuoco alcuni aspetti del funzionamento del cervello che sono a mio avviso interessanti dal punto di vista della reificazione.

Il cervello descritto da Dehaene non è un luogo di quiete in attesa dell’arrivo degli stimoli, delle perturbazioni dal mondo esterno. Al contrario è in un continuo stato di attività generata autonomamente. Le risposte generate a seguito dagli stimoli esterni costituiscono solo una parte minima dell’attività del cervello:

Di fatto, un’attività organizzata spontanea è onnipresente nel sistema nervoso. Chiunque abbia mai visto un EEG lo sa: i due emisferi generano costantemente una massiccia quantità di onde elettriche ad alta frequenza, che la persona sia sveglia oppure addormentata. Quest’eccitazione spontanea è talmente intensa da dominare il panorama dell’attività cerebrale. In confronto, l’attivazione evocata da uno stimolo esterno è a malapena rilevabile, e affinché questa possa essere osservata, è necessario un notevole lavoro di calcolo delle medie. L’attività evocata dallo stimolo rende conto soltanto di una piccola parte dell’energia totale consumata dal cervello, probabilmente meno del cinque per cento. Il sistema nervoso agisce, in primo luogo, come un meccanismo che genera i suoi stessi schemi di pensiero.”1

Da questa descrizione del cervello vediamo che i pensieri definiti non emergono come un oggetto disegnato su un foglio bianco. Il punto di partenza non è una tabula rasa, ma una nuvola rumorosa, e per passare da questa indefinitezza iniziale alla definitezza di un pensiero cosciente il temporaneo silenzi amento di alcuni neuroni è almeno tanto importante quanto l’attivazione di altri neuroni. L’oggetto posto in uno spazio originariamente vuoto è una sorta di presupposto del nostro ragionare razionale, ma sembra che la natura profonda del cervello prenda più facilmente le mosse da un ribollire diffuso. Lo stato normale del cervello non è una piattezza su cui lo stimolo risalta. Lo stimolo che ha raggiunto la coscienza può essere pensato meglio come un elemento d’ordine che si è propagato con successo in una foresta di processi, anziché come un suono che accade nel silenzio. Per noi uomini adulti e razionali il foglio bianco è la metafora del punto di partenza, ma la selezione, l’architetto che ha creato la nostra mente, sembra avere gusti diversi dai nostri. Sembra che questo architetto preferisca partire da un brusio cui dare ascolto.

Da quanto detto traiamo l’osservazione che la cosalità non è necessariamente il formato migliore per comprendere le dinamiche dei pensieri. Con la parola cosalità ci riferiamo alle caratteristiche degli oggetti materiali. Gli oggetti materiali si pongono come oggetti densi in uno spazio vuoto, ma si tratta di un modo di pensare che non è dato dalla nascita, bensì è una modalità di pensiero che si instaura nel corso dei primi mesi di vita dell’individuo. Prima si ha una situazione in cui si ripresentano situazioni fra loro riconoscibili, ma non assimilabili ad oggetti permanenti.

Gli oggetti materiali sono personaggi indispensabili sul palcoscenico della nostra vita quotidiana, ma vi è anche molto altro, che appartiene alla dimensione più riflessiva, spirituale, emotiva. Quando invece si tende a ridurre ogni fenomeno del mondo riducendolo alle dinamiche degli oggetti materiali, si perde qualcosa della profondità del mondo. Questa polarizzazione della visione del mondo attorno alla natura dell’oggetto materiale, alla cosalità delle cose, la chiamiamo reificazione, dal latino res che significa, appunto, cosa.

Chi scrive ritiene che la reificazione sia un problema della società contemporanea. Vedere che la natura del pensiero cosciente si discosta dal formato degli oggetti materiali dovrebbe aiutarci a svincolarci dal pregiudizio della necessità pervasiva di interpretare tutto riportandolo al piano degli oggetti materiali, favorendo invece una decostruzione della reificazione e la coltivazione di una sensibilità alle atmosfere, alle proprietà sistemiche, alla dimensione olistica e spirituale.

La struttura della corteccia cerebrale e la psicologia dello sviluppo ci parlano di una processualità composita dal quale gli oggetti emergono. L’indefinitezza si pone così come un piano più originario rispetto a quello dell’oggetto ben formato. Questo sapere di natura scientifica si può coniugare con una meditazione che mira a scalzare il dominio del formato di pensiero di un oggetto materiale troppo solido e sicuro di sé, mostrandone le aperture e arrivando a porlo come una possibilità fra le altre.

1Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, 2014, Milano, Raffaello Cortina Editore. Titolo originale: Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Traduzione di Pier Luigi Gaspa. pp. 252-253.

