Attaccamento evitante e attaccamento ansioso negli adulti (Perché la via verso gli altri è importante)

La persona con uno stile di attaccamento evitante1 tende a minimizzare lo stress dovuto alle relazioni.

Gli individui evitanti interpretano le situazioni dando un’importanza secondaria ai legami affettivi. Nel fare ciò adottano spesso visioni materialistiche del mondo, oppure danno rilevanza a tematiche quali il raggiungimento del successo, le posizioni di autorità e sottomissione, i ruoli sociali stereotipici.2

Le persone evitanti impiegano schemi di pensiero negativi a riguardo alle figure con cui interagiscono nelle relazioni affettive. Più precisamente, tendono ad aspettarsi un rifiuto in risposta al proprio bisogno di conforto. “Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di diventare autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista…”3

Gli evitanti tendono a non impiegare espressioni di attaccamento diretto. Probabilmente non pronunciano spesso frasi come “Ho bisogno di te” oppure “Mi manchi”. Forse ritengono che l’attaccamento sia improduttivo, e nei momenti di difficoltà si sentono spinti a prendere iniziativa in prima persona, senza appoggiarsi a risorse esterne. Nel relazionarsi con gli altri, si lasciano spesso guidare dall’idea di come le persone dovrebbero comportarsi in un certo contesto, anziché attingere ad una forma di sensibilità personale.

Le persone con uno stile di attaccamento ansioso, a differenza degli evitanti, vengono sopraffatte dalle questioni relazionali. Esse non distolgono la loro attenzione dalle dinamiche di attaccamento, al contrario, rimangono coinvolte in una riflessione continua che oscilla fra emozioni positive e negative. Queste persone faticano, per così dire, a tirare una linea, a giungere ad una comprensione compiuta ed integrata della relazione. Là dove gli evitanti ottengono la loro imperturbabilità e la loro coerenza mettendo in un angolo le dinamiche relazionali, gli individui con uno stile di attaccamento ansioso amplificano i segnali dotati di un significato relazionale affettivo, e faticano a raggiungere una valutazione della situazione solida, stabile e coerente. A volte può succedere che gli ansiosi sappiano identificare i passi opportuni da compiere per migliorare la propria situazione, ma fatichino a compierli, a metterli in atto. Rimangono per così dire bloccati nel processo di valutazione senza raggiungere il momento dell’azione. Là dove il momento dell’azione può essere ad esempio qualcosa che facciamo per ritrovare la vicinanza col partner. Gli evitanti, invece, trovano più facile agire e prendere l’iniziativa, ma intraprendono un’azione non focalizzata alla risoluzione del bisogno relazionale, perché non l’hanno voluto riconoscere come importante.

Anche le persone con attaccamento ansioso portano con se degli schemi di pensiero negativi a riguardo delle proprie figure di attaccamento. È molto probabile che i genitori degli ansiosi abbiano alternato atteggiamenti accoglienti ad atteggiamenti meno disponibili. Come conseguenza, queste persone hanno interiorizzato un modello operativo ambivalente e non si sentono sicure di poter ricevere l’aiuto necessario dalla figura di attaccamento.4

Nel momento in cui prendiamo in considerazione la relazione col passato, notiamo che l’ansioso tende a parlare delle proprie esperienze in modo prolisso e rimanendone in qualche modo incagliato. L’evitante invece tende a ricordare gli eventi con poca precisione ed emozione, ed è possibile che metta in atto delle forme di idealizzazione delle figure parentali.

Lo stile di attaccamento evitante e lo stile di attaccamento ansioso non sono due universi completamente separati. È possibile riconoscere in sé stessi alcuni tratti dell’uno o dell’altro stile. È anche possibile che la medesima persona metta in atto comportamenti di attaccamento differenti a seconda della circostanza in cui si trova (ad esempio sul lavoro, nella coppia, con gli amici, in famiglia). Lo stile di attaccamento, inoltre, non è una caratteristica fissata una volta per tutte, e può cambiare con le esperienze che si compiono nel corso della vita.5 Lavorare sul proprio stile di attaccamento significa anzitutto imparare a riconoscere gli schemi concettuali che impieghiamo per interpretare il nostro comportamento e quello delle altre persone.

Sia l’attaccamento evitante sia l’attaccamento ansioso sono considerati come forme di attaccamento insicuro. Entrambi possono essere compresi meglio se confrontati con l’attaccamento sicuro, e se li poniamo nel quadro più generale della teoria dell’attaccamento.

