Diario di viaggio a Santiago e Finisterre: Il Pellegrino e Il Mare

(…)

La cattedrale si staglia illuminata contro il buio della sera. Le torri barocche della facciata principale, ricche di decorazioni, si staccano dall’ampia base dell’edificio per svettare verso lo scuro del cielo. Dal lato opposto della piazza c’è un lungo porticato, e nella parte centrale del porticato ci sono alcuni ragazzi che fotografano la cattedrale. Più defilate, sui lati, ci sono un paio di persone che dormono nei sacchi a pelo. Sono sdraiate per terra, sistemate su un semplice telo steso sulla dura pietra del pavimento. Hanno lasciato il bastone appoggiato al muro. Non sono vagabondi, naturalmente, sono pellegrini che hanno fatto il cammino.

Miss Timea il cammino di Santiago l’ha fatto l’anno scorso, e per lei questo luogo ha un significato particolare. Si incanta alla vista dei pellegrini, e le vedo negli occhi i ricordi di quell’esperienza. Mentre io mi siedo sotto il porticato a meditare, lei si perde in giro a camminare nei vicoli illuminati dai lampioni. Ritorna dopo venti minuti ad avvertirmi che il tempo della mia meditazione è finito, e poi si siede per terra con me. E mi dice che per lei questo é il giorno più bello dell’ultimo anno.

Al mattino del giorno dopo torniamo alla cattedrale per visitare l’interno(…)

Santiago, la cattedrale sotto la pioggia. Vista laterale.

Nella zona centrale c’è un folto gruppo di persone, che non capiamo cosa stiano facendo. Noi preferiamo aggirare l’assembramento camminando lungo i muri perimetrali. Miss Timea mi spiega che le persone sono in coda per visitare la cripta coi resti del santo. Lei c’è entrata l’anno prima. Io riesco a confondermi con qualcuno che va e viene da un corridoio e mi infilo nella parte finale della coda. Non c’è solo l’urna da vedere, c’è anche la statua del santo da abbracciare. Santiago è San Giacomo, e più precisamente San Giacomo il Maggiore (uno degli apostoli). Alla statua del santo si accede attraverso una scaletta molto stretta che sale all’interno di un tabernacolo arricchito da colonne dorate ornate da forme vegetali. La statua del santo è più grande di una normale figura umana, e vi si arriva da dietro, all’altezza giusta per abbracciarlo mettendo le braccia sulla mantellina di metallo che ne copre le spalle. Su questa mantellina sono incastonate alcune pietre e vi sono fissate alcune decorazioni metalliche lucidate dagli abbracci dei pellegrini. Ma ho appena il tempo di notarlo, che già il mio turno è terminato.

(…)

Finisterre si chiama anche Finisterra, oppure Fisterra. Il nome viene dal latino finis terrae, che significa fine della terra. Ed infatti si tratta del lembo di terra che, nella spagna del nord, si estende più a Ovest nell’Oceano Atlantico.1 La penisola di Finisterre crea un insenatura protetta dove l’acqua è più calma, ed é da questo lato che si trova il centro abitato, incluso il nostro albergo. Una volta prese le chiavi della stanza e mangiato un kebap, siamo ancora in tempo per raggiungere l’altro lato della penisola dove si puó vedere il tramonto del sole nell’oceano.

Finisterre, onde nella baia

Le onde dell’oceano si fanno sentire a centinaia di metri di distanza. Per raggiungere la spiaggia percorriamo un sentiero costeggiato dai rovi con le more rosse e nere. Ci togliamo le scarpe e i sandali per camminare meglio nella sabbia. Le dune sono cosparse di vegetazione, e stiamo attenti a non calpestare le piante grasse. Gli scogli, in lontananza, sono avvolti da una nebbia sottile. Arrivati sul bagnasciuga ci mettiamo a camminare all’indietro, fotografando le nostre impronte cancellate dall’acqua. Dobbiamo alzare la voce per riuscire a sentirci. Le onde cominciano a fare la cresta molte decine di metri al largo, e quando arrivano a riva sono completamente bianche. Un bambino sta giocando a rincorrere l’acqua che si ritrae nel mare, per poi scappare indietro di fretta quando arrivano le nuove ondate. C’è un uomo che porta il cane a passeggio, e alcune ragazze sedute guardano il tramonto. Del sole rimangono solo alcune strisce arancio appoggiate all’orizzonte, mentre la luna nel cielo si fa più brillante contro il cielo che imbrunisce. Un paio di pescatori hanno piantato la canna nella sabbia, in un punto dove le onde non arrivano. Non vediamo dove si trova la lenza, e per non inciampare risaliamo verso l’entroterra. Il vento continua a soffiare forte, ed é ora di rientrare.

(…)

Vicino al pilastrino del chilometro zero c’è una fila di persone che vogliono farsi la fotografia, e a pochi metri c’è un ragazzo che suona la chitarra. Camminando attorno all’edificio del faro si raggiunge una zona da cui si vedono le onde e gli scogli a strapiombo, da grande altezza. Ci sediamo lì a goderci il sole. Le onde viste da lontano si muovono al rallentatore. Mi perdo a confrontare i movimenti dell’acqua e della schiuma da un punto all’altro della distesa liquida e mobile. Cerco di inseguire il percorso delle onde che si avvicinano, ma quando queste si mescolano al riflusso, non riesco più ad aver presente tutti i movimenti che si intrecciano. All’orizzonte un paio di piccole vele si confondono alla foschia della lontananza, e quando il gabbiano passa a mezza distanza tra noi e le acque posso cogliere appieno la grandezza dei volumi.

L’oceano a vista d’uccello è già una cartolina da ricordare. Ma c’è ancora un percorso ritorto e stretto tra un muro bianco e la ripida discesa del promontorio che ci conduce in un punto da cui si gode una vista privilegiata. L’ultimissimo pezzo di terra dopo il faro scende verso il mare con una pendenza più lieve, in un’alternanza di rocce, chiazze d’erba e sentieri percorribili. Decine di persone se ne stanno sparse nel paesaggio. Ci sono uomini soli che scrutano l’orizzonte e gruppi di amici che scherzano. Alcuni fanno fotografie, altri si siedono a guardare. Ci sono cani al guinzaglio e cani senza guinzaglio, bambini nel passeggino e bambini a spalle di nonni e genitori. È un affresco di umanitá che riempie lo sguardo. Sono persone arrivate qui, alla fine della terra, che giocano curiose col pensiero, chiedendosi cosa ci sia al di là del mare. Una ragazza soprattutto, molto lontana, sta in basso vicino alle onde, in piedi, con le braccia aperte su uno scoglio proteso a sbalzo contro il blu del dell’oceano. La osservo, e con la fantasia mi metto al suo posto.

Finisterre, vista dal faro

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Diario di viaggio a Porto: Un giorno di mezza estate in Portogallo

1C’é un altro lembo di terra nelle vicinanze che si estende anche piú a ovest, ma tradizionalmente il punto estremo é considerato essere Finisterre.

Diario di viaggio a Porto: Un giorno di mezza estate in Portogallo

Il treno spagnolo della Renfe ha una forma affusolata di un delicato color panna, mentre il treno portoghese, che sta sul binario accanto, assomiglia più ad una simpatica scatola da scarpe gialla, coi bordi arrotondati. Dopo aver trovato la posizione più comoda sul mio sedile, tiro fuori dallo zaino il sacchetto di arachidi salate comprate a Pontevedra, la città spagnola che abbiamo appena visitato. Il problema è che le noccioline hanno ancora la buccia, ed il sale lo hanno messo fuori. Poi quando inizio a sbucciarle capisco il trucco: il sale rimane sulle mani, e da lì passa sulle labbra e sulle noccioline. Geniale.

Il treno si inclina per una curva molto pronunciata, e osservo con curiosità l’angolo che si forma tra il vagone ed i pali della linea elettrica. Proprio mentre ne sto parlando con miss Tímea, sentiamo una botta provenire da dietro. Ci giriamo, e vediamo un uomo robusto, biondo, dall’aspetto anglosassone, che si gratta la testa con un espressione di dolore. E nel mezzo del corridoio c’è una valigia rosa. Anche gli altri passeggeri si girano per capire cosa è successo, e quando il padrone della valigia rosa capisce di essere il colpevole, si sente imbarazzato e cerca di scusarsi offrendo delle patatine all’uomo dal volto anglosassone, il quale cortesemente declina l’offerta.

L’autobus 306 ci porta dalla stazione dei treni di Porto fino a duecento metri dalla sistemazione che abbiamo trovato per la notte. Arrivati all’indirizzo esatto ci troviamo di fronte ad un edificio ricoperto di piccole piastrelle di colore verde, con la porta in ferro verniciata di rosso. Mentre cerchiamo il campanello sentiamo la voce di un uomo che sta camminando verso di noi. È il padrone di casa. Era seduto in un bar lì vicino e ci ha visto passare. Si chiama Celso.

Celso indossa un maglioncino leggero di colore azzurro e grigio. Porta gli occhiali, ha i capelli bianchi e si muove svelto. È gentile ed un poco svampito. Si guadagna da vivere vendendo cose in internet e affittando le stanze con booking.com. Tiene in bella vista la targa con la media delle recensioni ricevute nel 2018. Otto virgola sette.

La casa è accogliente, col pavimento in parquet. La finestra della nostra stanza si affaccia sulla strada, ed è protetta da una grata estensibile di ferro zincato. Per evitare che al mattino entri la luce c’è una grande tenda rossa fissata in alto con degli anelli metallici di color grigio sabbiato. La struttura del letto è realizzata con un tubolare che in parte è di colore ottone lucido ed in parte è verniciato di color panna.