Cicerone: un amico contro l’insonnia

Come ti dicevo, ho ascoltato il video di Wes Cecil su Cicerone, e sono andato a leggermi la lettera sull’amicizia. Potrei dirti che Cicerone il soggetto del suo discorso te lo introduce, te lo indica, te lo annuncia col cappello in mano. Dopo aver fatto un solenne riferimento agli antenati stende il tappeto che conduce alla soglia, e una volta entrato ti invita a sederti mentre lui sta ancora apparecchiando la tavola. Insomma, non è esattamente una sintesi incalzante e non mette la penna nella piaga del concetto. Potresti anche annoiarti dei convenevoli.

Ma se gli dai fiducia, ci trovi qualcosa. Ci trovi la chiarezza che viene dall’aver steso bene tutti gli argomenti come quando hai poca nutella per coprire il pezzo di pane. Ci trovi una visione che emerge con calma, come un minestrone che ha tempo di cuocere. Ci trovi frasi che leggi come un filo d’olio che scorre, ma che poi ti rendi conto hanno detto qualcosa. E te le salvi. Ci trovi, soprattutto, la persona che ti parla. Il tono dell’amicizia. Pensavo che dovresti leggerlo la sera, prima di dormire, perché è un palcoscenico dove gli attori sanno cosa è l’amicizia. È un antidoto al senso di solitudine.

Cicerone, non dimentichiamolo, è una radice indispensabile di ciò che poi si è chiamato umanesimo, di ciò che già al tempo era chiamato humanitas. E sai quanto questi temi mi interessano, anche per il discorso del Romanticismo Positivo. Ma leggendo Cicerone, come già ti dicevo, desidero non condividere ingenuamente l’attitudine verso ciò che significava per lui Roma, che era il punto più alto cui convergevano tutti i suoi valori e gli argomenti. Ai nostri tempi, invece, ogni atto di fiducia e partecipazione sembra aver bisogno di accompagnarsi ad un atto di diffidenza e separazione. Soprattutto in presenza di una classe dirigente che non sa prendersi cura. Lo so, sto solo facendo cenno ad un problema che è più complesso di così. Il punto è che mi interessa recuperare lo sguardo che lui aveva per i suoi pari tentando di importarlo in una situazione di partecipazione politica molto differente. Perché lui sapeva vedere in un uomo la possibilità di un amico, per questo il suo sguardo è così prezioso. Per questo voglio essere guardato da lui.

Herbert Marcuse e l’uomo a una dimensione

Riflessioni sull’avanzata della logica formale

Questo articolo è una riflessione su “L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse.1 L’uomo a una dimensione è un individuo il cui pensiero è reso sistematicamente meno profondo e che è incapace di concepire seriamente un’alternativa all’ordine costituito. Vi sono nel linguaggio degli aspetti formali che hanno una natura distinta dall’essenza del pensiero; tali aspetti formali vengono rinforzati dall’interazione con gli oggetti materiali e dalla competizione intraspecifica. La situazione dell’uomo a una dimensione è vista come il frutto dell’avanzata di queste strutture formali, le quali si realizzano nel sistema tecnologico e scientifico e vengono impiegate dai vertici del potere come strumento di dominio.

Una possibile linea guida da seguire per cambiare questo stato di cose è rendere più visibile l’interiorità del pensiero per mezzo di un vocabolario spirituale adeguato, che al tempo stesso sappia mantenersi in relazione col patrimonio di sapere oggettivo fornito dalla scienza.

(…)

I DISPOSITIVI LINGUISTICI BLOCCANTI

Un vincolo eccessivo sull’aspetto formale del linguaggio può rendere più difficoltoso l’accesso al tessuto delle idee, alla meditazione, allo sviluppo di un pensiero profondo. Marcuse individua alcuni dispositivi linguistici che hanno un effetto simile sul pensiero. Due di essi sono: 1) la concatenazione meccanica di parole e formule descrittive sempre uguali2 3 e 2) la fissazione dei concetti per mezzo di immagini4 5. Entrambi tendono a creare un percorso prestabilito per il pensiero, che resta soddisfatto nel pronunciare la solita frase fatta o nel ricostruire in sé stesso l’immagine citata. La robustezza di questo percorso prestabilito rende improbabile che il pensiero prenda delle vie laterali e si soffermi a riflettere sui modi diversi in cui si può considerare la situazione in esame.

Un altro dispositivo che tende a bloccare l’approfondimento del pensiero è la riduzione dei termini generali a situazioni particolari. Marcuse porta l’esempio della frase “lo stipendio degli operai è troppo basso” che viene ridotta a “lo stipendio di John non gli basta per pagare la bolletta della luce” (Marcuse trae questo esempio da uno studio di sociologia industriale6).