La teoria dell’attaccamento, sviluppata anzitutto da John Bowlby nella seconda metà del Novecento, costituisce ambito molto rilevante della psicologia contemporanea. Essa ritiene che ogni essere umano abbia un intimo bisogno di vicinanza nei confronti dei propri simili. Nel bambino, a partire dai sei mesi circa, questo bisogno può essere soddisfatto soltanto dalla presenza fisica della madre, o comunque della figura principale di attaccamento. Col passare del tempo il bambino interiorizza la figura della madre e delle altre persone a cui è legato. Riesce così ad intraprendere esplorazioni del mondo che giungono sempre più lontano dalla propria base di partenza, a cui però fa sempre ritorno. Nell’adulto valgono le stesse dinamiche, anche se, ovviamente, la stratificazione della vita mentale di una persona adulta è incomparabilmente più complessa rispetto al bambino. Il punto fondamentale è che anche l’adulto ha bisogno di sentirsi connesso alla propria base sicura. La differenza fra il bambino e l’adulto è che quest’ultimo ha sviluppato una comprensione del mondo molto più complessa ed articolata. Il bisogno di connessione alla base sicura può quindi essere soddisfatto anche solo a livello mentale, ad esempio facendo appello a degli opportuni ricordi.

Ecco alcune parole di Bowlby relative al concetto di base sicura: “Il concetto di una base personale sicura, da cui un bambino, un adolescente, o un adulto parte per esplorare e a cui ritorna di tanto in tanto, è un concetto che sono giunto a considerare cruciale per capire come una persona emotivamente stabile si sviluppi e funzioni per tutta la vita.”6

È opportuno osservare che la psicologia ufficiale non ha sempre riconosciuto il bisogno di legami sociali come un istinto fondamentale dell’essere umano. Al tempo di Freud, ad esempio, era normale pensare che l’attaccamento del bambino alla madre fosse una conseguenza della nutrizione. Vi furono molte resistenze iniziali nei confronti del lavoro di Bowlby, negli anni cinquanta e sessanta, ma le molteplici ricerche condotte su questo tema gli diedero sostanzialmente ragione.

La lontananza dalla base sicura è percepita dunque dall’essere umano come una forma di mancanza. La naturale conseguenza di questa mancanza è un’azione volta al ricongiungimento. È per questo che il bambino piccolo rimasto da solo piange: per richiamare l’attenzione della mamma e ricongiungersi ad essa. L’adulto non percepisce il medesimo intenso spaesamento del bambino piccolo senza la mamma, e non piange con la medesima immediatezza, ma è soggetto a dinamiche interiori molto simili. Lo si vede bene nel senso di vuoto che si prova all’interrompersi di ogni relazione significativa. In tale circostanza, la reazione tipica di una persona caratterizzata da una forma di attaccamento sicuro è quella di riconoscere apertamente tale senso di vuoto e di tentare le azioni disponibili volte al ricongiungimento, ove questo è possibile. Da una persona tipicamente evitante ci aspettiamo invece che sottovaluti l’importanza del sentimento di mancanza, mentre da una persona con attaccamento ansioso ci aspettiamo che soffra particolarmente a causa della separazione, e che non sia in grado di mettere in atto con sicurezza e padronanza le azioni volte al ricongiungimento.

Quando si parla di una persona dotata di uno stile di attaccamento sicuro non si intende dire che questa persona sia imperturbabile e non venga toccata dall’allontanamento degli altri. La persona sicura è quella che non ha paura di riconoscere il sentimento di mancanza, il quale sorge in modo naturale quando qualcuno di importante si allontana. La persona sicura non ha paura di mostrare la propria vulnerabilità perché sa occuparsene. Per quanto riguarda l’imperturbabilità, noi possiamo anche immaginarci che sia il risultato di una riflessione profonda, la quale tiene dovutamente in considerazione l’inestimabile valore delle relazioni umane. Purtroppo però, l’imperturbabilità può anche presentarsi come una maschera portata da chi preferisce non riconoscere quel bisogno relazionale che negli esseri umani è costitutivo.

Come abbiamo già accennato, la teoria dell’attaccamento è stata sviluppata nella seconda metà del novecento. In anni più recenti, fra la fine del novecento e l’inizio del ventunesimo secolo, nell’ambito delle neuroscienze è nato un nuovo campo di studi chiamato neuroscienze affettive. Le neuroscienze affettive, il cui fondatore è Jaak Panksepp, hanno individuato sette sistemi emotivi fondamentali: la paura, la rabbia, l’interesse, l’eccitazione sessuale, il gioco, la cura e la pena della solitudine.7 Gli ultimi due in particolare si accordano molto bene con la teoria dell’attaccamento. Abbiamo infatti nel bambino una pena della solitudine che corrisponde a una forma di dolore spirituale dovuto alla mancanza dei legami sociali più intimi. La pena della solitudine è strettamente collegata a quel modo di sentire che nella teoria dell’attaccamento viene chiamato ansia di separazione. Nella madre troviamo invece un profondo sentimento di cura, equivalente all’amore materno, che si attiva in particolar modo quando la madre percepisce empaticamente la pena della solitudine nel bambino.