Per andare in cucina si incontra un grosso quadro astratto di colore arancio appoggiato per terra, in fondo a un corridoio. In cucina c’è un tavolo a scomparsa, e si sta un poco alle strette. Oltrepassando la cucina c’è una veranda piena di cianfrusaglie, fra cui una calcolatrice coi tasti meccanici, un vecchio registratore della JVC, tre scatole di giochi da tavolo, due caschi per le biciclette, alcuni mobiletti in legno cesellato accatastati uno sull’altro, e soprattutto tanti libri. Di libri ce ne sono in tutti gli angoli della casa, ordinati in file orizzontali o impilati in colonne verticali. C’è la bibbia, ci sono alcuni libri sulla salute dell’anima, dei dizionari di portoghese, ricettari di cucina vegetariana, libri per bambini, e tante raccolte di autori portoghesi che non conosco.

Al mattino ci tiriamo dietro la porta e lasciamo le chiavi nella cassetta della posta. Le strade di Porto sono tutte un saliscendi, e molte case hanno l’aria un po’ cadente. I muri sono spesso rivestiti con piastrelle di colore tenue oppure intenso, in tinta unita o arabescate. Tipicissime sono alcune chiese costruite in pietra granitica e decorate con grandi disegni azzurri su piastrelle bianche, che a volte si estendono su tutta la parete della chiesa. Li chiamano azulejos.

Gli azulejos di Porto

La gente di Porto si mescola al traffico delle auto creando paesaggi mai banali, anche grazie ai dislivelli che creano continuamente nuove prospettive e scorci di profondità. Ma noi siamo appena stati a Pontevedra, la città famosa per avere un centro storico senza automobili. E allora, anche se qui a Porto il traffico mi sta quasi simpatico, mi pongo delle domande. Mi chiedo come sarebbero queste strade senza le automobili. Ed è mentre cammino compiendo questo esercizio di trasfigurazione che arriviamo nella zona del ponte.

Porto – Il ponte Dom Luís I sul fiume Duero

Porto sorge a cavallo della grande gola in cui scorre il fiume Duero, nel punto in cui il fiume raggiunge l’oceano Atlantico. La gola è profonda cinquanta metri, e le due parti della città che si trovano sui lati opposti del fiume sono collegate da un imponente ponte di ferro costruito a fine ottocento. Il ponte Dom Luís I fa parte della storia dell’architettura in ferro. È stato progettato da un architetto belga che ha collaborato con Gustave Eiffel. Nella parte inferiore del ponte passa il traffico automobilistico, mentre in alto, a 45 metri dal pelo dell’acqua, passano la metropolitana e i pedoni, incanalati in un corridoio largo meno di un metro. Ci andiamo anche noi, ed affacciati alla ringhiera ci lasciamo inebriare dalla sensazione di altezza. Lanciamo una monetina e ne seguiamo la caduta con lo sguardo. La monetina scivola leggera tagliando l’aria, gira su sé stessa lanciando rapidi riflessi, e dopo cinque secondi compare un piccolo schizzo bianco tra le onde scure.

Vicino al ponte c’è la cattedrale (Sé do Porto), che è uno dei monumenti principali di Porto…

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Questo post è un estratto del racconto completo.

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Racconto di un viaggio in Cina

Oslo, le auto, e gli elefanti bianchi

Diario di viaggio a Santiago e Finisterre: Il Pellegrino e Il Mare

Diario di viaggio: Oslo, le auto, e gli elefanti bianchi

Arrivo ad Oslo nelle prime ore del mattino. È agosto, fa fresco, si sta bene con la camicia. In aeroporto c’è un grande schermo con un’animazione promozionale. Le viste a volo d’uccello sui fiordi e sui boschi si alternano ai profili delle architetture più moderne. Lo slogan dice che Oslo cambia a vista d’occhio. Questo schermo con l’animazione è posizionato al centro di una grande parete rivestita di muschio finto. Quando però mi avvicino a controllare, vedo che non è finto, è muschio vero incollato su un fondo di sughero. Frugando con le dita se ne staccano dei pezzetti secchi.

La piazza di fronte alla stazione dei treni è circondata da palazzi d’epoca che si alternano a strutture moderne. Nel centro c’è una torre di vetro con il logo della RUTER, che è il gestore dei trasporti di Oslo. Tutt’intorno ci sono strade in leggera pendenza, scalinate, spiazzi, luoghi per sedersi e linee tranviarie che si incrociano. I tram sembrano piuttosto vecchi, mentre gli autobus sono nuovi. Di auto ce ne sono poche, e di queste poche la maggior parte sono dei taxi. Ci sono alcune serie di biciclette parcheggiate, e decine di monopattini elettrici appoggiati nei punti più diversi. E poi, a dare anima a questa varietà di mezzi di trasporto ed architetture, ci sono tantissime persone, che camminano in ogni direzione e che attraversano continuamente la strada.

Oslo, uscendo dalla stazione dei treni.

Avevo in mente di andare subito a vedere l’opera, ma mi lascio attirare dai cartelli che indicano il duomo. La facciata del duomo di Oslo è dominata da una grande torre a sezione quadrata, costruita in mattoni gialli. Nella parte superiore c’è una cupola con un pinnacolo di colore scuro, che arriva in alto e si vede da lontano. L’interno del duomo non è esattamente quello che mi aspettavo. Le pareti sono lisce e con un intonaco color panna, senza decorazioni particolari, a parte cornicioni e finestre. Colonne ed affreschi non ce ne sono, per intenderci. A colpo d’occhio sembra più l’interno di un palazzo sontuoso che non una chiesa. Il soffitto è interamente decorato in uno stile dall’aspetto naif. Ci sono alcune figure sacre realizzate in toni di azzurro, oppure di arancio, oppure di giallo.
L’esterno del duomo è circondato da un porticato con dei negozi e dei caffè, una specie di bazar delimitato da una serie di arcate. Posto nel punto di confluenza di molte vie importanti, è una vista tipica del centro di Oslo.

Dopo aver galleggiato tutto il mattino nelle strade del centro, lasciandomi affascinare dalla gente e dal paesaggio urbano, verso mezzogiorno raggiungo la Deichman bibliotek, che come dice il nome è una biblioteca. Salendo le scale raggiungo le sale di lettura. Le pareti sono alte e ricoperte di scaffali in legno piene di libri. I tavoli in legno massiccio sono lunghi e robusti, con molti posti liberi. Dopo aver messo il telefono sotto carica mi dedico alla lettura dell’opuscolo in inglese dove il governo locale di Oslo descrive il progetto per la mobilità cittadina. Sono una trentina di pagine. È da un mese che ce l’ho nello zaino, e adesso voglio finirlo. Di recente Oslo ha preso iniziative importanti per diminuire il numero di automobili nel centro storico, ed il tema di un possibile progresso senz’auto mi interessa molto. È per questo che sono qui.

Oslo, la libreria Deichman.

Il mantra-messaggio ripetuto cento volte nell’opuscolo è che bisogna costruire un ambiente urbano accogliente per i bambini e per le persone anziane. Il governo locale ha individuato un’area centrale di circa un chilometro quadrato in cui c’è un grandissimo flusso di persone a fronte di un minimo numero di residenti. In tale area sono stati eliminati centinaia di parcheggi comunali per disincentivare le persone a venire in centro con l’auto privata. Sono stati però aumentati i parcheggi disponibili per chi deve fare consegne, per i negozianti che lavorano nel centro, e per le persone disabili. Quello che si vede camminando nel centro è che le strade percorribili dalle auto ci sono ancora, e ci sono anche le auto, ma sono poche, e quelle poche procedono piano. E le aree dove prima c’erano i parcheggi sono diventate dei piccoli parchi e dei luoghi dove è possibile sedersi (ce ne sono davvero molti).

Dopo aver consumato il pranzo seduto su una panchina pubblica dalla forma inusuale, mi avvio verso la zona del lungomare dove si trova il Teatro dell’Opera di Oslo. Per parlare di quest’architettura abbiamo bisogno dello spunto offerto da un grande scrittore. Hemingway, per esempio, aveva scritto un racconto che si intitolava “colline come elefanti bianchi”. Quel che diceva quel racconto, veramente, non è cosí importante. Quello che è importante sono gli elefanti bianchi. Perché quando arrivi al Teatro dell’opera di Oslo te ne accorgi, lo senti. Sono nell’atmosfera. Gli elefanti bianchi sono nascosti dietro gli angoli delle pareti di marmo e di vetro, e proprio quando tu non stai guardando, loro escono dal nascondiglio e si lanciano in una corsa precipitosa, correndo lungo il pendio di granito bianco che scende a immergersi fra le onde. E se tu ti giri di scatto per coglierli sul fatto, loro sono già spariti, si sono già tuffati nelle acque e stanno ormai nuotando verso il largo, confondendosi tra i riflessi lucidi delle onde.

Il Teatro dell’opera di Oslo è costruito in marmi e graniti bianchi, come un palazzo dei ghiacci che sceglie a piacere le sue inclinazioni senza dover rendere conto a nessun angolo di novanta gradi. Nella sua fantasiosa imponenza sembra davvero un luogo dove gli elefanti bianchi possono giocare con leggerezza. È costruito con un grande piano inclinato che scende dal tetto dell’edificio fino al mare, inoltrandosi sotto le onde, formando un bagnasciuga di pietra lungo il quale si può camminare. E dopo aver meditato sulle onde che erodono il granito, si può anche risalire il piano inclinato arrivando fin sul tetto, là dove le silhouette degli uomini contrastano scure contro un cielo che invece è luminoso, come se le favole del nord fossero una cosa vera.

Oslo, sul tetto del teatro dell’opera.

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Questo post è un estratto del racconto completo.