Se nell’analizzare una certa situazione si utilizzano delle frasi o dei termini generali, l’analisi non avrà valore soltanto per quella specifica situazione, ma anche per tutte le altre situazioni riferibili a quei termini generali. Si parla in questo caso di transitività del significato, nel senso che quanto si dice non rimane bloccato al caso specifico che si sta analizzando ma si trasferisce anche su una serie di circostanze differenti, migliorando la conoscenza complessiva del sistema che si sta esaminando.7

Le formule ripetitive, la fissazione di immagini e la riduzione a circostanze particolari sono metodi linguistici che hanno una valenza politica, perché impediscono la costruzione di una critica approfondita dello status quo. Bloccano il pensiero e rendono difficile vedere i fattori storici che stanno dietro i fatti.8

Una volta che il discorso è stato steso in modo da rispettare le regole formali, la logica formale non ha la possibilità di contestare un discorso che fa uso di questi dispositivi. In questo senso la logica formale non è direttamente colpevole, ma è complice del loro utilizzo. Per contestare questi dispositivi linguistici è necessario riferirsi al loro effetto sociale e spostare l’esame ad uno stadio antecedente del ragionamento, non chiedendosi se la frase è stata formata col rispetto dei criteri formali, ma se i termini sono stati scelti nel modo migliore.

L’UOMO A UNA DIMENSIONE

Il mondo del lavoro è fatto di fornitori, clienti, fatture, pagamenti, macchinari, trasporti, materie prime e prodotti finiti. Il mondo della casa è fatto di pranzi, vestiti, docce, sensualità, arredamenti, incontri con gli amici e progetti di coppia. Il mondo della scuola è fatto di lezioni, professori, voti, esami, libri, cancelleria.

Ognuno di noi può vivere in tanti mondi differenti. Ognuno di questi mondi costituisce una dimensione particolare costituita da oggetti, azioni e concetti specifici. Le frasi che uso nel mondo del lavoro difficilmente possono essere usate in una cena romantica. L’esistenza di dimensioni diverse in cui viviamo è collegata all’esistenza di modi di parlare differenti adatti a ciascuna di queste dimensioni.

Ciò che descrive Marcuse è l’avvento di un grande discorso che da solo è in grado di spiegare ogni aspetto della vita e del mondo. È un discorso fondato sulla scienza e gestito, almeno in parte, dai vertici del potere.

L’uomo a una dimensionale è l’uomo che ha un unico modo di pensare con cui può spiegare tutto. È un uomo che vive in un unico discorso. Di per sé avere un unico modo di pensare equivale ad essere coerenti, a saper ricondurre tutto a un unico schema di riferimento, ad avere una profonda comprensione del mondo. In questo senso poter rendere conto del mondo intero con un unico discorso è una cosa positiva. Il problema è che per ottenere questo risultato si sono lasciate perdere delle parti importanti di sé e del mondo.

NON TRASCENDE

L’uomo a una dimensione fatica ad accedere al tessuto delle idee. Le parole sono un grande progresso dell’uomo, ma il modo migliore di usarle è quello di mantenere l’attitudine ad andare dietro di esse. L’atto di staccarsi dalle parole per tornare al pensiero fluido è una forma di trascendenza. La trascendenza è un andare oltre, un cambiamento del modo di vedere.

ALIENATO

L’uomo a una dimensione è alienato. Le parole arricchiscono il pensiero, ma essendo altro dal nocciolo del pensiero possono anche essere usate in modo perverso, senza rispettare la natura più intima dell’essere umano. In questo modo diventano una gabbia. Una gabbia che è disposta attorno al nocciolo e che ci impedisce di accedervi. Il concetto di alienazione nasce per descrivere il senso di estraniamento prodotto nella classe operaia da condizioni di lavoro fisicamente e psicologicamente pesanti. Nel mondo descritto da Marcuse l’alienazione non sparisce grazie al benessere materiale, perché l’uomo è costretto a vivere nella gabbia monodimensionale di un discorso unico che è altro dal nocciolo intimo. È una forma diversa di estraniamento da sé stessi.9

POSITIVISTA E ANTIMETAFISICO

L’uomo a una dimensione è un positivista. Marcuse parla dell’origine storica del positivismo ponendone il primo utilizzo nella scuola di Saint Simon10, e ne descrive i tratti fondamentali come segue: la conoscenza costruita dal pensiero viene convalidata dall’esperienza dei fatti; le scienze fisiche vengono prese a modello di certezza ed esattezza, ed il progresso della conoscenza viene considerato dipendente da tali caratteristiche; la tendenza del positivismo è quella di fermarsi ai fatti e di considerarli come il fattore positivo che promuove la conoscenza.

(…)

LE ALTERNATIVE ADDOMESTICATE

Nel mondo dell’uomo a una dimensione l’arte è diventata una provincia del discorso unico e non è più in grado di essere portatrice di una vera alternativa di vita.11 Gli istinti sono organizzati in modo da potersi esprimere, ma in modi predefiniti che non portino a contestazioni dello status quo.12 Una vera trasgressione non è più possibile.13 È stata annullata la dimensione interiore da cui potrebbe nascere un pensiero che si oppone all’ordine costituito,14 ed una vera opposizione politica è assente.15

La monodimensionalità è una caratteristica che si riscontra in parti diverse della società, sottoforma di disattivazione dei meccanismi che potrebbero portare alla concezione di sistemi sociali alternativi a quello corrente. Il risultato è un mondo in cui tutto è ordinario16, una superficialità felice che non ha bisogno di pensare ad altro ma che è solo apparenza.17