Si vede abbastanza chiaramente che i sistemi emotivi fondamentali sono il contesto più ampio in cui comprendere le dinamiche dell’attaccamento. Chi scrive ha pubblicato un libro divulgativo proprio su questo tema: Le emozioni di base secondo Panksepp.

Prima di procedere, proviamo a dare un ritratto più completo delle persone contraddistinte da una forma di attaccamento sicuro. Queste si caratterizzano per la capacità di impiegare gli altri come una base solida da cui trarre la sicurezza necessaria ad intraprendere le proprie attività nel mondo. Le persone sicure esprimono chiaramente il loro desiderio di connessione con gli altri, e quando si trovano in una condizione di distanza dalle figure di riferimento, si attivano per ristabilire la vicinanza. La vicinanza può essere ristabilita in modo fisico, oppure mentalmente. Le persone con attaccamento sicuro raggiungono un’idea del partner che rimane stabile anche attraverso diversi periodi di assenza o attraverso circostanze di vita differenti. I soggetti sicuri riconoscono l’importanza delle relazioni, di cui hanno un’idea bilanciata e reciproca.

Da un punto di vista più generale la ricerca ha mostrato che le persone con attaccamento sicuro sono tendenzialmente impegnate in modo più consistente nelle loro relazioni, sono più coinvolte nel ruolo genitoriale e pronte a fornire supporto, meno affette da sintomi depressivi, più abili ad adattarsi ad eventi stressanti in modo flessibile.8

In questo articolo abbiamo utilizzato per chiarezza espositiva i termini evitante ed ansioso in riferimento alle dinamiche di attaccamento negli individui adulti. Bisogna però ricordare che questi termini sono impiegati anzitutto in riferimento ai bambini. In ambito specialistico, per gli adulti si impiegano più spesso i termini distanziante al posto di evitante e preoccupato al posto di ansioso.

Per una trattazione riferita ai bambini potete leggere questo nostro articolo: (in fase di scrittura)

In aggiunta all’attaccamento sicuro, evitante/distanziante ed ansioso/preoccupato, esistono anche delle forme di attaccamento disorganizzato/irrisolto che non è possibile ricondurre immediatamente agli schemi visti finora. Questo tipo di attaccamento è legato alla presenza di traumi irrisolti, che spesso implicano la perdita di una figura di attaccamento.9

Dopo aver descritto nelle linee generali i tipi principali di attaccamento è naturale chiedersi quale sia la loro diffusione. Secondo alcuni studi, l’attaccamento sicuro contraddistinguerebbe circa il 60% della popolazione adulta. Il restante 40% si dividerebbe fra percentuali simili di individui con attaccamento evitante ed individui con attaccamento ansioso. Questi dati sono riferiti a persone non affette da particolari patologie.10

La differenza di attaccamento fra uomini e donne è un tema che è stato approfondito soltanto di recente. Al momento non vi sono teorie che hanno raggiunto un consenso diffuso fra gli esperti in materia. Sono però disponibili alcune indicazioni che riportiamo nei paragrafi seguenti.11

Dalle statistiche interculturali risulta che gli uomini sarebbero più propensi ad assumere uno stile evitante/distanziante, mentre le donne sarebbero più propense ad assumere uno stile ansioso/preoccupato. La tendenza degli uomini ad assumere uno stile evitante corrisponderebbe ad una strategia generale consistente nel tenere basso l’impegno nella relazione. Al contrario, la tendenza delle donne ad assumere uno stile ansioso corrisponderebbe ad una strategia tesa a massimizzare l’impegno del partner. Si fa riferimento con ciò al fatto che l’ansia della donna richiamerebbe empaticamente l’aiuto da parte dell’uomo. Bisogna comunque tener presente che le differenze appena descritte, statistiche alla mano, si rivelano poco pronunciate. Esse sembrano diventare più rilevanti quando si va a considerare alcuni aspetti più specifici.

Una componente del comportamento evitante è la tendenza a fare affidamento su sé stessi evitando di parlare dei problemi, di chiedere aiuto e di condividere le emozioni. Questo atteggiamento sarebbe più tipico degli uomini. Un’altra componente dello stile evitante è il disagio provato per la vicinanza fisica del partner, che si manifesta in modo simile sia negli uomini sia nelle donne.

Nell’attaccamento ansioso vi sono due fenomeni più evidenti nelle donne che negli uomini. Uno è la paura di essere abbandonati o trascurati, mentre l’altro è una forma di rabbia o frustrazione dovuto a indisponibilità o disinteresse da parte del partner. Un’altra componente dell’attaccamento ansioso consiste in un desiderio di vicinanza non corrisposto dal partner, e sarebbe più tipica degli uomini.

In generale, le differenze di attaccamento fra maschi e femmine sarebbero assenti nei bambini di pochi anni, ed emergerebbero nel corso dello sviluppo verso l’adolescenza.

