Nel libro “Gioco e Realtà” Winnicott descrive alcuni aspetti fondamentali del gioco, contestualizzandoli nel processo di crescita della persona. La visione di Winnicott è illuminante per chi desidera porre il gioco al servizio dell’arricchimento spirituale e culturale dell’uomo.
Al principio del suo sviluppo il neonato vive in un flusso indistinto di percezioni e non è in grado di distinguere fra un fuori ed un dentro, fra una regione interna ed una regione esterna a sé stesso. Questa capacità se la conquisterà passo dopo passo nel corso di una maturazione destinata a durare molti anni. Gli oggetti transizionali, un concetto chiave della teoria di Winnicott, rappresentano una fase di transizione in questo lungo processo di formazione. L’oggetto transizionale può essere un peluche investito di una particolare carica affettiva, un ciuccio, un giocattolo o un oggetto che il bambino desidera avere sempre con sé e che lo rassicura quando deve dormire da solo.
Noi adulti vediamo l’oggetto transizionale come se fosse, appunto, un oggetto materiale, un entità a sé stante, indipendente dalla sfera psichica del bambino. Questi però, il bambino, vede le cose in modo diverso. Il bambino non riesce ancora a osservare il suo orsacchiotto preferito, per esempio, soltanto come un oggetto inanimato, ben distinto da sé stesso e dai propri sentimenti. Il bambino non sa concepirlo compiutamente come separato dalla propria interiorità, di cui ancora non padroneggia le complessità. In questo senso l’oggetto transizionale, come il gioco, non sta né dentro né fuori.
La comprensione del gioco, ci dice Winnicott, esige l’indagine di una terza area di esperienza che non si lascia catturare nello schema usuale che divide l’esteriorità dall’interiorità. Nel gioco l’esperienza interiore incontra il mondo senza confini predefiniti. Il gioco non è né dentro né fuori. Il gioco è il terreno della possibilità che ancora deve prendere forma.
La parte finale dell’articolo include alcune nostre considerazioni riguardanti l’area psichica interessata dal gioco in quanto frontiera di comprensione del mondo. Questo scritto fa parte di un più ampio progetto di ricerca sulla natura del gioco nell’uomo e negli animali.
IL PROCESSO DI SVILUPPO
LO STATO DI FUSIONE ALL’INIZIO DELLO SVILUPPO
Nelle fasi iniziali di vita il neonato si trova in uno stato psicologico di fusione fra il sé e l’ambiente, che non gli appaiono ancora come distinti. La percezione del neonato non dà luogo fin da subito al riconoscimento degli oggetti materiali circostanti, come avviene invece nell’adulto. In un certo senso la percezione del neonato assomiglia ad un flusso indistinto di luci, colori e suoni. Ci vorrà del tempo perché queste sensazioni imparino a raggrupparsi in formazioni stabili corrispondenti agli oggetti materiali.
Non è cosí facile cogliere la profonda diversità percettiva in cui si trova il bambino rispetto all’adulto, ed un paio di esempi potrebbero esserci d’aiuto. Quando vediamo un oggetto che va a finire dietro un ostacolo che lo nasconde alla vista, noi rimaniamo perfettamente consapevoli della sua permanenza pur al di fuori della nostra vista. Per il bambino invece questo non è scontato; si tratta di una competenza che non è presente da sempre, bensì appare ad un certo punto dello sviluppo.
Un altro esempio: nel vedere un telefono sul tavolo noi siamo immediatamente coscienti della possibilità di afferrarlo. Il bambino, invece, manca di questa coscienza, e la acquisisce soltanto a seguito di un’esperienza di manipolazione degli oggetti (quest’ultima può avere luogo in modo intensivo solo dopo l’acquisizione della padronanza della posizione seduta, la quale libera le mani dalla funzione di supporto).
Il neonato manca di molte strutture psicologiche di cui noi adulti disponiamo prontamente, ed in tale situazione di profonda immaturità non è in grado di organizzare la propria attività verso la soddisfazione dei desideri. Affinché ciò accada è necessario che la mamma si coordini alle iniziative che scorge nel piccolo, portandole a buon fine. Un esempio importante ne è l’atto di porgere il seno al neonato quando se ne manifesta il bisogno. Winnicott usa un’espressione diventata famosa per indicare questa sintonizzazione messa in atto della madre. Winnicott parla di “mamma sufficientemente buona”. La mamma sufficientemente buona è quella in grado di fornire al bambino l’esperienza di fiducia iniziale nel mondo, fiducia che diventerà il punto di partenza per il successivo processo di crescita.
Col passare del tempo il neonato acquisisce una capacità sempre maggiore di gestirsi da solo, nel corso di una lenta maturazione destinata a durare molti anni, al termine della quale si giunge ad un individuo in grado di distinguere ciò che è dentro di sé da ciò che è fuori di se, ciò che è me da ciò che è non-me. Nel corso di questo processo la mamma, secondo Winnicott, dovrebbe progressivamente ridurre il supporto portato al bambino, spingendolo moderatamente a prendere iniziativa autonoma.