(…)

TECNOLOGIA PER CONTROLLARE

L’epoca contemporanea è caratterizzata dal ruolo fondamentale della tecnologia. Questa è costruita sul sapere scientifico ed è impensabile senza l’uso estensivo della logica formale, matematica inclusa. Marcuse analizza il ruolo dominante delle strutture della logica formale nel mondo a lui contemporaneo. Sono queste strutture che si agganciano in modo coerente fino a comporre il discorso unico della tecnologia e della scienza, il quale rende monodimensionale il mondo.18 19 20 21

In termini odierni potremmo descrivere l’avanzata dei sistemi caratterizzati dall’esattezza formale come una sorta di informatizzazione del mondo, e vediamo che si tratta di una tendenza che non accenna ad indebolirsi. Il problema è che l’uomo dovrebbe essere in grado di usare questi sistemi formali per il proprio progresso, mentre accade il contrario. La struttura tecnologica non è usata per ridurre il tempo di lavoro degli uomini, ma è gestita politicamente per mantenere necessario il lavoro. Questo fatto è indicato da Marcuse come la grande contraddizione insita nella nostra società: abbiamo degli strumenti razionali (quelli della tecnologia) e li usiamo per fini che non sono razionali (mantenere l’uomo schiavo del lavoro).

L’approfondimento del dominio sulla natura e sulla società consente di gestire anche i nostri bisogni, dei quali solo una parte è necessaria, mentre il resto è sviluppato storicamente e socialmente. È creando e promuovendo dei bisogni non necessari che si mantiene l’uomo legato alla necessità di lavorare.22

La strategia di dominio dei vertici politici include la promozione dello sviluppo di una società di uomini monodimensionali, incapaci di elaborare visioni storiche alternative e che non siano consapevoli del funzionamento del sistema e delle dinamiche storiche che lo hanno prodotto.

La competizione fra gruppi umani diversi si risolve nel dominio esercitato da parte di una minoranza organizzata, che fa uso dei sistemi formali come strumento di dominio sul resto della società. Ma il cattivo uso dei sistemi formali non è dovuto alla loro natura intrinseca. Essi non hanno una volontà propria e non agiscono contro l’uomo. Il problema è la competizione intraspecifica tipica della razza umana.

MONODIMENSIONALI OGGI

Che validità ha oggi il pensiero di Marcuse? Gli indici finanziari di cui parlano i telegiornali sono un esempio perfetto di un’interpretazione eccessivamente formale dei fatti che non è in grado di spiegare i fattori del cambiamento sociale e che viene utilizzata in modo politico per far fare alla gente quello che vogliono i massimi vertici del potere. Sui canali di comunicazione principali viene imposta questa interpretazione dei fatti che fa capo al cosiddetto pensiero unico23, il quale può spiegare tutto e non ci fa capire niente.

Poi ci sono i canali di comunicazione secondari che non possono essere gestititi direttamente dai vertici del potere perché sarebbe troppo laborioso. Su di essi non è necessario che venga imposta l’interpretazione desiderata. È sufficiente assicurarsi che ci sia abbastanza confusione da impedire l’emersione di una visione chiara dei fatti.

La visione standard viene sostenuta attivamente sui canali principali e viene protetta dal rumore imposto sui canali secondari.

L’uomo che crede al pensiero unico è l’uomo a una dimensione del giorno d’oggi. La differenza rispetto al mondo di Marcuse è che oggi ognuno di noi ha la possibilità di accedere a molteplici fonti di sapere; questo è un bene, ma la visibilità delle buone alternative è limitata dal proliferare delle alternative false. Per uscire dalla visione standard serve un atto di fantasia, ma la reputazione della fantasia è rovinata dalla presenza di molte alternative inconsistenti. L’uomo che rifiuta il pensiero unico si trova a dover affrontare una situazione di opinioni molto ingarbugliata.

Rispetto al mondo descritto da Marcuse è venuta oggi a mancare la figura del nemico permanente, e con ciò si è capito che il benessere diffuso dei decenni passati era il risultato di una particolare situazione politica e non l’effetto necessario del progresso della tecnologia e dell’incessante miglioramento della produttività. Caduta la paura del sistema sovietico (che era un’alternativa vera, e non soltanto immaginata), oggi non c’è più il bisogno di far contenta la classe media, perché tanto questa non ha più a disposizione un’alternativa vera da votare.24

(…)

LA SCIENZA CHE DEFINISCE I VALORI

Marcuse pronuncia un rifiuto molto netto nei confronti della società in cui vive, senza però indicare chiaramente una via da percorrere.25 Egli è scettico rispetto alla possibilità di un cambiamento verso il meglio, principalmente per via della mancanza di un gruppo sociale in grado di promuovere la contestazione dello status quo. Nondimeno prova ad individuare una possibilità di cambiamento sociale a partire da un cambiamento del ruolo della scienza: questa dovrebbe occuparsi di definire autonomamente i valori, senza farseli imporre dal sistema politico. Marcuse parte dal presupposto che la produzione dei beni debba essere una funzione centralizzata, e si immagina che il compito della scienza sia quello di definire gli output del sistema produttivo.26 In realtà la definizione di questi parametri non appare come un fatto molto significativo. In fondo si tratta soltanto di un calcolo a partire da necessità fisiche individuali ben definite.