Per tutto quello che abbiamo detto risulta chiaro che i meccanismi di attaccamento incidono in modo estremamente significativo sulla nostra vita emotiva. Essi, infatti, intervengono nei nostri livelli di motivazione e nella percezione di ciò che è urgente ed importante. I suggerimenti che possiamo trarre dalla teoria dell’attaccamento si rivelano dunque importanti al fine di definire e realizzare un progetto di vita soddisfacente. Il primo suggerimento è quello di chiederci chi e in che modo costituisce per noi una base sicura. O chi potrebbe farlo. Il secondo suggerimento è di prestare attenzione a quel vuoto più o meno pronunciato che si crea quando per un qualsiasi motivo interviene una distanza fisica o affettiva dalla nostra base sicura; fosse anche solo per un dettaglio che il nostro partner si è dimenticato. Il terzo suggerimento è quello di imparare a chiamare gli altri quando ne abbiamo bisogno. Di imparare, più in generale, ad esprimere chiaramente il nostro sentimento di mancanza.

Questi semplici suggerimenti non sono la formula semplice per risolvere alla svelta i nostri problemi relazionali. Ma forse possono evitarci di cascare in alcune trappole affettive o cognitive capaci di tenerci prigionieri a lungo, senza che noi ce ne accorgiamo.

Esprimere il sentimento di mancanza, in particolare, può essere difficile nell’ambito di una relazione conflittuale in cui il nostro partner non rispetta adeguatamente il bisogno che andiamo ad esprimere. Ed anzi lo utilizza come un punto debole su cui fare leva. Purtroppo però, esprimere il nostro bisogno più intimo è una mossa per così dire irrinunciabile, e non possiamo sottrarci dal farlo, senza poi pagarne le conseguenze. Ad esempio perdendo l’accesso all’intimità col nostro partner, e sentendoci più soli.

Un’ultima opinione da parte di chi scrive: si può, e forse in un certo senso si dovrebbe, imparare ad essere autonomi ed indipendenti. Ma ciò può accadere soltanto nella memoria degli altri, soltanto ricordandosi di loro, soltanto rimanendo pronti ad incontrarli. La vera autonomia non può accadere nel rifiuto degli altri, che è destinato a renderci poveri. Questo, naturalmente, è l’ideale, e sappiamo bene che poi l’incontro reale con le altre persone è irto di piccole difficoltà. Noi però vorremmo pensare che a questa “corona di spine”, per così dire, ci si possa approcciare con l’intenzione di non pungersi, e di scostare le spine per fare spazio ad altro.



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1Gli attaccamenti evitante, ansioso, sicuro e disorganizzato sono stati individuati da Mary Ainsworth nei bambini piccoli. Successivamente la Main ha individuato queste categorie per gli attaccamenti in età adulta: Distanziante (corrispondente al tipo Evitante nei bambini piccoli), Preoccupato (corrispondente al tipo ansioso nei bambini piccoli), Autonomo (corrispondente al tipo sicuro nei bambini piccoli, Irrisolto (corrispondente al tipo disorganizzato nei bambini piccoli). Nella letteratura divulgativa si trovano spesso i termini individuati nei bambini piccoli impiegati per le corrispondenti categorie negli adulti. È quello che facciamo anche noi in questo articolo, per restare vicini all’uso più diffuso a cui sono abituati i lettori.

2Per le caratteristiche dei diversi stili di attaccamento vedi: George e West 2001, p. 48-53; Bakermans-Kranenburg evan Ijzendoorn 2009, p. 224, Gillibrand et al. 2019, p. 265-266; Bowlby 1989, p. 119-120.

3Bowlby 1989, p. 120.

4Bowlby 1989, p. 120.

5Fraley 2019.

6Bowlby 1989, p. 43.

7Panksepp e Biven 2012.

8Fraley 2019 (pagina 2 dell’Accepted Manuscript).

9Bakermans-Kranenburg evan Ijzendoorn 2009, p.224.

10Bakermans-Kranenburg evan Ijzendoorn 2009, p.229. Il campione di riferimento è costituito da madri nordamericane. I valori precisi sono: 58% per gli individui sicuri 23% per gli evitanti/distanzianti, 19% per gli ansiosi/preoccupati. Nel momento in cui si prende in considerazione anche la categoria irrisolti (che corrisponde ai disorganizzati) o non classificabili, i risultati sono i seguenti: 56% per gli individui sicuri, 16% per gli evitanti/distanzianti, 9% per i preoccupati e 18% per gli irrisolti o non classificabili (ciò indica che gli irrisolti si trovano principalmente fra gli ansiosi/preoccupati quando si forza la classificazione in tre categorie.

11Per tutto il discorso sulle differenze di genere vedi Del Giudice 2016 e Del Giudice 2019.

Psicologia dell’invidia: un’emozione sconveniente

I pensieri prodotti dall’invidia sono pensieri sprecati.