GLI OGGETTI TRANSIZIONALI
Gli oggetti transizionali e i fenomeni transizionali sono cosí chiamati perché fanno parte di questo processo di transizione che prende le mosse da uno stato di iniziale fusione (fra ambiente esterno e zona interna), e che conduce, nel tempo, alla piena competenza nel distinguere gli oggetti esterni dalla propria interiorità.
Un esempio molto noto di fenomeno transizionale è succhiarsi il pollice, ma l’idea di fenomeno transizionale si estende ad un insieme piuttosto vario di attività, che possono includere tanto il generico portarsi gli oggetti alla bocca per succhiarli, quanto il tirare i fili di lana piuttosto che l’emettere i primi balbettii. Nell’ambito di queste attività “può emergere qualcosa o qualche fenomeno – forse un batuffolo di lana o l’angolo di una coperta o di un piumino, o una parola o una tonalità o un’abitudine – il cui uso diventa di importanza vitale per il bambino al momento di andare a dormire, e che sono una difesa contro l’angoscia, soprattutto l’angoscia di tipo depressivo. Forse qualche oggetto soffice o di altro tipo è stato trovato ed usato dal bambino e questo diventa allora ciò che io chiamo oggetto transizionale. Questo oggetto diventa sempre più importante. I genitori vanno accorgendosi del suo valore e lo portano con sé quando viaggiano. La madre lo lascia diventare sporco e anche puzzolente, sapendo che lavandolo introdurrebbe una rottura nella continuità dell’esperienza del bambino, rottura che può distruggere il significato e il valore dell’oggetto.”
Come Winnicott sottolinea, il coinvolgimento emotivo del bambino in questi fenomeni ed oggetti transizionali è molto intenso, ed il bambino non è in grado di gestirli come entità separate da sé stesso, come oggetti di cui semplicemente fare uso.
Gli oggetti transizionali corrispondono a dei nuovi modi di essere che non hanno ancora trovato una sistemazione chiara e definitiva nell’ambito di una rappresentazione ordinata del mondo, la quale presiede ad una compiuta distinzione tra ciò che è dentro di noi e ciò che è fuori di noi. Lo si vede bene nel caso di Winnie Pooh, che è citato come esempio dallo stesso Winnicott. Quando l’orso di pezza è osservato dai genitori, è soltanto un oggetto esterno ed inanimato ben distinto dalla vita interiore del bambino. Quando il medesimo orso è osservato dal bambino, esso si anima e prende vita, con un’evidente sovrapposizione fra l’oggetto materiale e la vita interiore del bambino. Il bambino non ha ancora la capacità di vedere l’oggetto materiale inanimato come un’entità distinta dal fluire dei propri desideri e della propria immaginazione.
L’ELEMENTO FEMMINILE PRIMORDIALE E L’ESPERIENZA DI ESSERE
Il processo di maturazione conduce dallo stato di fusione del neonato allo stato dell’adulto, in grado di articolare un vasto repertorio di attitudini e relazioni fra dominio interiore ed esteriore. Nel corso di tale processo compare e si affina la capacità di usare gli oggetti con distacco. Questa capacità di fare-uso di qualcosa è un tema che si presta ad interessanti approfondimenti, ma, prima di procedere in tal senso, c’è ancora qualcosa di importante da dire a riguardo dello stato di fusione iniziale.
Fin dalle primissime fasi di vita, forse anche prima della nascita, il bambino ha la possibilità di vivere quella che Winnicott indica come esperienza di ESSERE Si sarebbe tentati di dire che l’esperienza di ESSERE è una sorta di identificazione fra sé e l’ambiente, ma bisogna tener presente che il bambino non è ancora in possesso delle strutture psicologiche che corrispondono al sé e all’ambiente. La parola identificazione è usata da Winnicott per riferirsi a fenomeni più strutturati, che appaiono più avanti nel corso dello sviluppo. “Esperienza di ESSERE” è un’espressione specifica che Winnicott impiega per riferirsi allo stato di fusione iniziale, all’apeiron indefinito in cui le strutture psichiche dell’adulto non sono ancora delineate.
L’esperienza di ESSERE riveste una posizione fondamentale nell’ambito delle complesse vicende che presiedono allo sviluppo del bambino. Winnicott considera questa esperienza di ESSERE come l’elemento femminile presente in ciascuno di noi (sia nelle femmine che nei maschi): “Lo studio dell’elemento femminile distillato non contaminato puro ci porta all’ESSERE, e questo forma la sola base per la scoperta di sé e di un senso di esistere…”.
L’esperienza di ESSERE si presenta inizialmente in forma labile e si va consolidando anche grazie all’interazione con la madre, soprattutto quando questa è in grado di sintonizzarsi adeguatamente al bambino. La mamma soddisfa i desideri immediati del bambino, ne completa le tendenze, ed evita così l’insorgere di un dolore, di una qualche forma di sofferenza che interrompa la magia in cui il bambino si trova sospeso. Usiamo la parola magia per indicare una forma di coordinamento perfetto fra le diverse parti della persona, incluso il flusso di eventi e percezioni in cui ci si trova immersi, che può avvenire solo se questi eventi e percezioni sono sufficientemente armonizzati, grazie all’assistenza della madre sufficientemente buona.