Forse oggi è possibile vedere in che modo la scienza si possa porre in modo qualitativamente diverso nei confronti dei valori.

EMOZIONI FONDANTI, NON ISTINTI DA REPRIMERE

I rettili sono caratterizzati da quattro emozioni fondamentali: la paura, la rabbia, l’eccitazione sessuale e una propensione di base alla ricerca e all’azione. Il passo successivo dell’evoluzione sono i mammiferi, che oltre a quelle già esistenti nei rettili hanno tre emozioni nuove: il prendersi cura degli altri, il senso di solitudine ed il gioco. Le nuove emozioni dei mammiferi servono a costruire i sistemi sociali. Le sette emozioni fondamentali sono delle strutture fisicamente presenti nel cervello di tutti i mammiferi e quindi degli esseri umani.

La ragione ed il linguaggio degli esseri umani nascono dalla corteccia cerebrale e rimangono i nostri tratti peculiari, ma un uomo privato della corteccia cerebrale può sopravvivere, mantenendo un comportamento e delle emozioni, là dove, al contrario, un uomo privato delle strutture emotive non può sopravvivere. Questo ci aiuta a capire quanto sono profonde dentro di noi le strutture emotive.2728

Il pensiero di Marcuse, nella tradizione della scuola di Francoforte, prende ispirazione dall’impostazione psicologica di Freud, e vede gli istinti come un elemento che deve essere contrastato dalla società affinché la società possa sopravvivere. Al contrario i sistemi emotivi appena nominati si pongono come elementi fondanti della società, in particolare quelli introdotti dai mammiferi.

La psicologia potrebbe avviarsi ad una ristrutturazione basata sulla definizione dei sistemi emotivi dell’uomo e dell’architettura fondamentale del cervello29. Fornendo una tale descrizione dell’uomo, la scienza potrebbe assumere un ruolo più importante nel discorso sui valori30. Con ció non voglio dire che la scienza possa arrivare a dirci cosa fare, ma che si sta formando una regione di sapere oggettivo potenzialmente adatta a sostenere una tradizione spirituale tesa a favorire l’arricchimento dell’esperienza di vita della persona.

UNA QUESTIONE DI VISIBILITÀ

L’invisibilità del nocciolo più interiore del pensiero ne ha provocato uno svantaggio selezionista a favore degli oggetti materiali, per questo alla scienza chiediamo di renderlo più visibile. Gli oggetti materiali hanno insegnato alla parola come comportarsi, ma le esigenze del nocciolo sono di natura diversa; rendendolo più visibile, le parole potrebbero imparare a dargli un rispetto maggiore. Tale visibilità si può ottenere non soltanto con un’analisi oggettiva delle parti, ma anche costruendo delle linee narrative e rintracciando le migliori metafore per comunicare tale analisi. La consapevolezza della struttura del nocciolo ci serve anzitutto a produrre delle argomentazioni per difenderlo dai nostri errori e dalle influenze esterne negative. Ci serve poi ad utilizzare meglio le potenzialità della nostra mente per comprendere la nostra posizione nella storia, per scegliere i termini più adatti a descrivere i contesti in cui operiamo e per usare la tecnologia senza venirne usati. Dove per tecnologia si intendono tanto i computer, quanto gli indici finanziari, quanto le parole.

Il peccato originale a cui riparare è l’invisibilità del contenuto più prezioso: i gomitoli interiori dell’essere. Senza bisogno di andare nella fantascienza di menti in comunicazione diretta, già l’impiego di un vocabolario spirituale adeguato, connesso con l’evidenza oggettiva corrente, costituirebbe un passo avanti.

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Ortega Y Gasset: L’uomo e la gente. Società, reificazione e fenomenologia.

Jürgen Habermas: una legge per l’Europa

La reificazione e la natura del cervello: dalle neuroscienze alle atmosfere

N.B. Quello che avete letto é un estratto dell’articolo originale, nel quale sono presenti anche delle riflessioni sulla pressione selezionista e sulla trasformazione in senso operativo dei concetti, oltre che un’estesa introduzione sul modo in cui la dinamica della parola si forma in accordo con la dinamica degli oggetti materiali. Per avere l’articolo in versione integrale potete contattarmi con Facebook/messenger o tramite mail.

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1Herbert Marcuse, One-dimensional Man, Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society. (Boston:Beacon, 1964).

2 Ibid., 73.

3 Ibid., 81.

4 Ibid., 76.

5 Ibid., 81.

6 Si veda la nota a pagina 84, in cui viene indicato il libro: Roethlisberger and Dickson, Management and the Worker (Cambridge: Harvard University Press, 1947).