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Racconto di un viaggio in Cina

RACCONTI DI VIAGGIO

IN SPAGNA, A SANTIAGO E FINISTERRE: IL PELLEGRINO E IL MARE

Le onde dell’oceano si fanno sentire a centinaia di metri di distanza. Per raggiungere la spiaggia percorriamo un sentiero costeggiato dai rovi con le more rosse e nere. Ci togliamo le scarpe e i sandali per camminare meglio nella sabbia. Le dune sono cosparse di vegetazione, e stiamo attenti a non calpestare le piante grasse. Gli scogli, in lontananza, sono avvolti da una nebbia sottile. Arrivati sul bagnasciuga ci mettiamo a camminare all’indietro, fotografando le nostre impronte cancellate dall’acqua. Dobbiamo alzare la voce per riuscire a sentirci… leggi il racconto di questo viaggio

Finisterre, vista dal faro

ATENE: UNA LETTERA BRUCIATA NEI PRESSI DEGLI DEI

Per Natale avremmo dovuto essere in Senegal, ma all’inizio di dicembre Miss Timea ha iniziato a fare degli esami medici, ed il giorno 19 le hanno trovato nel sangue i marcatori del tumore. Nel giro di due giorni è stata operata d’urgenza. È stata l’ultima operazione che hanno fatto prima di chiudere la sala operatoria per le feste. Ricordo che dopo l’operazione Miss Timea era quasi orgogliosa del suo taglio verticale sul ventre, come i bambini con le sbucciature. Le hanno dato diciassette punti. Poi i primi giorni di gennaio… leggi il racconto di questo viaggio

Atene, l’acropoli vista dall’Areopago

OSLO, LE AUTO, E GLI ELEFANTI BIANCHI

Il Teatro dell’opera di Oslo è costruito in marmi e graniti bianchi, come un palazzo dei ghiacci che sceglie a piacere le sue inclinazioni, senza rendere conto a nessun angolo di novanta gradi. Nella sua fantasiosa imponenza sembra davvero un luogo dove gli elefanti bianchi possono giocare con leggerezza. È costruito con un grande piano inclinato che scende dal tetto dell’edificio fino al mare, inoltrandosi sotto le onde, formando un bagnasciuga di pietra lungo il quale si può camminare… leggi il racconto di questo viaggio

Oslo – il teatro dell’opera

UN GIORNO DI MEZZA ESTATE A PORTO, IN PORTOGALLO

…Nella parte inferiore del ponte passa il traffico automobilistico, mentre in alto, a 45 metri dal pelo dell’acqua, passano la metropolitana e i pedoni, incanalati in un corridoio largo meno di un metro. Ci andiamo anche noi, ed affacciati alla ringhiera ci lasciamo inebriare dalla sensazione di altezza. Lanciamo una monetina e ne seguiamo la caduta con lo sguardo. La monetina scivola leggera tagliando l’aria, gira su sé stessa lanciando rapidi riflessi, e dopo cinque secondi compare un piccolo schizzo bianco tra le onde scure… leggi il racconto di questo viaggio

Porto – il ponte Dom Luís I sul fiume Duero

CINA: XIAMEN

Ho preso d’urgenza un volo verso la Cina per fare assistenza tecnica presso un nostro cliente di Xiamen, una città situata sulla costa nella parte meridionale del paese. Xiamen ha vinto il premio di città più pulita della Cina ed è considerata una località turistica. Insieme a me c’è un ragazzo di venticinque anni, un simpatico bergamasco introverso di nome Roberto.[1] Nell’area del ritiro bagagli facciamo subito la prima conoscenza: Giuliana. Anche lei è bergamasca, e lavora qui per controllare le produzioni di un’azienda italiana di abbigliamento… leggi il racconto di questo viaggio

Xiamen, Cina, il tempio di Nanputo

Cicerone: un amico contro l’insonnia

Come ti dicevo, ho ascoltato il video di Wes Cecil su Cicerone, e sono andato a leggermi la lettera sull’amicizia. Potrei dirti che Cicerone il soggetto del suo discorso te lo introduce, te lo indica, te lo annuncia col cappello in mano. Dopo aver fatto un solenne riferimento agli antenati stende il tappeto che conduce alla soglia, e una volta entrato ti invita a sederti mentre lui sta ancora apparecchiando la tavola. Insomma, non è esattamente una sintesi incalzante e non mette la penna nella piaga del concetto. Potresti anche annoiarti dei convenevoli.

Ma se gli dai fiducia, ci trovi qualcosa. Ci trovi la chiarezza che viene dall’aver steso bene tutti gli argomenti come quando hai poca nutella per coprire il pezzo di pane. Ci trovi una visione che emerge con calma, come un minestrone che ha tempo di cuocere. Ci trovi frasi che leggi come un filo d’olio che scorre, ma che poi ti rendi conto hanno detto qualcosa. E te le salvi. Ci trovi, soprattutto, la persona che ti parla. Il tono dell’amicizia. Pensavo che dovresti leggerlo la sera, prima di dormire, perché è un palcoscenico dove gli attori sanno cosa è l’amicizia. È un antidoto al senso di solitudine.

Cicerone, non dimentichiamolo, è una radice indispensabile di ciò che poi si è chiamato umanesimo, di ciò che già al tempo era chiamato humanitas. E sai quanto questi temi mi interessano, anche per il discorso del Romanticismo Positivo. Ma leggendo Cicerone, come già ti dicevo, desidero non condividere ingenuamente l’attitudine verso ciò che significava per lui Roma, che era il punto più alto cui convergevano tutti i suoi valori e gli argomenti. Ai nostri tempi, invece, ogni atto di fiducia e partecipazione sembra aver bisogno di accompagnarsi ad un atto di diffidenza e separazione. Soprattutto in presenza di una classe dirigente che non sa prendersi cura. Lo so, sto solo facendo cenno ad un problema che è più complesso di così. Il punto è che mi interessa recuperare lo sguardo che lui aveva per i suoi pari tentando di importarlo in una situazione di partecipazione politica molto differente. Perché lui sapeva vedere in un uomo la possibilità di un amico, per questo il suo sguardo è così prezioso. Per questo voglio essere guardato da lui.

RACCONTO DI UN VIAGGIO IN CINA

SEI GIORNI A XIAMEN, CINA

Ho preso d’urgenza un volo verso la Cina per fare assistenza tecnica presso un nostro cliente di Xiamen, una città situata sulla costa nella parte meridionale del paese. Xiamen ha vinto il premio di città più pulita della Cina ed è considerata una località turistica. Insieme a me c’è un ragazzo di venticinque anni, un simpatico bergamasco introverso di nome Roberto.[1] Nell’area del ritiro bagagli facciamo subito la prima conoscenza: Giuliana. Anche lei è bergamasca, e lavora qui per controllare le produzioni di un’azienda italiana di abbigliamento. Le chiediamo dove si trova l’ufficio cambi più vicino, ma in questo aereoporto non c’è: ci conviene andare alla Bank of China che si trova nello stesso edificio del nostro albergo, di fronte al palazzo dove abita lei. Nel dirci queste cose continua a camminare a passo svelto; noi le corriamo dietro e saliamo in taxi insieme a lei che litiga in cinese col tassista, il quale vorrebbe farle pagare 10 yuan[2] in più per mettere le valigie anche sul sedile anteriore; le spostiamo dunque nel bagagliaio. Facciamo un po’ di fatica, perché sono piene di pezzi di ricambio e pesano molto. Giuliana è una bella donna di poco sopra i trent’anni, le piace vestirsi in modo appariscente, ha studiato lingue a Venezia ed è venuta per la prima volta in Cina nel 2001, perché già allora si faceva fatica a trovare lavoro in Italia. Torna normalmente a casa ogni sei mesi, ma quello di adesso è un viaggio aggiuntivo fatto per portare dei campionari urgenti. Parla benissimo il cinese. Ha un carattere deciso, ed una volta ha fatto piangere un tassista del posto che ha cercato di raggirarla. Non esce molto per divertimento, ma ha la fissa della palestra e segue una dieta di proteine ricca di carne. I tratti del suo viso sono particolari e non viene quasi mai identificata come italiana; più facilmente come sudamericana.

Xiamen, Cina: Edifici in costruzioneIl viaggio dall’aereoporto all’albergo dura una ventina di minuti e ci da modo di prendere il primo contatto con la città. Ci sono alcune strutture molto moderne, rivestite in vetro, mescolate a molti palazzi visibilmente più datati; sono molti gli edifici in costruzione. La temperatura è alta, l’aria è umida, e le nuvole coprono il sole.

I facchini dell’albergo sono sorpresi dal peso delle valigie e per portarle dentro prendono un carrello. Al check in ci immobilizzano 500 euro sulla carta di credito; la spesa per cinque notti in stanza doppia sarà di 370 euro.[3] Ci troviamo in una zona centrale di Xiamen, e dopo aver sistemato le camicie mi viene voglia di uscire a far due passi. Il mio compagno di viaggio prova meno attrazione di me per l’esplorazione della società circostante, e rimane in stanza a dormire. Appena sono uscito vado in banca a cambiare 400 dollari in valuta locale,[4] per poi incamminarmi verso la passerella pedonale che scavalca la strada di fronte all’albergo, andando in direzione del palazzo dove abita Giuliana. Per terra c’è bagnato, e un pulviscolo umido sospeso nell’aria si colloca a metà strada fra la nebbia ed una pioggerella leggera. Nelle strade c’è gente, e si trovano diversi negozi aperti anche se è domenica. Di scritte in inglese ce ne sono davvero poche, praticamente solo i nomi delle aziende ed alcuni indirizzi internet.

Tornato in albergo trovo Roberto che si lamenta e vorrebbe già essere di ritorno. Siamo al diciottesimo piano e un lato della camera è occupato per tutta la larghezza da una finestra; ci sono alcune scritte cinesi incise nella pellicola oscurante che ricopre i vetri. Roberto è seduto sull’ampio davanzale interno e sta fumando nervosamente. Sul comodino c’è un gadget di cartoncino con una parte rotante simile al disco orario che si usa nei parcheggi; serve ad indicare le condizioni meteo previste per il giorno dopo. Sul tavolo c’è un piatto con tre frutti: una mela e una pera completamente senza sapore ed una banana dal gusto accettabile. Leggendo le istruzioni del televisore capisco che ci dovrebbero essere un paio di canali in inglese oltre a quelli in cinese, ma non ho voglia di cercarli. Nel bagno manca lo spazzolone del gabinetto, ma questo non è un problema, perché il livello dell’acqua è tenuto alto ed impedisce l’impatto fra la ceramica e qualsiasi oggetto che potrebbe sporcarla. Non mi sono portato l’asciugacapelli, ma ne trovo uno in un sacchetto di velluto nero col nome dell’albergo. Le prese elettriche sono adatte ai nostri apparecchi e non ci serve quindi nessun adattatore, il wifi è disponibile e c’è anche un collegamento internet via cavo. Youtube e Facebook sono inaccessibili, mentre Google funziona bene, come pure Skype, che nei giorni successivi sarà il principale mezzo di comunicazione con l’Italia.