Se potessimo recuperare l’energia psichica sprecata dall’invidia, e metterla nei nostri progetti più interessanti, per molti di noi la vita sarebbe un’esperienza migliore.

L’invidia ci mette in un vicolo cieco, perché ci sentiamo spinti da un desiderio malevolo a cui non è lecito dare corso.

L’invidia è diversa dal semplice desiderare: essa porta con sé una forma di ostilità verso l’altro che risulta particolarmente difficile da ammettere. Persino di fronte a noi stessi. E quando l’invidia riguarda le persone a cui vogliamo bene, si genera un’ambivalenza ancora più difficile da gestire.

COME NASCE L’INVIDIA

L’invidia è frutto del confronto sociale,1 2 un confronto che avviene anzitutto con chi ci è prossimo. Noi non siamo davvero invidiosi dell’attore di Hollywood che si fidanza con una top model. Siamo piuttosto invidiosi del collega di lavoro che esce con l’unica donna presente in ufficio. Affinché il confronto possa porsi in modo sensato, serve una qualche somiglianza che ci colleghi con la persona invidiata.3 4 Un esempio della condizione opposta potrebbe rendere più chiara quest’idea: se io accetto che vi sia una differenza incolmabile fra il mio ruolo sociale e quello del dirigente di una grande multinazionale, il paragone fra la mia persona e quel dirigente non avrà luogo.

Il meccanismo dell’invidia si situa chiaramente nella dimensione sociale. Infatti, abbiamo tutti un’idea di come ci collochiamo nel contesto relazionale cui apparteniamo, ed implicitamente o esplicitamente riteniamo di aver diritto ad uno spazio in tale contesto. La persona di cui siamo invidiosi apparentemente non ha fatto nulla di male, non ha compiuto alcun gesto rivolto direttamente verso di noi. Eppure quella persona può avere, dal nostro personale punto di vista, una colpa: ha occupato uno spazio che noi immaginavamo nostro; nell’organizzazione sociale concreta, o anche solo nell’attenzione degli altri. Lo spazio che immaginiamo riservato a noi stessi può essere modellato sulla base di un’idea di uguaglianza fra noi e gli altri. In tal caso diviene particolarmente opportuno citare Miceli e Castelfranchi, secondo i quali l’invidia sarebbe legata ad un’aspettativa di similarità, che è stata infine delusa.”5 La colpa della persona invidiata sarebbe allora quella di aver reso manifesta la nostra inferiorità. Ma possiamo davvero accusarla di questo?6 7

A volte diventiamo invidiosi semplicemente guardando la gioia degli altri.8 Ciò può succedere perché viviamo in una condizione di insoddisfazione. Di conseguenza, vedere che esistono persone completamente felici sembra sconfessare quelle auto-giustificazioni che avevamo sviluppato per sopportare la nostra personale sofferenza. È quasi come se i nostri valori di riferimento fossero messi in dubbio, e rischiamo così di vivere la gioia altrui come un attacco al nostro sistema di credenze. Perché, in un certo senso, la loro gioia non rispetta le nostre regole. Una simile reazione è comprensibile dal punto di vista individuale, ma non è giustificabile da un punto di vista sociale. Non possiamo pretendere che gli altri siano tristi perché noi non riusciamo a trovare la nostra gioia.9 E a dire il vero, quando invidiamo la gioia degli altri, molto spesso ci stiamo concentrando solo su un aspetto superficiale, dietro cui si celano i problemi quotidiani che sono normalmente presenti nella vita di ciascuno.

Di tutte le emozioni l’invidia è forse quella più nascosta. La nascondiamo perché l’ostilità generata dall’invidia non è socialmente giustificata. E la nascondiamo perché mette a nudo il nostro senso di inferiorità rispetto a qualcun altro.10 11 12 13 Essendo un’emozione poco presentabile, l’invidia difficilmente si comunica. Rimaniamo spesso a doverla gestire da soli, in un confronto serrato con il nostro dialogo interiore. E benché la rimuginazione non sia sempre la causa principale dei nostri problemi, di sicuro è sempre pronta a renderli peggiori, portandoci a compiere i ragionamenti sbagliati e a confermare le nostre impressioni peggiori. Mantenere una buona qualità del dialogo interiore è indispensabile al benessere psicologico della persona, e ciò vale a maggior ragione nel caso dell’invidia; dobbiamo allora essere sempre pronti a interrompere la frase sbagliata, ad interporre un silenzio, e a ripartire da un altro tema. Lasciar correre i pensieri inopportuni, al contrario, è la ricetta perfetta per crearsi problemi stratificati e difficili da risolvere.

La gestione del dialogo interiore riesce meglio quando è informata di quali siano i pensieri tipicamente legati all’invidia, e su questo tema la ricerca scientifica ha parecchi suggerimenti da offrirci. Li vedremo nella sezione seguente.