7 Ibid., 83.

8 Ibid., 77.

9 Ibid., 19.

10 Ibid., 126.

11 Ibid., 55, 56.

12 Ibid., 65, 66.

13 Ibid., 67.

14 Ibid., 19.

15 Ibid., 25.

16 Ibid., 60-61.

17 Ibid., 64.

18 La varietà dei dispositivi concettuali sottesi dall’espressione “logica formale” trova la sua unità nell’essere una rete la cui natura è altra (più visibile e definita) dal nocciolo più originario e libero del pensiero. In Marcuse il polo che si contrappone all’insieme delle strutture formali è la logica dialettica: “The contemporary mathematical and symbolic logic is certainly very different from its classical predecessor, but they share the radical opposition to dialectical logic. In terms of this opposition, the old and the new formal logic express the same mode of thought.” Ibid., 103.

19 Ibid., 101.

20 Ibid., 101.

21 Ibid., 123.

22 Ibid., 15.

23 Ignacio Ramonet, “La pensée unique,” Le Monde diplomatique, gennaio 1995.

24 In Marcuse il benessere crescente è presentato essenzialmente come conseguenza della produttività crescente e dell’avanzata tecnologica (“…a rising standard of living is the almost unavoidable by-product of the politically manipulated industrial society, once a certain level of backwardness has been overcome.” Herbert Marcuse, One-dimensional Man, 45), ma è anche indicata la relazione con la presenza di un nemico strutturale (“The economic and political connection between the absolute enemy and the high standard of living […] is transparent enough, but also rational enough to be accepted.” Ibid., 65).

25 Ibid., 181-182.

26 Ibid., 163.

27 Jaak Panksepp and Lucy Biven, The Archaeology of Mind, Neuroevolutionary Origins of Human Emotions (New York: W.W. Norton & Company, 2012).

28 Manuel Cappello, Le emozioni di base secondo Panksepp. Introduzione e connessioni filosofiche, 2017.

29 Per esempio in base alla suddivisione proposta da Panksepp fra 1) livello primario delle emozioni, 2) livello secondario dell’apprendimento e della memoria e 3) livello terziario delle funzioni superiori. Ibid., 9.

30 Marcuse non ha espresso chiaramente una posizione simile a quella appena descritta, e non aveva visto esattamente il modo in cui la scienza poteva costruire un discorso sui valori, ma aveva individuato la tendenza per cui la scienza stava conquistando anche il dominio della metafisica “…on technological grounds, the metaphysical tends to become physical.” Herbert Marcuse, One-dimensional Man, 162.

Concepire le emozioni a partire da Tonino Griffero

Come le emozioni sono diventate interiori, passando da Achille ad Ulisse

Tonino Griffero è un filosofo italiano che si occupa di atmosfere a partire dal lavoro del tedesco Hermann Schmitz. Per indicare la natura specifica delle atmosfere Griffero impiega il termine quasi-cose, che ne sottolinea la diversità rispetto alle cose materiali. Griffero considera le emozioni1 come simili a delle atmosfere e le colloca nell’esteriorità anziché nell’interiorità, in un modo che come egli stesso riconosce è controintuitivo. Su youtube si trovano alcune sue conferenze molto interessanti su questo tema, una delle quali è indicata sul fondo di questo articolo.2 3

Io credo che valga la pena aggiungere alcune osservazioni a partire dalla sua posizione. Noi infatti poniamo naturalmente gli oggetti materiali là fuori, anche dopo aver capito che essi sono un prodotto del sistema di percezione che sta dentro di noi. E allora, perché consideriamo gli oggetti materiali come esteriori e le emozioni come interiori?

Griffero ci ricorda che per i personaggi dell’Iliade le emozioni stavano fuori. Per esempio Achille non “si arrabbiava”, Achille era “preso dalla rabbia”, che si trovava fuori di lui. Invece Ulisse nell’Odissea, posteriore all’Iliade, gestiva in modo furbo la propria emotività e quella degli altri, considerandola interiore. Mi pare che proprio nel confronto tra Achille ed Ulisse si possa trovare il punto chiave, al di là della realtà storica, utilizzandoli come figure esemplificative ai fini dell’argomentazione. Se considerassimo le emozioni poste fuori alla maniera di Achille, potremmo essere forse più autentici nei confronti del mondo, ma anche più vulnerabili di fronte ad un furbo Ulisse. Chi sa nascondere le proprie emozioni ha un vantaggio manipolativo e organizzativo sugli altri. Chi sa fare a meno delle emozioni ne ricava dei vantaggi, ma ci perde qualcosa, ci perde vividezza del mondo. Che fare dunque? Ci piace l’intensità del mood che era di Achille, ma non vogliamo immergerci in una ingenuità che ci renda disponibili facilmente ai raggiri.