Verso le otto di sera scendiamo al piano terra per mangiare nel ristorante dell’albergo. Io voglio provare la cucina locale: ordino dei broccoli fritti ed un piatto che dalla foto assomiglia ad uno spezzatino di carne. Mi va male con entrambi; i broccoli sono lessati anziché fritti, e lo spezzatino è fatto di tofu, un’entità insapore tagliata in cubetti e con la consistenza di una gelatina leggermente soda, per di più piccante. Dopo tre pezzi di tofu alzo bandiera bianca e mi ritiro sul piatto di cavolfiori, che se non altro riesco a mangiare senza nausea. Il mio collega bergamasco invece se l’è cavata con un sandwich di cui mi ha offerto un pezzo. Seduto accanto a noi c’è un gruppo di cinesi. Dal loro tavolo sentiamo provenire dei risucchi e qualche rutto che in Italia potrebbero essere motivo d’imbarazzo, ma che loro inseriscono con naturalezza fra le parole.

Cina-07-costruzioni-moderne-nell-entroterra-di-XiamenLunedì mattina viene a prenderci un’auto mandata dal cliente, e facciamo la conoscenza con Susan, il nostro contatto cinese. Non è molto alta, porta gli occhiali, i capelli sono neri, lisci, tagliati a caschetto. Naturalmente parla anche l’inglese, anche se non benissimo, ed è molto cordiale nei nostri confronti. La nostra destinazione non si trova nell’area cittadina di Xiamen, che è un’isola, ma nell’entroterra; per raggiungerla ci vuole mezz’ora. All’arrivo siamo sorpresi dall’edificio: è imponente ed ha l’aspetto di un moderno centro commerciale; ha otto piani e vi lavorano duemila persone, di cui soltanto una ventina circa non sono cinesi.

Dopo la mattinata di lavoro veniamo accompagnati in una mensa dedicata agli stranieri e alla dirigenza; ci sono cinque vassoi caldi con pietanze vicine ai gusti occidentali. La mia preferenza va ad un’insalata di pollo e ad uno spezzatino di carne bianca con sugo di pomodoro, metre Roberto prende un altro panino e delle patate fritte. Al nostro tavolo si siede un uomo anziano di origine canadese che deve essere informato della nostra presenza in azienda, perché ci fa domande mirate su alcune questioni tecniche. Poi ci presta il suo pass per andare a prendere due lattine di coca-cola al grande bancone della mensa dove si trovano i dipendenti cinesi. Quando il canadese esce dalla mensa abbiamo modo di scambiare due parole con alcuni ragazzi che nel frattempo si sono seduti nel tavolo accanto. Uno di loro si chiama Edward e ci da un caloroso benvenuto. I tratti del suo viso sono un po’ particolari, probabilmente per via della nazionalità dei suo genitori, uno tedesco e l’altro giapponese.

Il motivo del nostro viaggio comporta la presenza presso la sede del cliente nel corso del normale orario di lavoro, ma non sono previsti impegni serali. Attorno alle cinque del pomeriggio l’autobus aziendale ci riporta in albergo insieme ad alcuni stranieri dell’azienda. In questo modo ogni sera ci rimangono delle ore libere per visitare la città. Salutandoci coi nostri colleghi chiedo a Edward cosa c’è di interessante nei dintorni: non lontano da dove alloggiamo c’è un parco dove ogni sera fanno qualcosa.

Alle otto andiamo a cena in un ristorante a duecento metri dall’albergo; si chiama Tuscany, ed in teoria dovrebbe fare cucina italiana. In pratica la carne nell’hamburger sa terribilmente di aglio e la pizza è come quelle surgelate: insapore. La carbonara invece, sebbene un po’ troppo bagnata, ha un gusto compatibile col nome che porta. Uno dei camerieri, Marco, è un ragazzo di Padova, ha 25 anni, e normalmente si presenta ai Cinesi dicendo che è di Venezia, dove anche lui come Giuliana ha studiato lingue (ma non il cinese). Mentre parliamo ci scambiamo i numeri di telefono e provo a fargli un messaggio che mi costa un euro. Gli chiedo come si può fare per avere un numero cinese. Marco dice che qui in Cina la burocrazia è ridotta rispetto a quella che c’è in Italia; nelle vicinanze c’è un negozio della Telecom cinese dove si può facilmente avere un numero nuovo senza bisogno di documenti. Usciamo a fumare insieme una sigaretta (anche se non ci sarebbe un divieto rigoroso di fumare all’interno), mi racconta dei locali che conosce, e nel frattempo saluta alcuni passanti stranieri. È molto attratto dalla vita notturna di Xiamen, e vengo a sapere che qui ci sono dei party sulla spiaggia conosciuti in tutta la Cina. A parte l’impiego come cameriere, lui si occupa anche di importare vini dall’Europa e di esportare borse in Italia. Conosce Giuliana; dice che è un tipo che si fa rispettare. Prima di andare via dal ristorante, Marco mi porta una scheda telefonica cinese che mi ha fatto il favore di comprare senza che glielo chiedessi. Sono 60 yuan,[5] incluso del credito che sarà sufficiente per una ventina di SMS.

Marco mi ha confermato che il luogo indicatomi da Edward è interessante. Arrivo in zona che sono le undici di sera. Il parco sorge in prossimità del mare e la riva è costituita da una gradinata alta cinque metri. Provo a scendere avvicinandomi all’acqua, ma devo tornare indietro perché tutta la parte più bassa della gradinata è sporca di alghe, presumo per la marea che dev’essere decisamente maggiore rispetto a quella cui siamo abituati nel Mediterraneo. Lungo la parte superiore della gradinata sono disposti quattro locali che guardano verso il mare; tutti e quattro hanno le luci accese e fanno musica. Ci sono alcune persone che passeggiano e altre sedute ai tavoli esterni, ma all’interno dei locali non c’è nessuno e le sedie sono impilate, probabilmente perché è soltanto lunedi.
Dove finisce la gradinata si trovano un grande ristorante e altri tre locali più simili a discoteche. Provo ad entrare in quello che si chiama Key Club. Mi riconoscono subito come occidentale, una ragazza mi viene incontro e mi accompagna ad un tavolo. Dice che è la manager del posto, ma penso che semplicemente si occupi di public relations. Si chiama Rita, e ci scambiamo il numero di telefono. Ordino da bere un Black Russian e fumo un paio di sigarette. Non rimango a lungo, perché la musica è troppo soft e non è adatta a ballare. Inoltre vedo che il locale è pieno di tavoli e non c’è spazio per muoversi. Quando sono fuori chiedo l’orario di chiusura ad un buttafuori. Riesco a farmi capire a gesti, e dopo avermi mostrato la mano aperta per indicare le cinque del mattino, di sua iniziativa mi viene alle spalle e mi sistema il bavero della giacca. Sulla via del ritorno passo in un punto del parco che prima non avevo visto, camminando su alcune passerelle di pietra e cemento costruite in mezzo a un grande specchio d’acqua. È una vista piacevole. C’è anche un grande viale il cui pavimento è decorato con delle luci affogate nel cemento. Ogni tanto cerco di accendermi una sigaretta con i cerini presi dall’albergo, ma questi non vogliono saperne di accendersi.

Martedì dopo il lavoro mi separo da Roberto e vado in taxi al tempio buddista di Nanputuo. Purtroppo è già chiuso, ma riesco a vederne l’architettura esterna ed il giardino antistante. Sul prato ci sono un paio di anziani intenti a riprodurre con lentezza dei movimenti simili a quelli di un’arte marziale, mentre sulla riva di uno stagno poco distante tre monaci rotondi e sorridenti spezzano del pane che gettano in pasto ad un grosso pesce. Riconosco in lontananza il palazzo dell’Università di Xiamen che avevo visto in qualche immagine di Google prima di partire. Mi incammino in quella direzione, arrivo nella zona dove ci sono le aule e vedo che stanno facendo lezione anche se sono le otto di sera. Mi soffermo accanto ad alcuni finestroni per spiare all’interno: anche qua utilizzano sia lavagne col pennarello sia lavagne col gesso, oltre agli schermi per i proiettori. Ogni tanto ci sono delle scritte in inglese.

Cina-02-centro-commercialeUscendo dalla zona universitaria mi trovo davanti un piccolo centro commerciale addobbato con parecchie luci e con un pannello pubblicitario luminosissimo. Entro, alla ricerca di una maglietta da portare ad un’amica in Italia, ma trovo solo capi con scritte o loghi occidentali, non in cinese come speravo. Mi servirebbero poi un paio di magliette e di mutande per me, visto che mi sono reso conto che quelle portate dall’Italia non mi basteranno. Girando fra i reparti, delle mie magliette e delle mutande mi sono dimenticato presto, ma in compenso ho trovato un bellissimo paio di jeans di marca cinese. Sull’etichetta di cuoio dove passa la cintura c’è scritto: CHINA STREET PUNK STYLE – IDEAL LOVER DESIGN FACTORY. Sono etichettati a 220 yuan, ma la cassiera me li batte a 159.[6] Sono morbidi ed aderenti, come piace a me; li indosso subito uscendo dal negozio, ma poi li metto in valigia per l’Italia, perché penso che qui in Cina sia meglio passare per straniero.