SCHEMI DI PENSIERO (E DI COMPORTAMENTO) LEGATI ALL’INVIDIA

Alcune credenze disfunzionali legate all’invidia possono presentarsi in frasi simili a “Lui è un vincitore, io sono un perdente, oppure “Lei continuerà ad avanzare mentre io rimarrò indietro oppure “Una persona o vince o perde” (pensiero dicotomico) oppure L’unica cosa che conta è andare avanti”.14 Quando tali modi di pensare si presentano nel nostro flusso di coscienza, allora dobbiamo anzitutto rendercene conto, prenderne le distanze e portare argomenti che li smentiscano. In questo paragrafo non affronteremo uno per uno questi singoli pensieri, ma come si può intuire il lavoro da compiere è sganciarsi da una visione del mondo troppo focalizzata sulla competizione immediata, per assumere una visione globale, più ampia e soppesata. In fin dei conti, nessuno è condannato ad essere un perdente, e vi sono vittorie accessibili a tutti.

Nel pensare alla nostra invidia possiamo giungere a delle conclusioni erronee che ci rendono più difficile affrontare quest’emozione. Ciò accade, ad esempio, quando pensiamo che la nostra invidia sia incontrollabile e non faccia altro che crescere. Oppure quando crediamo che la nostra invidia sia incomprensibile e che le altre persone non sentano nello stesso modo. Oppure quando a partire da un singolo episodio finiamo per giudicarci in modo definitivo come una persona invidiosa.15 Queste idee possono sostenersi una con l’altra ed essere alimentate da un senso di separazione dagli altri. In opposizione ad esse però, noi sappiamo che l’invidia è un’emozione comune a tutto il genere umano, sappiamo che essa può essere oggetto di comprensione, e che vi sono diversi approcci per gestirla, come vedremo meglio in seguito.

Vi è anche qualcosa da dire proprio sul senso di separazione dagli altri che può accompagnare l’invidia. È da molto tempo che la filosofia ha descritto l’uomo come un animale sociale, ed anche la scienza contemporanea conferma questa predisposizione fondamentale di ciascun uomo ad essere aperto verso gli altri uomini.16 Questo non vuol dire che non vi siano problemi nel relazionarsi agli altri, ma significa che la via per ritornare agli altri è sempre aperta, per chi desidera percorrerla.

L’atteggiamento invidioso può fondersi con alcuni diversi tipi di schemi personali. Qualcuno di noi potrà così coltivare un’elevata autostima che si fonda sull’idea di essere superiore agli altri. Qualcun altro potrà giudicare sé stesso come una persona incompetente, incapace di fare alcunché e di prendersi cura di sé, là dove gli altri fanno tutto con successo. Qualcun altro invece vedrà sé stesso come una persona coscienziosa e responsabile, che compie il duro lavoro mentre gli altri si prendono ingiustamente le ricompense.17 I temi della superiorità, dell’incompetenza e della coscienziosità sono una parte normale delle relazioni umane. Ma forse non dovrebbero diventare la base di una concezione troppo rigida e ristretta della nostra identità.

L’invidia si può anche accompagnare a generalizzazioni eccessive del successo altrui e della nostra inadeguatezza. Esempio ne è l’idealizzazione delle persone di successo, quando vengono viste in una luce di perfezione surreale.18 Questo modo di vedere si può accompagnare al pensiero che il possesso dei vantaggi altrui migliorerebbe la propria vita. L’invidia può anche dipendere dall’abitudine di confrontarsi solo con le persone in posizioni di leadership, ed in alcuni casi l’invidia è alimentata dall’idea che gli altri ci stiano giudicando negativamente rispetto a qualcuno che sta facendo meglio di noi.19

Da un punto di vista più generale, vi sono anche dei modi di concepire il mondo e la società intorno a noi che possono essere legati all’invidia. Se ne ha un esempio quando adottiamo delle credenze del tipo a somma zero, così che nel mondo vi sarebbe soltanto una quantità limitata di beni disponibili. Di conseguenza, quel che è dato ad una persona verrebbe necessariamente negato ad un’altra. Chi assume credenze di tipo livellante, invece, preferirebbe negare a tutti il possesso di cose di valore, anziché concederle soltanto a qualcuno. L’invidia può anche legarsi a credenze per cui le persone avvantaggiate mancherebbero di doti morali e non meriterebbero la loro fortuna, e a volte sarebbero anche la causa della deprivazione altrui.20

Nel tentativo di mascherare o di trasformare l’invidia, si cercano spesso delle interpretazioni socialmente accettabili in grado di motivare il senso di ostilità in essa contenuto. Succede così che la persona invidiosa accusi la persona invidiata di comportarsi in modo arrogante, di fare sfoggio di sé o di mirare esplicitamente all’umiliazione degli altri. L’invidia può essere mascherata anche tramite il sentimento dell’indignazione morale,21 oppure richiamandosi ad un principio di uguaglianza che sarebbe stato violato.22 23 24