LA MADRE CHE RISPECCHIA L’EMOTIVITÀ DEL BAMBINO
La situazione di faccia a faccia fra la madre ed il bambino costituisce un esempio interessante di come l’azione della madre può facilitare la maturazione del bambino assecondandone le tendenze ancora abbozzate.
Nella fase di fusione iniziale tra l’individuo e l’ambiente il neonato non è assolutamente in grado di interpretare il volto della madre come espressione dell’emotività della madre, e non è nemmeno consapevole del legame fra uno stato interno di benessere e la propria azione del sorridere. Se la madre però rispecchia col suo volto l’emotività del bambino, allora il bambino trova nel volto della madre un’esperienza che gli consente di sintonizzarsi su se stesso. Se volessimo fare un piccolo gioco di fantasia e creare una verbalizzazione immaginaria che renda conto, in qualche modo, dell’esperienza dal punto di vista del neonato, potremmo supporre che questo esclami in sé stesso: “Oh, ecco, io vedo che mamma sorride proprio nel momento in cui io ho cominciato a sentire questa sensazione calda di benessere che non so ancora come si chiama. Ma se mamma ha sorriso proprio in questo punto del mio processo interiore, allora io qui devo stare attento, perché proprio qui c’è qualcosa di importante di cui devo rendermi conto.”
Se invece la madre mostra costantemente al bambino un volto inespressivo o si concentra sempre sull’espressione della propria emotività, il bambino si troverà a confrontarsi con un’esperienza che non è ancora in grado di comprendere, e ciò potrebbe ostacolare lo sviluppo di una fiducia nella relazione fra sé stesso e la madre, e dunque fra sé stesso e il mondo.
Winnicott usa la metafora dello specchio per descrivere questa relazione di faccia a faccia tra la madre e il bambino, e descrive un caso esemplare. C’era una madre che mentre teneva in braccio la figlia continuava sempre a parlare con altre persone, cosí che non si concentrava adeguatamente sul rispecchiamento degli stati d’animo della sua bambina. Winnicott riporta una frase molto significativa pronunciata da questa bambina una volta diventata adulta, nel corso di una seduta terapeutica: “Non sarebbe terribile se il bambino guardasse nello specchio e non vedesse nulla?”
L’ELEMENTO MASCHILE, L’IMPULSO AGLI OGGETTI, LA DISTRUZIONE
La fusione, l’essere e la femminilità appartengono dunque ad una fase della psiche di natura primordiale. Essi costituiscono il contesto, la base su cui si può innestare l’azione di quello che Winnicott chiama elemento maschile (presente, anche questo, sia nelle femmine che nei maschi) e che compie la distinzione dell’io dall’oggetto. Winnicott associa “l’impulso riferito agli oggetti (anche la voce passiva di questo) con l’elemento maschile”.
Nell’ambito di ciò che Winnicott considera elemento maschile possiamo collocare l’istinto alla distruzione. La distruzione di cui parla Winnicott non è (o almeno non lo è sempre) una forma di reazione come quella a cui pensiamo normalmente quando si parla di rabbia: “L’attacco in stato di collera, relativo all’incontro con il principio di realtà, è un concetto più sofisticato, poiché pospone la distruzione che io postulo qui. Nella distruzione dell’oggetto a cui io mi riferisco non vi è rabbia.”
Quando il bambino tenta di distruggere qualcosa, allora si renderà conto della resistenza che quel qualcosa è in grado di offrire. Le tendenze distruttive del bambino favoriscono cosí lo sviluppo dell’idea di un oggetto indipendente dal soggetto. In questo senso, i processi innescati dalla distruzione contribuiscono alla creazione della realtà. Ma, affinché questa maturazione possa compiersi, è necessario che l’oggetto (o la persona) resista e sopravviva ai tentativi di distruzione del soggetto. L’oggetto si crea tramite la sopravvivenza ad un atto di distruzione.
“Si intende generalmente che il principio di realtà coinvolge l’individuo in rabbia e distruzione reattiva, ma la mia tesi è che la distruzione ha un ruolo nel fare la realtà, collocando l’oggetto al di fuori del sé.”
“… dopo “il soggetto entra in rapporto con l’oggetto”, viene “il soggetto distrugge l’oggetto” (quando diventa esterno); e poi potrebbe venire: “l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto”. Ma la sopravvivenza può esserci o non esserci.”
Winnicott parla di distruzione, ma al riguardo può sorgere una domanda: il fenomeno di cui parla Winnicott è sempre originariamente una distruzione, oppure può anche essere un movimento che nasce interiormente come un’affermazione di sé, e che diventa una distruzione solo per gli effetti esteriori che produce? Questa è una domanda che lasceremo aperta. Ciò che conta è che in ogni caso siamo in presenza di un’azione a cui viene offerta resistenza, ed è la resistenza offerta alla nostra azione che presiede alla consapevolezza di ciò che è altro da noi.