Da queste parti il taxi costa poco; ad esempio il tempio dista quindici minuti dall’albergo e l’andata ed il ritorno costano insieme circa 40 yuan.[7] Quando si chiede lo scontrino il tassista alza il prezzo di due/tre yuan rispetto a quello che appare sul tassametro, e ci consegna insieme allo scontrino alcuni bigliettini su cui sono riportati un numero di serie e dei timbri.
Naturalmente i tassisti non sono assolutamente in grado di leggere l’inglese, e vedo che faticano anche con il cinese, non vi so dire se per loro incapacità o se perché è intrinseca alla scrittura cinese una maggiore lentezza nel riconoscimento visivo delle parole. Fatto sta che non li vedo mai leggere al volo l’indirizzo, devono sempre soffermarsi un momento prima di capirlo.
A parte questo i cinesi guidano male, tagliano la strada e hanno l’inversione facile. Il più pericoloso dei tassisti che abbiamo provato era un giovane con un tick: ogni tanto piegava all’improvviso la testa di lato mettendosi la mano sul collo. Ha rischiato più di una volta di investire dei passanti, evitandoli all’ultimo momento.
Per strada si vedono molte auto nuove e di grossa cilindrata, ma poche di marca europea. In mezzo al traffico normale si trovano facilmente dei mezzi molto vecchi e sovraccarichi; ci è capitato di incontrare anche un carrello elevatore (sarà stato un quindici quintali) che attraversava un incrocio in mezzo al traffico in pieno centro.

Ritrovo Roberto in albergo; mentre faceva le sue passeggiate cercando souvenir nei dintorni dell’albergo ha rivisto Giuliana, con la quale ha combinato una cena a tre per mercoledì sera. Forse è più sveglio di quello che sembra.

Verso le undici di sera esco per andare in una discoteca di nome Lomo che ha aperto da poco e si trova a due passi dal nostro alloggio. Anche qui nel riconoscermi come occidentale mi accompagnano gentilmente al bancone. Nel mezzo del locale c’è una passerella dove si svolge un piccolo spettacolo di ballerine, tutte dal volto occidentale. Il cantante è un uomo di colore. Al bancone ordino un cocktail di nome Lamborghini al prezzo di 80 yuan:[8] è uno dei più costosi, uno di quelli a cui danno fuoco. Solo che dopo avergli dato fuoco il barista mi mette in mano la cannuccia ed io la infilo distrattamente nel cocktail per bere mentre la fiamma è ancora accesa; mentre bevo mi pongo il dubbio se la cannuccia sia abbastanza resistente da sopportare le fiamme, e nel fare questo pensiero tiro due sorsi un po’ troppo abbondanti, poi tolgo la cannuccia dal fuoco e l’infilo rapidamente nel bicchiere di acqua che il barista mi ha messo accanto. Sento l’effetto dell’alcol, mi si fanno gli occhi rossi, rallento il respiro per non mettermi a tossire e mi giro dall’altro lato per non farmi vedere in difficoltà dal barista. Tornata la calma, riprendo ad osservare il locale e vedo che quando il cantante fa il ritornello alcune persone attorno a me lo accompagnano sistematicamente con la mano alzata, in particolare il barista ed alcune belle ragazze sedute al bancone. Immagino che siano pagate per fare coinvolgimento. Finito il cocktail mi metto a cercare lo spazio adatto per ballare; l’unico posto dove riesco a posizionarmi è un tratto della passerella. Ci resto per circa una mezz’ora fumando qualche sigaretta (anche stavolta me le devo fare accendere dai cinesi perché i cerini dell’albergo continuano a non funzionare). Poi mi stanco perché vedo che il coinvolgimento del pubblico nel ballo è limitato, e preferisco andarmene.

Mercoledì a pranzo facciamo un’altra conoscenza alla mensa degli stranieri: Enrico, di Milano, forse trentacinque anni. È alto, indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate che lasciano intravedere due grandi tatuaggi sulle braccia: princess da un lato, il suo nome dall’altro. Al collo un papillon nero decorato con degli swarovski. Si trova qui da tre anni e lavora all’ultimo piano, dove c’è il giardino. Mi spiega che il canadese che abbiamo conosciuto in mensa il primo giorno riveste un ruolo importante: è l’unico straniero di cui i padroni dell’azienda (cinesi) si fidano pienamente.
Enrico se ne era andato da Milano perché “gli andava stretta,” ma poi ha iniziato a percepire anche Xiamen come “una scatola” troppo piccola; i nuovi arrivati trovano una serie di cose interessanti da vedere, ma presto l’orizzonte mostra i suoi limiti, soprattutto agli occidentali, in quanto a Xiamen ci sono pochi stranieri. Per questo motivo Enrico è contento di passare metà del suo tempo in un’altra sede aziendale a Shanghai, città che trova molto più interessante.
Enrico dice che i cinesi hanno una propensione molto forte al business e rischiano facilmente i loro soldi in iniziative commerciali. La crisi di cui noi parliamo tanto qui non si sente, e non è difficile sentire la storia di qualche giovane intraprendente che “inizia con un chiosco e si trova dopo pochi anni con una catena di ristoranti.” La differenza culturale fra cinesi ed occidentali è grande e si fa sentire; prima o poi a tutti gli stranieri capita di avere dei giorni in cui si raggiunge il limite della sopportazione, anche se poi passa. Saltiamo da un argomento all’altro; mi colpisce sentir dire che a Xiamen gli impianti di riscaldamento sono abitualmente assenti, e che il grande numero di condizionatori che abbiamo visto installati in molti palazzi ha la sola funzione di raffreddamento. Di conseguenza durante l’inverno bisogna sopportare delle temperature non vicine allo zero ma comunque nettamente al di sotto dei diciotto gradi. Mi incuriosisce anche sapere che i cinesi non hanno rispetto per le code, e che non vanno in spiaggia a spogliarsi per prendere il sole.
Mentre chiacchiero con Enrico provo a mangiare alcune arance della mensa, ma sono improponibili: completamente asciutte. Anche qui però ci sono delle banane che si salvano.

Giuliana ha prenotato tre posti per la cena nel ristorante italiano di Giacomo, un bolognese di circa quarant’anni, in Cina da otto. Prima di questo locale Giacomo ne ha avuti altri tre: con il primo ha perso molti soldi, il secondo l’ha venduto bene, il terzo l’ha venduto male; adesso le cose vanno abbastanza bene. Mi parla di alcune delle problematiche con cui si è dovuto confrontare; la rucola ad esempio arrivava soltanto una volta al mese e non era mai uguale, e lo stesso accadeva con altri prodotti deperibili. Adesso invece arrivano tutti i giorni delle consegne a qualità costante. Quando gli chiedo se la frutta qui è tutta immangiabile come quella che è capitata a me, Giacomo mi fa notare che lui non la serve. Si potrebbe trovare qualcosa di buono, ma non è facile.
Quando parlo delle mie uscite serali e vengo a merito dell’atteggiamento di riverenza che hanno i cinesi nei confronti degli occidentali, lui mi dice che sono stato nei posti sbagliati e che ce ne sono parecchi decisamente migliori, frequentati anche da stranieri. Soffia un po’ di fumo e aggiunge che una volta per “fare serata” bastavano 50 euro, champagne incluso, mentre adesso ce ne vogliono 200. Seduta vicino a lui c’è una donna anziana: è sua madre, che gli da una mano a gestire la cucina.
Nel ristorante c’è un filippino che suona dal vivo una chitarra accompagnato da basi registrate. Giacomo dice che guadagna più di lui e vorrebbe che si sforzasse di parlare coi clienti. Mi piace come suona, e gioco a seguire il suo ritmo articolando le dita della mano destra. Dumb dei Nirvana e Knockin’ on Heaven’s Door. Giuliana mi rimprovera perché non riconosco un pezzo dei Pink Floyd; o forse erano i Dire Straits. Mangio degli spaghetti ai frutti di mare che sono molto buoni;[9] prima di uscire faccio i complimenti a Giacomo per il suo locale.

Se non ho capito male, per determinare le tasse di un piccolo ristorante è sufficiente presentare un contratto di affitto, dichiarare la superficie ed il numero di coperti giornalieri. Non c’è obbligo di dichiarazione IVA e lo stato fornisce un certo numero di fatture in base al volume di affari. Le piccole realtà economiche lavorano con i propri soldi pagando in contanti o con assegni a vista. Non esiste nulla di simile al giro degli effetti basato sulle ricevute bancarie com’è in Italia.

Per quanto riguarda il permesso di soggiorno, averne uno permanente per motivi di lavoro è difficile, servono l’invito da parte di un’azienda locale, un curriculum, gli esami del sangue, il certificato di laurea ed altri documenti che non ricordo. Un’alternativa è quella di utilizzare dei permessi multientrata di sei mesi, facendo poi vedere che si esce dalla Cina una volta ogni due mesi, per esempio recandosi ad Hong Kong. Questo è compatibile con l’essere proprietari di un’attività, ma non con l’esserne dipendenti. Per inciso, io e Roberto abbiamo ottenuto il visto per motivi turistici.

Parlando con gli italiani che vivono da queste parti chiedo spesso informazioni a riguardo del reddito dei dipendenti cinesi e del costo della vita. Un operaio nell’entroterra può prendere circa 150 euro al mese, mentre per un cameriere della città una cifra più verosimile è di 250 euro (ma fino a pochi anni fa era meno della metà). Nelle grosse aziende lo stato interviene per impedire che gli stipendi si alzino troppo, perché altrimenti la Cina diventerebbe meno competitiva rispetto ad alcune nazioni limitrofe come il Vietnam. I costi da sostenere per mangiare ed abitare sono decisamente in crescita. Nell’area cittadina lo stato ha recentemente imposto un raddoppio degli affitti. Enrico vive in un appartamento di centoventi metri quadri che prima gli costava 200 euro e adesso è passato a 400. Per lui non è stato un grande problema, ma non si può dire lo stesso dei lavoratori cinesi, per i quali l’incidenza dell’affitto sulla busta paga è considerevole.
A causa di questa situazione stanno diventando più frequenti i casi in cui gli operai semplici preferiscono licenziarsi per tornare nelle campagne a praticare un’agricoltura di sussistenza. C’è stato un caso in cui, se è vero quello che mi hanno detto, si sarebbero licenziati in blocco settecento dipendenti proprio nell’azienda in cui ci troviamo. Con queste premesse la previsione che fanno tutti è quella di un costo del lavoro in aumento e di uno spostamento di alcune aziende verso le zone più interne e povere, all’inseguimento della manodopera a minor costo.