Quello che è successo da Achille ad Ulisse è un’evoluzione. Il vantaggio selezionistico dell’accantonare le emozioni è stato premiato, ma si è portato dietro l’effetto collaterale di un mondo più grigio, più povero d’emozione. Ciò pare avvenuto per mezzo dell’idea che le emozioni siano un che di interiore. Infatti, se pensiamo che le emozioni stiano dentro di noi, con ciò si fa evidente la possibilità di nasconderle. Localizzandole all’interno inoltre, depriva le emozioni della solida natura di cose e ci aiuta a dismetterle nelle loro forme più intense.

Ma non è detto che il vantaggio competitivo del pensare tenendo a bada le emozioni sia necessariamente connesso all’idea che esse siano interiori. Pensando che siano interiori, noi abbiamo una chiave intuitiva per eseguire i comportamenti esteriori, visibili agli interlocutori, come disgiunti dalle emozioni. Ma questo è solo uno stratagemma. Pensare le emozioni come interiori ci aiuta ad assumere comportamenti indipendenti dalle emozioni, ma lo stesso risultato può essere concepito senza localizzare le emozioni all’interno.

Tornando alla nostra situazione quotidiana, noi non possiamo fare a meno di inibire il massimo dell’emotività nel relazionarci con gli altri, ma dovremmo cercare di farlo senza castrarle, senza chiuderle nello spazio di una testa. Dovremmo renderci conto che la collocazione dentro/fuori è una costruzione mentale, ed allenarci ad attribuire liberamente il fuori ed il dentro parimenti alle cose ed a quelle quasi-cose che sono le emozioni. Al di là della circostanza specifica della furbizia di Ulisse, è impossibile concepire una vita contemporanea senza saper assumere una posa razionale che si tenga indipendente dai moti emotivi. Una più profonda consapevolezza del fuori e del dentro può far parte di una cultura che ci consenta di articolare il nostro vissuto tra situazioni di riflessività composta e situazioni di emozioni che pervadono tutta l’atmosfera.

Per approfondire il tema delle emozioni puoi leggere l’anteprima del libro che ho scritto sulle sette emozioni fondamentali individuate da Jaak Panksepp.

1Nota che in questo articolo il termine “emozioni” è utilizzato riferendosi a tutti i possibili sviluppi cognitivi della dimensione emotiva, e non specificamente alle sette emozioni di base di cui ho scritto nel libro “Le emozioni di base secondo Panksepp.”

2Tonino Griffero, Quasi-cose. Dalla situazione affettiva alle atmosfere. trópoς, I, numero speciale, 2008, pp. 75-92

3Tonino Griffero, Incontro con Tonino Griffero, youtube 02 Aprile 2016, Società Filosofica Feronia, https://www.youtube.com/watch?v=4hRb7dARc6c&t

La reificazione interpretata con Simondon

In ogni compravendita avviene che un bene od un servizio vengano concepiti per mezzo di un numero che indica la quantità di denaro necessaria all’acquisto. Questo è il punto di partenza della mercificazione dei rapporti sociali, della loro riduzione alla condizione di cose materiali, processo questo che indichiamo con la parola reificazione. Impiegando i termini di Gilbert Simondon potremmo dire che ogni comportamento di acquisto, ogni interazione con la merce, fornisce un germe da cui la reificazione puó partire. In tale ottica la natura umana reificata costituisce una condizione più stabile rispetto alla quale gli stati di maggiore ricchezza spirituale dell’uomo sono metastabili. Metastabile si dice di uno stato che puó conservarsi in isolamento, ma che inizia a disgregarsi in favore di un altro stato più stabile se i due stati vengono messi “a contatto”. Ciò si accorda bene con l’idea di Simondon per cui gli stati stabili sono quelli con una minore energia potenziale, in quanto la reificazione corrisponde ad uno stato in cui c’è meno potenziale nei progetti di vita degli uomini che ne sono affetti. Messa in questi termini la questione, si arriva abbastanza facilmente a chiedersi come si possa cambiare la dinamica provocata dai germi degli atti di compravendita, per evitare che la reificazione abbia luogo.

La concezione di Simondon prende spunto dalla cristallizzazione dei minerali, e questo ci puó essere d’aiuto per l’inquadramento del nostro problema. Nel caso dello zolfo succede che ponendo dei germi di cristallo rombico (forma alfa) in un reticolo di cristalli a forma di ago (forma beta) si da inizio ad un processo di trasformazione dell’intera massa di zolfo in un reticolo cristallino rombico. D’altra parte, alzando la temperatura ad esempio a 96 gradi, l’equilibrio chimico cambia e non si verifica più la riproduzione del germe cristallino rombico a scapito dei cristalli a forma di ago. Se ritorniamo dalla cristallizzazione dello zolfo al caso della società in cui si verifica la reificazione degli umani, ci chiediamo se esistono delle condizioni socio-psicologiche in grado di bloccare la propagazione dei germi di reificazione costituiti dagli atti di compravendita, così come l’innalzamento di temperatura è in grado di bloccare la proliferazione dei germi di cristallo rombico nello zolfo.