RESISTERE ALLA DISTRUZIONE DEGLI ADOLESCENTI
Il ruolo della resistenza alla distruzione non è limitato all’infanzia, ma si stratifica attraverso le stagioni di vita, e si ripropone anche tra il genitore ed il figlio adolescente. Il conflitto con il figlio, infatti, è generalmente inevitabile. Anzitutto, è impossibile non fare errori, e gli errori verranno rinfacciati dai figli ai genitori. Poi, anche se il genitore è perfetto, l’adolescente ha bisogno di diventare adulto attraverso la vittoria contro un altro adulto. Dunque i genitori si troveranno comunque ad essere sotto attacco, ed il loro ruolo è quello di resistere e di sopravvivere agli attacchi del figlio.
Non ci si può aspettare dall’adolescenza la visione a distanza, la consapevolezza soppesata del patrimonio culturale, la creazione di progetti responsabili, sostenibili, attendibili. E, d’altra parte, l’irresponsabilità dell’adolescente può fornire un contributo di vitalità alla società.
Ma, affinché l’adolescente viva la sua avventura, è necessario che il ruolo della responsabilità sia esercitato dagli adulti. È necessario che gli adulti resistano sulle loro posizioni, delimitando così lo spazio concettuale degli adolescenti, fornendo loro un punto di riferimento. Questo dovrebbe avvenire senza vendetta, senza ritorsione, piuttosto come fosse un arginare.
Se invece gli adulti lasciano il campo libero agli adolescenti, se per così dire abdicano dal loro ruolo, se tentano di risolvere ogni conflitto nascondendo il conflitto, cosi facendo tolgono all’adolescente il punto di riferimento contro cui combattere e affermarsi, e implicitamente gli richiedono un’assunzione di responsabilità di cui non sono capaci, creando una sorta di falsa maturità.
Winnicott sintetizza in questo modo il suo punto di vista sul ruolo dei genitori: “il meglio che essi possano fare è di sopravvivere, di sopravvivere intatti, e senza rinunciare ad alcun principio importante.”
LA FASE DELL’IO SONO E LE IDENTIFICAZIONI
Chiusa la digressione sul conflitto fra genitori e adolescenti, torniamo al processo di sviluppo che ha luogo nell’infanzia.
Lo stabilirsi di una consapevolezza di sé stessi distinti dal mondo esterno non avviene in un singolo atto, ma si stratifica, si specifica e si consolida nel corso di una maturazione che dura negli anni. Winnicott parla di fase dell’io sono per indicare un’esperienza di essere che già ha iniziato a consolidarsi ed è presente insieme ad una consapevolezza di ciò che è non-me. A partire dalla fase dell’io-sono diventano possibili i meccanismi di identificazione, che senza un io e un non-io non hanno senso (perché l’identificazione presuppone un io che esegua delle proiezioni di significato fra sé stesso e ciò che è altro da sé stesso). Tanto più si sviluppa questa consapevolezza della differenza fra me e non-me tanto più diviene possibile articolare delle forme di identificazioni strutturate, che si evolvono sulla base della consapevolezza di un sé distinto dagli altri. Al livello della fusione iniziale invece, non è lecito inferire una simile articolazione dell’identificazione.
“Quindi dalla parte dell’elemento maschile l’identificazione ha bisogno di basarsi su complessi meccanismi mentali, meccanismi mentali cui bisogna dare tempo per manifestarsi, per svilupparsi, e per stabilirsi come parte del corredo del nuovo bambino. Sul versante dell’elemento femminile, tuttavia, l’identità richiede cosí poca struttura mentale che questa identità primaria può essere un tratto fin dal principio e la base per semplicemente essere si può porre (diciamo) dal momento della nascita, o prima, o immediatamente dopo…”
Il fenomeno dell’identificazione è rilevante anche nell’ambito della relazione fra analista e paziente, fra i quali si stabiliscono delle reti di identificazioni reciproche. Queste corrispondono alla capacità di entrambi di mettersi uno nei panni dell’altro, e Winnicott si riferisce a questo incrocio di identificazioni con l’espressione identificazioni crociate.
“I pazienti che hanno una capacità limitata di identificazione introiettiva o proiettiva, presentano serie difficoltà per lo psicoterapeuta (…) In tali casi la principale speranza del terapeuta è di aumentare nel paziente la gamma delle identificazioni crociate…”
IL GIOCO
IL GIOCO COME SPAZIO POTENZIALE
Nella visione di Winnicott il gioco è una dimensione presente lungo l’intero arco della vita umana, a partire dalla relazione privilegiata fra madre e neonato fino all’età adulta. Winnicott concepisce il fenomeno del gioco nell’ambito di uno spazio potenziale che si manifesta per la prima volta fra la madre ed il bambino: “L’area di gioco è uno spazio potenziale tra la madre ed il bambino, o che congiunge la madre e il bambino”.
IL GIOCO HA BISOGNO DI UN CONTESTO PROTETTO
Uno spazio potenziale è uno spazio di possibilità di agire, del quale il bambino possiede qualche forma di consapevolezza. L’esplorazione di queste possibilità di agire può avvenire soltanto quando non vi sono altre necessità urgenti da soddisfare. Si gioca, per esempio, quando non si ha troppa fame e quando non si percepisce l’immediata presenza di un pericolo. Si gioca quando ci si sente al sicuro. Winnicott sottolinea in modo esplicito che il gioco può avvenire soltanto in un contesto protetto dove il bambino percepisce di potersi fidare.