Si tenga presente, per comprendere meglio lo scenario descritto, che in Italia siamo abituati a immagini di cinesi ammassati nei laboratori clandestini e completamente dediti al lavoro, mentre qui non sono infrequenti le figure di cinesi che danno l’impressione di prendersela piuttosto comoda, sia nell’azienda del nostro cliente, sia nell’ambito di tanti piccoli ruoli di servizio che si possono osservare nel contesto cittadino (portieri, commessi, camerieri, guardie, etc.)

Chiudo questa parentesi economica aggiungendo che Xiamen è una città in cui i costi sono molto inferiori rispetto ad altri luoghi come Shanghai, dove possono essere anche il doppio rispetto a qui.

Siamo dunque arrivati a mercoledì sera verso mezzanotte. Al mio ritorno in albergo scrivo alcuni messaggi con Skype (in Italia sono le sei di sera e qualcuno lavora ancora), poi vado in bagno a lavare alcune delle mutande e delle magliette usate nei giorni precedenti; nel tentativo di asciugarle riesco a bruciare l’asciugacapelli dell’albergo. Spero che i cinesi non se accorgano.

Giovedì a pranzo abbiamo più tempo a disposizione perché dobbiamo aspettare il risultato di alcuni test chimici che verranno pronti nel primo pomeriggio. Ne approfittiamo per ispezionare l’outlet aziendale e arriviamo in mensa più tardi del solito. Quando gli altri si alzano per tornare al lavoro io sono ancora seduto a mangiare e ne approfitto per chiacchierare con Sarah, che come i giorni precedenti è arrivata per ultima. Roberto esce a fumare una sigaretta e dice che mi aspetta fuori. Mi perdo negli occhi neri e scintillanti di lei; le dico che mi piace il modo in cui sceglie i momenti in cui parlare e quelli in cui restare in silenzio. Lei viene da New York e le piace ballare. Ci scambiamo i numeri e ci diamo un appuntamento per la sera.

La rivedo sul solito autobus aziendale che di sera ci riporta a Xiamen. Mentre lei parla con qualcun’altro, ci scambiamo senza farci notare alcuni messaggi per definire l’orario ed il luogo. Ma poi lei nello scendere dall’autobus cambia idea e invita me e Roberto ad andare subito a cena insieme. Roberto dice che a lui non interessa e che ieri ci eravamo accordati per andare all’isola di Gulangyu per prendere i souvenir… Non mi va di lasciarlo solo, e a malincuore saluto la ragazza. Gulangyu è una piccola isola piena di negozietti che si raggiunge con il traghetto. Mentre sono sull’imbarcazione mi viene voglia di andare sul ponte superiore per avere un panorama migliore; mi fanno pagare uno yuan in più e mi danno un biglietto numerato con dei timbri, simile a quello dei tassisti. Immagino che si tratti di una forma di tassa statale.

Cina-03-traghetto-per-GulangyuA Gulangyu ci si muove soltanto a piedi; auto e biciclette sono bandite. Secondo Roberto l’atmosfera è come quella di Gardaland. Dovrebbe esserci un museo del piano, ma non abbiamo il tempo di cercarlo. Dopo aver esplorato alcuni negozi Roberto è contento perché ha trovato quello che cercava: delle decorazioni calamitate con il nome di Xiamen. Io resto concentrato sul mio telefono, con cui armeggio facendo SMS fino a che non ricostruisco l’appuntamento con Sarah. Ritorno anch’io ad essere di buonumore, e sulla strada del ritorno canto le canzoni dei cartoni animati.

Incontro Sarah verso le dieci, e andiamo a bere qualcosa nei locali lungo la gradinata in riva al mare. Dopo molto parlare ci incamminiamo verso il Key Club dove stavolta c’è qualcuno che balla fra i tavoli. Quando ci mettiamo a ballare anche noi, uno dei ragazzi del locale ci tira subito sul piano rialzato di fronte al palco del DJ, in parte perché siamo abbastanza ispirati nei movimenti, ma soprattutto perché siamo occidentali. Il ricordo di questa serata mi ha ispirato una canzone:

THE GIRL FROM NEW YORK

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

She has been the hint
for my mind to fly.
The flight went too far
and stretched the mind.

The mind fell apart
like a mirror that tries
to follow who leaves
going out of the room.

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

So tears on my face
this night in Xiamen;
only saved me the glue
i was told by Cobain.

I came in Xiamen
to find a girl from New York,
so sweet was the kiss
but she sent me away.

Quando rientro in stanza trovo Roberto ancora sveglio; mentre era da solo la connessione internet ha smesso di funzionare interrompendo il suo dialogo con gli affetti familiari. Allora si è arrabbiato e ha chiamato la reception; la cinese che ha risposto parlava inglese meno di lui, però gliene ha dette quattro ed è riuscito a fare venire dei tecnici che hanno sistemato il problema.

Cina-04-incisione-cinese-nel-parco-botanicoVenerdì non dobbiamo andare nell’azienda del cliente e ne approfittiamo per visitare il parco botanico di Xiamen; è piu ampio di quel che pensavo, e servono alcune ore per vederlo tutto. All’interno c’è un colle alto dai fianchi ripidi che offre degli scorci paesaggistici molto interessanti. A Roberto piacciono queste cose. Nell’approssimarci ad una cresta laterale del colle iniziamo a sentire dei vocalizzi che riempiono l’atmosfera. Ci immaginiamo che per ottenere un simile effetto sonoro debba esserci un coro di molti monaci, ma non è così. Proseguendo nel cammino ci si apre davanti una piccola valle nella quale osserviamo il complesso architettonico di un tempio immerso nella vegetazione. Continuando il nostro percorso fra i sentieri del bosco che ricopre il colle incontriamo un accesso laterale ai locali del tempio; si sente il canto ma non si vede nessuno. Entro con circospezione, mentre Roberto mi aspetta fuori a riposare. Mi guardo in giro controllando se c’è qualche persona o qualche cartello di divieto, ma è tutto scritto in cinese. Mi trovo in uno spiazzo da cui vedo gli alloggi dei monaci. Esce un uomo in ciabatte che mi osserva brevemente e poi si dedica al suo cellulare e borbotta qualcosa a qualcuno che non riesco a vedere. Visto che non mi dicono nulla proseguo verso la direzione da cui sento provenire il canto. Salgo alcune scale e arrivo dove ci sono i monaci con la tunica arancio che stanno celebrando la cerimonia. Sono quattro o cinque e stanno usando un microfono. Sono inginocchiati, mi danno le spalle e davanti a loro c’è una serie di statue del Buddha. Dietro di loro alcune altre persone in abiti normali partecipano al rito. Nessuno sembra notare la mia presenza.

Uscendo dal parco facciamo due passi senza una meta precisa, ed incontriamo una decina di imponenti soldati di bronzo che corrono all’assalto, sventolando una grande bandiera rossa con una stella gialla. Poco dopo troviamo un bowling a sei piste dove facciamo una partita; è tutto simile ai bowling che ci sono in Italia, dalle scarpe agli schermi dei punteggi alle poltroncine dei giocatori. Però costa quattro volte di meno. Il nostro punteggio non è un granché, ma un paio di strike riusciamo a farli.
Prima di prendere la strada dell’aroporto passiamo in un grande parco pieno di gente che passeggia e gioca a carte all’ombra degli alberi. Notiamo un gruppo di trenta o quaranta persone che fanno un esercizio buffo: stanno tutte piegate in avanti battendosi le mani sulle gambe, producendo un rumore simile ad un applauso.

Arrivati in aeroporto, l’attesa dell’imbarco è l’occasione per fare un bilancio di quello che abbiamo visto. A parte le questioni lavorative, che in questo racconto ho volutamente evitato di esporre, a parte la mail di Sarah, il pettine e lo spazzolino col marchio dell’albergo, i jeans elasticizzati e le foto che Roberto mi deve ancora girare, a parte questo, cosa mi lascia questo viaggio?

Tutti gli interlocutori con cui mi sono confrontato dicono che la crisi qua in Cina non si sente e che il calo della domanda estera non crea grossi problemi per via della crescita del mercato interno. L’azienda presso la quale stiamo facendo assistenza, ad esempio, ha come mercato principale quello cinese seguito dal Nord America, mentre in Europa vende poco. Quando gli ho chiesto cosa dicono i cinesi dell’Europa, Enrico si è fatto una risata; scherzando, ma non troppo, ha detto che la danno per morta. Poi ha aggiunto che sulle televisioni cinesi c’è una forte propaganda in favore della Cina, e che loro (i cinesi) hanno ancora questo modo di sentirsi come “un grande esercito”.

Penso all’Italia e alle strade delle nostre città che non ci appartengono più, in parte per problemi di micro-criminalità, in parte per colpa nostra che amiamo stare separati nelle nostre case e nelle nostre stanze. In Cina ho visto qualcosa di diverso. I cinesi non passano molto tempo in casa; non so quanto sia per via del clima caldo, quanto per la miseria della maggior parte delle abitazioni, e quanto per i fattori culturali, fatto sta che loro vivono lo spazio comune della strada in modo più intenso rispetto a noi. Inoltre, se a Brescia di sera una ragazza ha paura a camminare da sola, a Xiamen il problema non si pone nemmeno a notte inoltrata; c’è un senso di confidenza con il luogo pubblico che da noi è assente.
Alcuni frammenti di questa città cinese mi hanno regalato una sensazione sociale particolare e mi hanno ispirato quella sfumatura delicata del pensiero che guarda le persone cercando di farne un coro anziché un’indifferenza, ed è questo il souvenir della psiche che vorrei conservare salutando Xiamen.