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La doppia natura della depressione, fisica e razionale

Ció che va messo a fuoco della depressione é che si tratta di un malessere fisico e che quindi non puó essere messo a posto con un ragionamento, cosí come una gamba rotta non puó essere aggiustata con la riflessione. Allo stesso tempo peró la depressione é il risultato della stratificazione di abitudini di comportamento e di ragionamento sbagliate. Per questo motivo la depressione puó essere affrontata con la ragionevolezza, ma non con quella ragionevolezza che mostra nulle i giudizi neri della persona depressa, bensí con una ragionevolezza che ci dica quali abitudini cambiare per eliminare le condizioni sistematiche che hanno provocato la depressione. Nel dire abitudini, ripetiamolo, ci si riferisce sia ai comportamenti fisici che al tipo di concetti che usiamo per interpretare il mondo.
Per quanto detto la depressione appare caratterizzata da una doppia natura. Da un lato si tratta di un problema concreto, molto piú solido dei ragionamenti fatti di parole, dall’altro é possibile attaccare la riflessione assumendo una adeguata visione del mondo e mantenendola a lungo, in modo che abbia modo di propagare i suoi effetti stratificandoli pian piano in tutte le regioni del nostro vissuto.

Per approfondire il tema della depressione potresti leggere i seguenti articoli:

Come combattere la depressione. 30 pagine di informazione

 Depressione ed attacchi di panico: una radice in comune?

Gilbert Simondon e l’innesco dell’individuazione dei cristalli

Nel suo libro sull’individuazione, Gilbert Simondon si propone di definire dei modelli di individuazione tratti dal mondo fisico per poi riproporli in ambito psicologico e sociale. L’individuazione puó essere intesa come il processo di formazione dell’individuo, e uno dei tratti che Simondon ne mette in luce é l’esistenza di ció che potremmo chiamare innesco dell’individuazione, e che puó essere compreso riferendosi al caso della formazione dei cristalli.

Il punto di partenza é la concezione molecolare della materia. Allo stato liquido succede che le molecole sono in un continuo moto disordinato, e chiaramente la loro posizione ed il loro orientamento una rispetto alle altre é casuale. L’intensitá del moto con cui le molecole sbattono corrisponde alla temperatura. Piú la temperatura é alta, piú le molecole sbattono violentemente le une contro le altre. Man mano che la temperatura si abbassa gli urti delle molecole diventano meno violenti, e nasce la possibilitá che esse si dispongano in strutture geometriche ordinate dismettendo il movimento libero che le caratterizzava nella fase liquida. Piú correttamente potremmo dire che nel corso dell’inserimento in un reticolo cristallino, il movimento libero si converte in vibrazione. Con un po’ di semplificazione possiamo immaginarci la molecola libera che si infila con un certo angolo fortunato in una cavitá ai bordi del reticolo cristallino, e inizia a sbattere ripetutamente fra i due lati di questa cavitá rimanendovi incastrata. A questo punto la molecola é parte del reticolo cristallino.

La geometria del reticolo cristallino é conseguenza della forma delle molecole, ed inoltre ad ogni singolo tipo di molecola possono corrispondere diverse strutture geometriche del reticolo (allotropia). Ad esempio lo zolfo puó formare reticoli rombici oppure a forma di ago (1). Il punto chiave é che le molecole di una massa di zolfo priva di struttura cristallina (e per questo motivo detta amorfa, nel senso che é priva di una forma interna regolare) hanno bisogno di sbattere nel modo giusto nel punto giusto di un reticolo cristallino giá esistente per potersi agganciare a tale reticolo. Quindi c’é bisogno che un pezzo di reticolo si sia giá formato perché altre molecole vi si aggiungano. Lá dove un frammento minimo di reticolo cristallino é presente in una massa amorfa, questo frammento svolge la funzione di punto di partenza, di innesco della cristallizzazione. L’immissione di un innesco ottaedrico in una massa amorfa di zolfo provocherá dunque la cristallizzazione ottaedrica di tutta la massa, mentre l’immissione di un innesco prismatico provocherá la cristallizzazione prismatica di tutta la massa.

Gilbert Simondon, L'individuazione alla luce delle nozioni di forma e d'informazione.

Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione.

In queste poche righe ho cercato di focalizzare al massimo il ruolo dell’innesco. L’argomentazione di Simondon implica anche delle considerazioni sul livello energetico necessario per l’accesso alle diverse strutture cristalline, e dunque una riflessione sul concetto di energia potenziale. Nel libro di Simondon la discussione della cristallizzazione dello zolfo si trova alle pagine 106-109. Ho volutamente trascurato la formazione degli inneschi di individuazione, che vengono anche chiamati germi di cristallizzazione.

1) Si tratta della forma alfa, ortorombica, e della forma beta, monoclina.

Riferimento bibliografico:
Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, (Milano-Udine 2011: Mimesis).