IL GIOCO E L’EROTISMO
Il gioco è una forma di soddisfacimento autonoma rispetto all’erotismo, ed anzi, l’equilibrio del gioco è a rischio quando si attivano le zone erogene. In un certo senso si potrebbe dire che il contesto protetto in cui può originarsi il gioco implica anche una protezione dagli istinti erotici. (ciò non esclude che nell’adulto si possano sviluppare degli equilibri più complessi in grado di coniugare la sessualità ed il gioco).
IL GIOCO NON STA NÉ DENTRO NÉ FUORI
L’idea che il gioco sia uno spazio potenziale tra la madre ed il bambino si completa con l’idea per cui l’area di gioco non è collocata né dentro né fuori l’individuo: è tra me e gli altri. Il gioco non riguarda anzitutto l’interiorità o l’esteriorità. Il gioco riguarda anzitutto l’interazione fra esterno ed interno: “Questa area del gioco non è la realtà psichica interna. Essa è fuori dell’individuo, ma non è il mondo esterno.” e: “La cosa importante del gioco è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali.”
IL GIOCO È INTERAZIONE
La collocazione né dentro né fuori può essere interpretata come una tendenza all’interazione. Il gioco implica l’impiego di entità esterne coordinate da esigenze interne. È l’applicazione di un’interiorità all’esteriorità: “In questa area di gioco il bambino raccoglie oggetti o fenomeni del mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale. Senza allucinare, il bambino mette fuori un elemento del potenziale onirico, e vive con questo elemento in un selezionato contesto di frammenti della realtà esterna.”
L’interattività del gioco si manifesta anche nel suo essere una base per la comunicazione umana (che è una forma di interazione). Se accettiamo il fatto che l’atto comunicativo è un atto creativo, e se come Winnicott riteniamo che la creatività possa avvenire soltanto nel gioco, allora si arriva all’idea che “…solo nel giocare è possibile la comunicazione; ad eccezione della comunicazione diretta, la quale appartiene alla psicopatologia oppure a un grado estremo di immaturità.”
IL GIOCO E GLI OGGETTI TRANSIZIONALI
La collocazione né dentro né fuori suggerisce che il gioco sia assimilabile ai fenomeni transizionali, ed infatti Winnicott nota che “Vi è una linea diretta di sviluppo dai fenomeni transizionali al gioco, e dal gioco al gioco condiviso, e da questo alle esperienze culturali.” Non solo, Winnicott spiega anche che proprio lo studio degli oggetti transizionali gli ha consentito di intuire con più chiarezza la natura del gioco: “Per me il significato del gioco ha acquisito una nuova coloritura da quando ho seguito il tema dei fenomeni transizionali…”
IL GIOCO E LA CREATIVITÀ
Il gioco è collegato alla creatività, intesa non come un’eventualità eccezionale quanto piuttosto come un processo continuo che può rinforzarsi o indebolirsi: “È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé.”
Quando una persona “vive” e “partecipa alla vita della comunità”, allora “ogni cosa che accade è creativa”. Date le condizioni (di fiducia) opportune, allora “ogni dettaglio della vita del bambino è un esempio di vivere creativo”
LE FASI DEL GIOCO NEL CORSO DELLO SVILUPPO
Il gioco, secondo Winnicott, compare subito dopo lo stato iniziale di fusione tra lattante ed oggetto, nel momento in cui iniziano ad articolarsi le strutture del non-me. Quando l’idea degli altri si è sufficientemente sedimentata e stabilizzata, allora diviene possibile giocare da soli, sarebbe a dire con la consapevolezza di essere soli, cosa che nello stato di fusione non è possibile, perché non si è ancora sviluppata a sufficienza l’idea degli altri, ed essere soli non ha dunque senso. La fase seguente implica la capacità di accedere ad una sovrapposizione fra la propria area di gioco e quella di altri individui: “Il bambino si sta ora approntando per lo stadio successivo, che è quello di ammettere una sovrapposizione delle due aree di gioco, e di goderne.”
IL RAPPORTO PSICOANALITICO COME GIOCO
Il gioco per Winnicott non è circoscritto all’età infantile. Il gioco si manifesta anche in età adulta, ad esempio come scelta delle parole e dei toni. La psicoanalisi stessa è per Winnicott una forma molto elaborata di gioco: “…la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con sé stessi e con gli altri.”
“Mi sembra che sia valido il principio generale che la psicoterapia si svolge nella sovrapposizione di due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non è in grado di giocare allora non è adatto al lavoro. Se il paziente non è in grado di giocare, allora c’è bisogno di fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di diventare capace di giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare. La ragione per cui giocare è essenziale è che proprio mentre gioca il paziente è creativo.”