Un altro modo di convivere con la superiorità degli altri, smorzando il sentimento dell’invidia, si ha quando attribuiamo il vantaggio altrui al caso o alla fortuna. Possiamo così evitare di sentirci direttamente responsabili della nostra condizione di inferiorità.25

L’antropologo George Foster ha pubblicato nel 1972 un interessante articolo che esplora la dimensione dell’invidia attraverso un ampio ventaglio di differenti assetti sociali. Vediamo così come nelle società più semplici, di natura tribale, l’invidia può essere espressa attraverso un’aggressione diretta26 oppure tramite il funzionale equivalente della stregoneria, specialmente nei contesti dove la violenza è bandita.27 Nelle società contadine invece, l’invidia si esprime per mezzo di “…pettegolezzo, maldicenza e diffamazione, armi potenti per dissuadere le persone che tentano di sollevarsi al di sopra del loro livello.”28 29

Foster individua quattro tipi di comportamento impiegati in maniera sequenziale da coloro che desiderano difendersi dall’invidia degli altri.30 Il primo di essi è costituito dal nascondere,31 che a volte può prendere anche la forma del ritiro nella propria sfera privata.32 Quando il nascondimento non sembra una via praticabile, le persone possono negare che vi sia qualcosa da invidiare. “Quando la negazione è giudicata inadeguata come risposta, la scelta successiva è una condivisione simbolica dell’oggetto desiderato, sotto forma di contentino. Infine, se nessun’altra alternativa è praticabile, le persone che temono l’invidia degli altri saranno forzate ad una vera condivisione…” 33 34 35

Foster si sofferma anche sulle modalità con cui evitiamo di essere considerati invidiosi. Ostentiamo mancanza di interesse per le cose possedute dagli altri,36 ci congratuliamo con il vincitore quando perdiamo una competizione sportiva,37 e a volte ci vantiamo precisamente con l’intento di non sembrare invidiosi.38 39

COME GESTIRE L’INVIDIA

Nei paragrafi precedenti abbiamo già menzionato alcuni approcci che possono essere impiegati per tenere sotto controllo l’invidia.40 Una strategia di tipo più generale è quella di focalizzare il nostro pensiero sugli ambiti in cui sentiamo di possedere un’autostima più elevata. Ad esempio, se siamo invidiosi di un amico che sa cantare bene e fa bella figura al karaoke, potremmo ricordarci che noi siamo molto bravi in cucina, che conosciamo bene la storia dell’arte, o che siamo ottimi organizzatori di viaggi nonché piacevoli conversatori. In un senso più ampio, sviluppare la consapevolezza delle diverse opportunità che si offrono a ciascuno di noi fa parte della terapia impiegata contro l’invidia. A tal proposito, alcuni ricercatori hanno sviluppato l’idea di Life Portfolio. In poche parole, si tratta di disegnare un cerchio che rappresenta la torta dello spazio di vita, per poi chiedere alle persone di identificare in tale figura le cose importanti della loro vita.41

L’invidia ci può portare a distogliere l’attenzione dalla persona invidiata.42 Ma potremmo anche, al contrario, accettare in modo positivo la persona invidiata e prenderla a modello. Si parla in questo caso di trasformare l’invidia in ammirazione o in emulazione. Questo approccio funziona bene se le capacità o le doti della persona invidiata ci appaiono in qualche modo raggiungibili, o comunque se abbiamo qualcosa da imparare da colui che invidiamo. Per favorire la trasformazione dell’invidia nella sua “sorella nobile, l’emulazione”, Miceli e Castelfranchi ritengono che sia importante lavorare sulle convinzioni a riguardo della propria efficacia personale, al fine di accrescere la fiducia in se stessi.43 44 Alcune ricerche indicano che proprio la fiducia in sé stessi è un tratto collegato a bassi livelli d’invidia, così come anche la perseveranza e l’impegno a raggiungere gli obiettivi.45 46

Come abbiamo visto in precedenza, l’invidia si fonda sul confronto sociale. A tal proposito, si può osservare che, anziché confrontarsi con gli altri, potrebbe essere molto più proficuo confrontarsi con quello che noi stessi eravamo ieri. Perché quest’ultimo è un confronto in grado di promuovere la crescita personale.47

Un semplice provvedimento volto a contenere gli effetti negativi dell’invidia, è quello di stabilire un momento dedicato ai pensieri generati da questo sentimento. La consapevolezza di avere uno spazio dedicato a questi pensieri, per esempio venti minuti al giorno, potrà aiutarci a tenerli sotto controllo nel resto della giornata.48

L’invidia ricorrente è il segno che c’è qualche incoerenza nel nostro piano di vita, significa che coltiviamo qualche aspettativa eccessiva, difficile da soddisfare. Per risolvere tale incoerenza, vi sono due possibile strade da seguire. La prima consiste nell’accettare quello che non possiamo cambiare, la seconda consiste nell’immaginare un percorso per cambiarlo. La strategia emotiva contro l’invidia (e non solo quella) può dunque essere vista come un giusto mix di accettazione e di sforzo teso al cambiamento.