 

Cina-05-mercato-del-pesce-a-Gulangyu

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  1. [1]Tutti i nomi di persona di questo racconto sono stati cambiati rispetto agli originali.
  2. [2]1,3 euro
  3. [3]Per entrambi. Dunque sono 180 euro a testa.
  4. [4]2.500 yuan
  5. [5]7,9 euro
  6. [6]20,9 euro
  7. [7]5,3 euro
  8. [8]10,5 euro
  9. [9]80 yuan, pari a 10,5 euro

LA DANZA DEL QUI ED ORA: UN PARADISO TASCABILE

IL CONTESTO GRIGIO
LA ZONA DEL COLORE

IL CONTESTO GRIGIO

Il nostro pensiero è l’arte di organizzare quello che vediamo in funzione di un obiettivo, ma quello che noi vediamo è drammaticamente poco rispetto al brusio assordante del divenire che impazza dappertutto nel mondo, negli uffici e nelle menti, sugli schermi, nelle fabbriche e nelle atmosfere.

Noi pensiamo di sapere come andranno le cose e ce ne facciamo un’immagine nella testa. Ma il resto del mondo non si organizza per compiacere le nostre aspettative. C’è una natura intrinseca nelle cose che procede con le sue logiche indifferenti ai nostri programmi. E soprattutto ci sono le intenzioni degli altri uomini, contrapposte alle nostre.

Le maglie del ragionamento si allargano nel tentativo di avvolgere le conseguenze e le condizioni dei processi produttivi, ma non si può tenere conto di tutto. Basta aspettare, ed arriva sempre qualcosa che non era previsto e ci costringe a cambiare il pensiero per adeguarlo al mondo. Le nostre aspettative sono un cristallo che andrà in frantumi negli ingranaggi insensibili del divenire.

C’è qualcosa di perverso nel modo in cui l’uomo si innamora dei suoi progetti sul mondo, che nascono con tanto entusiasmo ma poi incastrano in sé stessi il medesimo uomo che li aveva amati, rendendo triste il suo ragionare. La società funziona per mezzo di questa perversione al cui meccanismo è difficile sfuggire.

Ma se il ragionamento sul mondo è divenuto triste, allora il pensiero ha bisogno di un luogo a parte dove dimenticarsi del mondo. Se la società è una foresta alta dove non penetra la luce, noi cerchiamo una radura che sfugge alle ombre per ritrovare il cielo. Noi ce ne andiamo dal futuro per restare nel presente, abbandoniamo il resto del mondo per guardare solo a queste case, ci distogliamo dalle parole delle persone ritraendoci nell’interno che non parla.

Aries Tottile diceva che se l’uomo è ragione, allora il bene dell’uomo è l’esercizio della ragione; ma l’uomo è anche e soprattutto corpo. Accantonare il ragionamento guasto per dare spazio al corpo può essere la strategia migliore per poi tornare ad un ragionare che prenda le mosse da ambienti del pensiero più puliti.

Spesso la volontà che organizza l’azione per raggiungere gli obiettivi finisce per creare una sorta di cortina fumogena tra noi ed i nostri movimenti, che vengono compiuti senza essere vissuti. Ma una volta che ci siamo lasciati alle spalle i ragionamenti andati a male, l’azione si può liberare dalla schiavitù dei risultati e le diviene accessibile quel tanto di sacro che è insito in ogni movimento.

Ecco, sto smettendo di alimentare i pensieri dei progetti e degli obblighi in società. Lascio che le immagini del lavoro, delle persone e delle notizie diventino sbiadite. Dopo aver parcheggiato l’attenzione nell’ascolto del respiro, osservo con la coda dell’occhio i pensieri del giorno che continuano a germogliare. Ma se io mi trattengo e non li guardo, se io non li raccolgo, loro ritornano sott’acqua come un delfino che dopo essere uscito nell’aria ricade. E anche se ci sono attorno a me delle persone, no, non è vero: quelle persone non ci sono, sono solo creature in periferia che non sono interessate a quello che sto facendo, e nemmeno possono vederlo.

Se prima la ragione inviava l’ordine di muoversi per mezzo di telegrammi, adesso ascolta quello che il corpo ha da dire. È il momento dell’aderenza, dell’attenzione che si diffonde nei volumi della carne, nei muscoli grandi delle braccia e delle gambe ma anche in quelli minuscoli i cui nomi sono conosciuti dai medici soltanto. È il momento per accogliere il suono ordinato in ritmi ed armonie di note sovrapposte: la musica, l’allenatrice del corpo e del pensiero.

LA ZONA DEL COLORE

Tra le foglie di una pianta lo sguardo dell’uomo indaga nella speranza di un frutto, e quando si trova di fronte ad un volto lo interpreta disponendolo attorno agli occhi. Allo stesso modo la mente desidera trovare i punti polari della struttura musicale, e quando pensa di averne trovato uno, lo mette alla prova afferrandolo con il capitano di tutti i gesti: il piede che incontra il pavimento.

Ogni volta che il gesto indovina il tempo, l’energia non cala per il lavoro compiuto ma aumenta con la solidità della sensazione musicale. E se le gambe giocano bene, poi l’anima dell’ispirazione prende possesso anche del tronco, delle braccia, e delle mani; fino alle articolazioni delle dita. La struttura corpo è messa al servizio della struttura musica, come fosse un burattino dalle molteplici possibilità, ed ai gesti semplici che battono i tempi forti seguono montaggi più articolati.

Nei film d’avventura ci sono delle mattonelle segrete, e quando qualcuno per sbaglio le calpesta scattano le trappole infernali e crollano i palazzi. In questo video-real-game invece c’è un punto G segreto del cemento che si muove sotto il pelo della superfice come i grandi vermi nelle sabbie di Dune, e quando tu riesci a seguirlo con i passi, il pavimento prende vita e diviene un animale da cavalcare. Quando ne perdi le tracce ti devi fermare, immobile come una statua silenziosa, in attesa che l’intuito ne ritrovi la posizione.

Ma non siamo in un laboratorio teatrale del novecento, e non è un atleta quello che sta ballando, preoccupato di muscoli più resistenti per balzi più potenti. È un cittadino del triste impero che di professione fa qualcos’altro, ed usa con affetto il corpo che ha a disposizione per suonare lo spartito, senza arrabbiarsi per i limiti del suo strumento. Non è l’intensità della prestazione fisica che comanda in questo gioco, ma la sintassi delle parole movimento di cui il regista interiore dispone. E là dove la fatica si fa sentire, il cittadino danzante interpone pause immobili o diminuisce oltremodo l’intensità di ogni gesto, fino a lasciarne solo un cenno del capo o dello sguardo. Ma non rinuncia mai ad infatuarsi per le lucciole che si accendono nel triangolo magico fra il corpo, la mente ed il suono organizzato.

Il manuale dell’uomo ci insegna una danza per costruire il regno del Qui ed Ora, dando così un senso all’impresa di affrontare l’altrove che ci viene contro nei giorni. Non è un ballo per piacere allo sguardo di una platea; è una forma di bellezza che non viene osservata da quelli che stanno fuori, ma da quell’unico[1] che sta dentro.

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  1. [1]Una precisazione: non ho utilizzato questa espressione per indicare la fede in un io monolitico, che al contrario percepisco come molteplice. Credo che la convenzione dell’io grammaticale unitario sia un metodo liberamente utilizzabile a seconda delle occasioni. In questo caso si può considerare tale unico come il punto mentale in cui sta per formarsi l’ispirazione, non comandata da un ordine ma invitata da un’attesa.

LA NASCITA DI UNA RELIGIONE: IL SAPERE, IL CONTESTO E LA TRASPARENZA

LA CONTABILITÀ, LA FILOSOFIA E GLI OROLOGI DI CRISTALLO

Antefatti contabili: l’ignoranza del contesto

Quando ho iniziato a lavorare nell’ufficio acquisti non conoscevo ancora nulla della contabilità. Mi limitavo a girare al commercialista le fatture acquisti con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza dell’IVA. Non avevo un’idea precisa dei percorsi in cui gli impiegati contabili incanalavano i documenti. Se si parlava di Dare e di Avere potevo seguire il ragionamento per un paio di frasi, ma poi non capivo più la direzione dei crediti e dei debiti. Sapevo che c’era una lista di tutti i conti che si chiamava appunto piano dei conti, ma ne conoscevo soltanto poche voci appartenenti alla sezione dei costi; più precisamente le righe che in tale sezione stanno più in alto, quelle relative agli acquisti delle materie prime che ero abituato a gestire. Già le suddivisioni fra i diversi tipi di servizi mi rendevano diffidente, e sapevo che andando più sotto c’erano cose strane come i costi indeducibili, gli oneri straordinari e le minusvalenze. Per non parlare dei ratei e dei risconti: non mi ricordavo mai quali riguardavano i ricavi oppure i costi.

Dopo un paio di anni dal mio ingresso in azienda è venuto il momento di portare all’interno la gestione della contabilità (prima, come ho già accennato, era tenuta dallo studio del commercialista). Ciò è successo in contemporanea all’acquisto di un server AS400, e sono stato io a gestire entrambe le novità, cogliendo l’occasione per fare pratica con i conti. Eravamo a metà degli anni ’90 e non c’era Google a darmi una mano; ho imparato la materia confrontandomi con il programmatore del software contabile e, ovviamente, col commercialista. Nel giro di alcune settimane ho iniziato a capire la differenza fra il Dare e l’Avere che avvengono nello Stato Patrimoniale piuttosto che nel Conto Economico, e in alcuni mesi mi sono abituato a muovermi fra le insidie del giro degli effetti e delle operazioni di fine anno. Adesso registro normalmente bolle doganali, buste paga di fine rapporto e fatture d’acquisto con gli assoggettamenti IVA più diversi. Diciamo che ne so abbastanza per valutare le competenze di un’impiegata contabile in un colloquio d’assunzione.