La terapia psicoanalitica è un modo di prendersi cura dell’uomo. Vedere questa forma terapeutica come gioco è tutt’uno col ritenere che nel vivere creativo (e quindi nel gioco) si trovi una chiave di accesso al senso della vita: “Noi vediamo che o gli individui vivono creativamente e trovano che la vita vale la pena di essere vissuta, o che non possono vivere in maniera creativa e dubitano del valore del vivere. Questa variabile negli esseri umani è direttamente in rapporto alla qualità ed alla quantità di opportunità ambientale all’inizio o nelle prime fasi dell’esperienza di vita di ciascun bambino.”
L’ESPERIENZA CULTURALE E LA TRADIZIONE
La creatività ed il gioco hanno un’origine biologica e sono presenti, in diversi gradi, anche nel mondo animale. Quando alla creatività del gioco si aggiunge la possibilità di tramandare le proprie scoperte di generazione in generazione, allora si costituisce l’area dell’esperienza culturale: “Il luogo in cui l’esperienza culturale è ubicata è lo spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente (originariamente l’oggetto). Lo stesso si può dire del gioco. L’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo, ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco.” L’esperienza culturale è una forma di creatività che prende le mosse dall’eredità di significato raccolta da chi è vissuto prima di noi. La tradizione risponde al bisogno di avere “un posto dove mettere ciò che troviamo” per conservarlo e passarlo ad altri. “Nel fare uso della parola cultura io penso alla tradizione che si eredita.”; “…in ciascun campo culturale non è possibile essere originale eccetto che sulla base della tradizione.”
PER VIVERE LA TERZA AREA: PROTEZIONE, FIDUCIA E PATRIMONIO CULTURALE
Il gioco secondo Winnicott, lo abbiamo visto, si pone come terza area alternativa alla dicotomia secca fra dentro e fuori. La dimensione del fuori può essere esemplificata pensando a quelle persone che interpretano la vita in base al rapporto con gli oggetti esterni e al comportamento osservabile nel mondo. Vi sono poi altre persone che si concentrano sull’esperienza interiore, mistica, e subordinano ad essa i fatti economici e materiali. Quest’ultimo sarebbe l’approccio a cui ci riferiamo quando parliamo della zona che sta dentro. A Winnicott interessa un luogo intermedio fra questi due poli. Tale è luogo dove normalmente viviamo e del quale indaghiamo la natura, il luogo dove vi è un confronto intenso fra le aspettative generate dal soggetto e il riscontro concreto fornito dal mondo.
Mentre la realtà esterna e la realtà interna sono entrambe dotate di una loro forma di struttura stabile, la terza area (la sede dell’esperienza culturale e del gioco) è molto variabile e dipende dalle esperienze della singola persona. Affinché si possa vivere in modo adeguato questa terza area, vi sono due esigenze:
“La prima necessità (…) è di proteggere il rapporto bambino-madre e bambino-genitore (…) cosicché possa verificarsi l’esistenza dello spazio potenziale in cui, grazie alla fiducia, il bambino è in grado di giocare creativamente.
La seconda necessità è (…) di essere pronti a porre ciascun bambino in rapporto con gli elementi appropriati dell’eredità culturale a seconda delle capacità del singolo bambino e della sua età emozionale, e della sua fase di sviluppo.”
Se c’è una singola idea di Winnicott che vogliamo ergere a principio pratico è proprio questa: per promuovere la vita dell’uomo è necessario fornirgli protezione (fiducia) e patrimonio culturale.
La Formula di Winnicott
IL FANTASTICARE PATOLOGICO – UN CASO DI FALSO GIOCO
Nel secondo capitolo di Gioco e Realtà, Winnicott si sofferma sul caso di una donna che era solita dissociarsi dalla realtà circostante, dedicandosi a forme di fantasticare di natura patologica. Tale comportamento potrebbe a prima vista essere chiamato gioco, ma costituisce un fenomeno di natura differente. La paziente descritta da Winnicott si era specializzata nel vivere in un suo mondo parallelo anche mentre conduceva ogni tipo di attività insieme ad altre persone. Con l’andare del tempo aveva sviluppato un approccio alla vita per cui nulla era davvero importante, e passava un tempo lunghissimo persa nelle sue immaginazioni. Le immaginazioni non si trasformavano in attività reali, perché nel tentativo di rendere le sue attività più concrete la paziente trovava degli ostacoli pratici che le facevano perdere l’interesse. Preferiva l’onnipotenza del mondo immaginario alla difficoltà di interagire col mondo vero.
Il tratto fondamentale della condizione appena descritta era la profonda dissociazione rispetto alla vita reale. Il sognare ad occhi aperti di questa donna si presentava come radicalmente diverso dal sogno vero e proprio, che non è isolato rispetto al vivere quotidiano ma ne riflette gli andamenti emotivi. Winnicott osserva esplicitamente che un simile fantasticare patologico non è una forma di gioco, e che il gioco è più prossimo all’ordine del vivere e del sogno: “Si può qui osservare che il gioco creativo è imparentato con il sogno e col vivere ma essenzialmente non appartiene al fantasticare.” In ciò intravediamo la conferma del fatto che la natura del gioco è quella di coinvolgere ed integrare in unità di significato nuove, là dove il tratto distintivo del fantasticare descritto da Winnicott è la dissociazione.
CONSIDERAZIONI FINALI
WINNICOTT, IL GIOCO E LE NEUROSCIENZE AFFETTIVE
La nostra ricerca sulla natura del gioco nasce dalla visione delle neuroscienze affettive elaborata da Jaak Panksepp, che considera il gioco come un sistema emotivo di natura biologica. Nel corso della nostra ricerca abbiamo letto una varietà di pubblicazioni che prendono in considerazione il gioco da punti di vista molto diversi. Si va dall’etologia alla filosofia, dalla psicologia alla pedagogia, dallo sviluppo del bambino alle strategie manageriali. In Donald Winnicott abbiamo trovato una visione capace di mettere a fuoco in modo sorprendentemente chiaro e profondo alcuni dei più importanti aspetti del gioco. Il libro Gioco e Realtà, d’altra parte, non costituisce una descrizione sistematica e coerente del gioco, quanto piuttosto una collezione di approcci di estremo interesse ma non portati del tutto a coerenza. Per questo abbiamo ritenuto opportuno fare lo sforzo di riesporre il pensiero di Winnicott, riordinandolo secondo una narrativa il più possibile intuitiva e coerente. Questa narrativa ha preso le mosse dallo stato di fusione iniziale, si è mossa attraverso le fasi di distinzione fra ciò che è me e ciò che è non me, e si è quindi soffermata sui vari aspetti del gioco evidenziati da Winnicott.
La sintesi che abbiamo fatto a riguardo del gioco, lo si è visto, ha assunto una forma meno unitaria ed integrata rispetto a quanto detto sul processo di sviluppo. Dare una maggiore fluidità al discorso sul gioco è la sfida di fronte alla quale ci troviamo. Essa sottintende una più profonda comprensione del fenomeno del gioco, e si inserisce nel più ampio panorama dell’indagine scientifica sui sistemi emotivi.
Il lettore attento avrà forse notato che nell’apparato di note a fondo pagina abbiamo già introdotto alcune possibili aperture rispetto alla visione originale elaborata da Winnicott. Qui di seguito ci concentriamo su un aspetto in particolare, e andiamo a mettere in evidenza un nostro approccio (non attribuibile direttamente a Winnicott) relativo alla tematica del dentro e del fuori.
NON FUORI E DENTRO, BENSÌ SULLA FRONTIERA
Winnicott colloca il gioco in una terza area rispetto al dentro ed al fuori, rispetto all’interiorità e all’esteriorità. Queste ultime sono due zone di indagine tipiche della tradizione psicoanalitica e al tempo stesso due concetti molto prossimi al senso comune. In base alla nostra comprensione intuitiva di tali concetti, è molto facile pensare che una qualsiasi entità scelta a piacere stia dentro di noi oppure fuori di noi. Nel momento in cui si indica una terza zona alternativa al dentro e al fuori, dunque, si tende a creare una sorta di paradosso, perché siamo abituati a pensare il dentro ed il fuori come due regioni che esauriscono le possibilità di collocazione delle entità nel mondo. Tale paradosso può essere utile come invito a staccarsi dai modi abituali di pensiero, ma poi è anche necessario dare una sistemazione coerente e non paradossale a tale riflessione, che confluisca nella comprensione del fenomeno del gioco. Ci sembra che sia possibile tentare di impostare la soluzione come segue.
La terza area cui il gioco appartiene può essere interpretata come un’area di frontiera, come un’area di definizione ancora incompleta (l’idea di frontiera tende a stabilire un ponte fra la visione di Winnicott e quella di Vygotsky, che ha elaborato l’idea di Zona di Sviluppo Prossimale). Il gioco è pertinente alla fase di comprensione del mondo, e non sta né dentro né fuori perché non riguarda le proprietà regolari del mondo identificate con sicurezza una volta per tutte. Riguarda invece una zona di elaborazione in corso, una zona liminale, una zona di confine fra il certamente noto e lo sconosciuto rispetto alla quale siamo ancora in fase di approccio.
Prendiamo l’esempio del bambino che sta imparando a camminare. Per lui compiere i passi è una cosa nuova e la vive come un gioco. Il sistema nervoso del bambino non è ancora in grado di disporre compiutamente i passi uno dopo l’altro. La competenza del camminare è ancora in fase di formazione, ed il gioco del camminare non sta né dentro né fuori. Potremmo forse dire che sta dappertutto. Sta nelle sensazioni muscolari come nel sostegno offerto dal pavimento, nel luogo che il bambino vuole raggiungere come nel ritmo dei passi che si concatenano uno con l’altro, nelle incitazioni da parte dei genitori come nel desiderio di soddisfarli.
Per l’adulto, diversamente dal bambino, è possibile discorrere del processo del camminare individuandone le diverse proprietà e collocandole nel dominio esteriore piuttosto che interiore. La sensazione del peso sul callo è interiore, mentre il pavimento su cui cammino è esteriore, cosí come il luogo che voglio raggiungere. Il ragionamento che faccio per collocare il passo è interiore, mentre il piede che si appoggia proprio nel punto giusto è più prossimo al dominio dell’esteriorità. Soprattutto, per l’adulto, il camminare può funzionare in modo automatico ed è un’esperienza ben definita, conosciuta, classificata. Per il bambino invece è un universo da scoprire.