La consapevolezza del contesto e la natura del cristallo

C’è stato un tempo in cui prevaleva l’ignoranza e la contabilità era per me soltanto un fastidio, un indirizzo a cui mandare le richieste e da cui attendere le risposte. Vedevo quello che vi entrava e quello che ne usciva senza capire il collegamento tra input ed output. L’ignoranza della materia mi portava a volte a sottovalutarne la complessità o, al contrario, a temerne eccessivamente le conseguenze. Dietro a quella parola c’era nella mia mente un aggregato di punti di vista esterni, non una struttura di pensieri pertinente alla realtà che essa indicava.
Successivamente ha avuto luogo un’esperienza per mezzo della quale si è formata una solida consapevolezza del contesto, e oggi, di fronte alla pezza giustificativa dell’operazione di banca, non rimango più fermo a pensare: passo subito a registrarla in prima nota. Quando spuntando l’estratto conto trovo qualcosa che non quadra ho già in mente dove può essere l’origine del problema, e so come verificarlo. Se prima la contabilità era il nome di un bosco di cui non conoscevo i sentieri, oggi è un dominio al cui interno posso vedere come se fosse un orologio di cristallo nel quale distinguo i meccanismi in movimento.

Col passare dei mesi e degli anni ho preso dimestichezza anche con altri contesti all’interno dell’azienda, scoprendo orologi di cristallo nell’ufficio commerciale e in produzione, nella gestione delle risorse umane e nelle questioni più strettamente tecniche. Al di fuori dell’ambiente di lavoro ho trovato orologi di cristallo nei comportamenti delle donne, nei discorsi dei politici e naturalmente negli esami universitari.

La trasparenza come stile di vita

Con l’esperienza e lo studio la massa diviene trasparente; ogni lavoro è una coltivazione che evapora il terreno lasciando visibili le vene aurifere della conoscenza. La terra è soltanto temporanea. La vista degli occhi ci insegna le superfici opache, ma noi preferiamo cercare gli orologi di cristallo. La trasparenza diventa una religione, compatibile con il contesto produttivo e capace di condurci nelle province più colorate del Qui ed Ora.[1]

Certo, non basta sapere che i contesti sconosciuti possono essere imparati a farli diventare trasparenti, ma possiamo creare i presupposti perché ciò avvenga più facilmente, cambiando l’attitudine della mente con l’aspettativa di un mondo trasparente. La differenza sta nel renderci conto che ogni sostanza opaca è soltanto il punto di partenza per scoprire al suo posto una ragnatela impalpabile di relazioni. Cambia l’atteggiamento nei confronti della massa che smette di costituire una barriera allo svolgersi del pensiero, i cui sentieri si diramano in ogni direzione come le scale di Escher. Gli oggetti diventano reti di percorsi e il mondo si risolve nei movimenti di un pensiero luminoso e senza ombre.

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  1. [1]La relazione fra la trasparenza e la godibilità dei Qui ed Ora è un tema da approfondire. Qui mi limito ad un esempio: nel momento in cui la conoscenza di un contesto è progredita a sufficienza è possibile vivere tale contesto localmente senza andare a verificare che i risultati siano adatti alle richieste del contesto globale, poiché si sa già che l’output soddisfa le aspettative. In soldoni: se impari a fare abbastanza bene i tuoi compiti, poi potrai appassionarti al tuo lavoro, perché saprai in anticipo che i risultati saranno buoni e non ci sarà nessuno che verrà a romperti i coglioni per i tuoi errori.

NOMI PER SALVARE IL PENSIERO EVANESCENTE

È quasi mezzanotte e il freddo ci punge aspettando Micaela. Tu sei tante cose, tu sei frizzante. Ti dondoli con le mani in tasca e c’è più stile nelle tue pose che in un musical famoso dei settanta. Vai snocciolando le novità dall’ultima volta dando un tono di voce diverso ad ogni episodio con una recitazione divertita. Dietro le tue parole variegate si intravede una sottile volontà che fa da regia alla giostra degli eventi per condurla in un luogo del futuro. Io, sospeso in questa moderata euforia invernale disegnata dal tuo comportamento, percepisco che la tua pelle è diventata dura per i graffi subiti e apprezzo la tua mente lucida nel sottolineare le proprie competenze e contemporaneamente i limiti.

Il tuo buonumore è sostenuto dalla consapevolezza delle cose accadute. Le decisioni nel gruppo di artisti, le idee concepite per un video, i libri letti, le possibilità di un lavoro. Ma col passare delle ore le cose accadute vanno lontanandosi dal presente scivolando nel passato. I meccanismi del tuo umore se ne accorgono e vanno ad ispezionare il nuovo passato prossimo che nel frattempo si è costituito. Prendono nota delle novità giunte dal mondo esterno e dei nuovi compimenti che hai saputo confezionare. Se non è stata consegnata alla mente abbastanza struttura, le agenzie di rating dell’umore decideranno per un declassamento. Devi essere laboriosa in silenzio per rispettare le consegne e guadagnare un’estensione del tempo felice, evitando il game over.

Non basta però mettere un freno agli spunti dispersivi e concentrarsi sulle strade intraprese. Ogni lavoro è simile ad una raccolta e prima di iniziare è necessario preparare un contenitore in cui salvare gli sforzi. Trattandosi di aspettative e di umore, che sono pezzi di spirito, il contenitore non può che essere un nome. Devi dare un nome ai tuoi lavori prima di cominciarli, così saprai quando li avrai finiti e li potrai poi mettere in esposizione sulle mensole nei corridoi del pensiero.

Non è facile prendere in mano la felicità senza farla morire. E di solito quando affrontiamo il problema ci rendiamo conto che dovevamo fare qualcosa prima. Bisogna giocare d’anticipo, dando più consapevolezza al nostro costruire. Non basta lavorare, bisogna preparare i nomi attorno ai quali fissare i flussi evanescenti del pensiero.

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SCRIVERE PAROLE PER TROVARE IMMAGINI – LE VIE CONTORTE DELL’ISPIRAZIONE E IL DISEGNO CREATIVO

Il mio cliente vuole un’illustrazione per un articolo. Dev’essere chiara ma senza cadere nel banale; non la trovo. L’articolo parla di bambini in un contesto di genitori separati, ed io sto collezionando bambini tristi e piangenti, illuminati o nella penombra, seduti da soli o strattonati dai genitori… Il foglio ed il pensiero si riempiono di immagini che sgomitano per un posto senza portarmi oltre. Le mie “creazioni” diventano una piccola folla che mi assedia col fastidio. Mi trovo incastrato fra la necessità di un’ispirazione e l’impossibilità di allungare la mano per prenderla. Più cerco di afferrarla e più lei mi sfugge.

Parlando dei suoi animali Konrad Lorenz faceva notare che il gioco può avvenire in situazioni in cui il pericolo è assente e la pancia è piena: quando non ci sono questioni importanti ed immediate da risolvere. Ma l’appuntamento con il mio acquirente è esattamente questo, e sembra impedire le condizioni del gioco creativo che esso stesso richiede.
È chiaro che l’accanimento sull’obiettivo non favorisce la nascita dell’immagine, ma nemmeno posso starmene a braccia incrociate a farmi prendere in giro da uno stupido orologio. Quale lavoro posso compiere per avvicinarmi all’ispirazione sotto vento, senza farla scappare? L’immagine buona sembra arrivare quando ne ha voglia lei, ma ci dev’essere nel retroscena dei pensieri una situazione favorevole alla sua nascita. Dev’esserci da qualche parte fra conscio ed inconscio un’idea della struttura che devo illustrare, che fornisca materia prima alla magia dei neuroni per potersi incamminare verso il punto G della creatività.

Dunque smetto di disegnare i bambini, e inizio a scrivere da dove sono venuti e dove andranno, dimenticandomi il loro aspetto. Lascio che si cancellino tutte le immagini che prima avevo collezionato, perché avevano assorbito il sudore dello sforzo con cui erano state concepite, e l’odore non era buono. Intervisto il soggetto dei miei quadri e ne racconto in parole il passato e il futuro, saltando di palo in frasca o scendendo nei dettagli che non finiscono mai, inventando di sana pianta oppure mescolando le mie esperienze alla fantasia. In questo modo posso dare sfogo alla tensione con un lavoro che mi avvicina al risultato. I nessi causali delle storie sedimentano in qualche luogo nascosto del pensiero, popolandolo di semi dai quali attendo un germoglio, in occasione del quale tornerò dal mondo delle parole a quello delle immagini.

Quando insistevo a cercare direttamente l’ispirazione nel campo delle immagini, le creazioni che funzionavano male[1] mi chiedevano aiuto perché io trovassi il guasto e le rendessi valide. Così ogni figura che non fosse quella giusta mi appesantiva e finiva per essere un danno. Adesso che mi sono spostato nel campo delle parole tutto ciò che costruisco non è nulla e non mi appesantisce, scivola via senza rimpianto perché non è quello che cerco.[2]
Ma in realtà questo flusso di parole non è soltanto un nulla, esso è anche la cura di qualcosa che io ancora non vedo; come c’è una danza per la pioggia ce n’è una per le immagini, e le parole sono le gocce per dimenticarle e poi ritrovarle.

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  1. [1]Tutte tranne l’ultima: quella buona che interrompe la ricerca.
  2. [2]Ovviamente la differenza tra la dinamica delle immagini e delle parole non è dovuta alla loro natura intrinseca, ma al fatto che le prime costituiscono il campo di destinazione finale, mentre le seconde costituiscono un campo intermedio.