Con questo esempio forse si vede meglio che la caratteristica del gioco è solo in seconda battuta quella di non essere né fuori né dentro ed in maniera più profonda quella di stare sulla frontiera di comprensione del mondo, là dove sta avvenendo un’integrazione di informazione che provoca un notevole senso di unità e di fluidità.
Winnicott ha scelto di organizzare il tema del gioco sulla dicotomia dentro-fuori. Noi crediamo che questa coppia di opposti sia sì importante, ma crediamo anche che vi sia un modo alternativo di affrontare la questione, per certi versi più proficuo. La nostra ipotesi di lavoro si può descrivere brevemente in questo modo: ciò che comanda (nel senso di ciò che è più primitivo, originario, ancestrale nell’architettura della mente) non è la distinzione fra fuori e dentro. Ciò che comanda è la scoperta di ciò che è stabile, di ciò che dura, di ciò che torna. La distinzione fra fuori e dentro può quindi essere vista come un’articolazione che si sviluppa in parallelo alla scoperta degli enti stabili che incontriamo nel mondo.
Fra le cose che si dimostrano solide e durevoli nel nostro mondo vissuto, si arriva presto a distinguere la famiglia dei corpi fisici materiali, la quale include sia gli oggetti animati che quelli inanimati. I corpi fisici materiali hanno delle notevoli caratteristiche intrinseche di stabilità, e queste caratteristiche sono pubbliche, ovvero appartengono a un dominio condiviso con le altre persone. Gli oggetti materiali hanno una forma stabile, sono dotati di un certo grado di durezza, sono colorati, non sono interpenetrabili e sono incontrabili dalle nostre mani. Ciò che noi chiamiamo fuori si fonda normalmente su questa famiglia di entità (in modo speculare, l’interiorità riguarda entità di tipo soggettivo, accessibili soltanto alla singola persona).
L’essere umano, d’altra parte, non sembra essere organizzato in modo tale da individuare una precisa linea che distingua ciò che gli è interno da ciò che gli è esterno. E lo si intuisce meglio se si prova a riflettere sulla precisa collocazione di entità come ad esempio i numeri, o la bellezza o l’armonia, solo per fare un esempio. Oppure i colori, le forme, le leggi fisiche, le parole, il sapere e le convenzioni sociali. Incluse le regole dei giochi.
La discussione su ciò che sta dentro e ciò che sta fuori si colloca nell’ambito del più ampio dibattito fra realismo ed idealismo, e induce in chi la affronta una sottile traslazione dello sguardo. Ogni organismo vivente pare essere calato nel fluire della realtà come in un grande apeiron indefinito di cui è chiamato a scoprire la struttura nascosta, inclusa la mappatura dei luoghi che si possono indicare come esteriori o interiori.
Winnicott ha collocato il gioco in una terza area alternativa ad interiorità ed esteriorità. Noi abbiamo tentato di interpretare questo luogo misterioso come una sorta di frontiera di comprensione del mondo. Winnicott suggerisce anche che fornire il patrimonio culturale adeguato promuova il gioco. Ma cosa significa fornire patrimonio culturale, se non andare ad alterare proprio la nostra frontiera di comprensione del mondo?
È questa un’osservazione che per ora poniamo soltanto senza tentare di trarne tutte le conseguenze. Le idee appena esposte hanno bisogno di tempo per sedimentare, e il prossimo passo della nostra ricerca potrebbe essere l’esposizione della visione di un altro grande teorico del gioco. Potrebbe essere Piaget, o forse Huizinga.
In attesa degli sviluppi ulteriori di quest’indagine, vorremmo lasciare al lettore un’immagine che ne sottolinei l’importanza.
La frontiera di cui stiamo parlando si configura come un luogo cui è desiderabile stare vicini, ma non è questo un compito facile. La frontiera di se stessi non è una sorta di linea regolare che trasla in avanti come il limite delle terre dissodate, delle paludi bonificate, o dei territori nemici conquistati. La struttura della frontiera di comprensione assomiglia più alla forma delle fiamme, o al profilo delle nuvole in un giorno ventoso. Essa è mobile, complessa e sfuggente.
Saremo in grado di scrivere la formula di queste nuvole e di queste fiamme? Riuscirci significherebbe porsi in modo diverso di fronte al tempo e ai giorni. Significherebbe sapere in ogni situazione quale è l’atto di comprensione giusto che consenta di stare nella luce. Avremmo allora a che fare con una trasfigurazione capace di spostare qualitativamente il piano in cui il nostro vivere accade.
Ecco, noi siamo ottimisti, e dalla comprensione del fenomeno gioco non ci aspettiamo niente di meno che questo. Una nuova arte dei giorni, di un tipo che mai si era visto prima.
INDICE DEL LIBRO GIOCO E REALTÀ
Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Indice (prima parte).
Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Indice (seconda parte).
BIBLIOGRAFIA DEL LIBRO GIOCO E REALTÀ
Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Bibliografia (prima parte).
Donald Winnicott 1971, Gioco e Realtà, Bibliografia (seconda parte).
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