Mettersi nei panni degli altri è una pratica molto importante per la crescita personale di ciascuno. A maggior ragione essa si rivela utile nel caso dell’invidia. Perché provando a guardarci come ci vedono gli altri possiamo ritrovare una visione realistica di ciò che siamo e di ciò a cui possiamo aspirare. E se noi abbiamo un’idea di noi stessi ben ancorata al tessuto sociale cui apparteniamo, il successo degli altri non riuscirà a mettere facilmente in dubbio la nostra autostima.

L’INVIDIA, LA GELOSIA, LA RABBIA

La gelosia implica la presenza di un rivale che minaccia una relazione per noi importante. In tale situazione è molto facile attribuire al rivale delle qualità che noi non abbiamo, e diventa così possibile provare un sentimento di invidia. La gelosia, dunque, implica sempre la possibilità di una forma d’invidia (verso il rivale), mentre non è vero il contrario. Possiamo invidiare l’intelligenza di un amico o la macchina del nostro datore di lavoro, senza che nessuna relazione sia messa per tale motivo in discussione, e quindi senza che vi sia gelosia.49 50 51

Là dove il tema fondamentale della gelosia è la possibile perdita di una relazione, quello dell’invidia consiste nella mancanza e nel senso di inferiorità. In un articolo di Parrot e Smith del 1993 troviamo un’interessante comparazione proprio fra gelosia ed invidia. Fra le caratteristiche distintive dell’invidia viene menzionato ad esempio un intenso desiderio di possesso, rivolto in particolare a ciò che è posseduto dagli altri. Anche la motivazione al miglioramento è più tipica dell’invidia rispetto alla gelosia. Caratteristici della gelosia rispetto all’invidia, invece, sarebbero un senso di solitudine, incertezza, paura e sfiducia. Si tratta di componenti emotive probabilmente riconducibili al fenomeno dell’abbandono, che è intrinsecamente collegato alla gelosia e non all’invidia.52 53

Un aspetto per noi di particolare interesse è il seguente: comune ad invidia e gelosia è un elevato livello di rabbia.54 La rabbia è tipicamente una reazione rivolta contro una persona che interferisce con le nostre aspettative. Riprendendo quanto abbiamo già detto in apertura d’articolo, l’invidia può essere interpretata come una forma di rabbia. Qualcuno è intervenuto ad occupare uno spazio sociale che in qualche modo ci aspettavamo fosse destinato a noi. E questo ci fa arrabbiare. D’altra parte, lo spazio sociale attorno a noi non è soggetto ad un’esclusiva a nostro favore. La società non può accordare validità a questo tipo di sentimento, ed ecco il motivo per cui potremmo dire che l’invidia è, in un certo senso, una rabbia con la coscienza sporca: perché questa rabbia è diretta verso l’esistenza felice di altri membri del nostro gruppo di appartenenza.55 56 57


Leggi anche: La psicologia della rabbia: un’occasione per crescere.


C’è a questo punto una precisazione da compiere. Anche l’emozione della rabbia non gode di una particolare approvazione in ambito sociale. Ma ciò che vi è di sconveniente nella rabbia sembra porsi anzitutto nella modalità espressiva del sentimento. È fuori luogo manifestare la rabbia in modo violento, ma è accettabile descrivere compostamente le proprie ragioni ed il motivo del proprio sentimento ostile. E lo stesso si può dire anche della gelosia.58 Nel caso dell’invidia invece, non vi è tanto un problema relativo al modo in cui la esprimiamo: vi è innanzitutto un problema nelle ragioni che alimentano il sentimento malevolo. Sarebbe a dire nel desiderio di rimuovere il benessere altrui.

Dal punto di vista dello sviluppo, osserviamo che una forma basilare di rabbia può essere provocata già negli infanti di pochi mesi, semplicemente impedendo loro di muoversi.59 Ma affinché si verifichino le prime manifestazioni di invidia è richiesto uno sviluppo cognitivo più elaborato. È infatti necessario che vengano messe in atto almeno delle forme embrionali di confronto sociale, così come una qualche percezione elementare di inferiorità. Alcuni studiosi delle emozioni secondarie (le quali includono, oltre all’invidia, anche la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio, la superbia, la gelosia) ritengono che l’invidia si sviluppi nel corso del secondo anno di vita.60

Interpretare l’invidia come una forma di rabbia ci offre un altro suggerimento su come sia possibile gestirla. Quando la rabbia è libera di formulare giudizi sull’essenza delle persone (ad esempio: “sei il solito immaturo”, o “non sei capace di fare nulla”) è molto facile rovinare le relazioni. Se invece indirizziamo l’ostilità della rabbia verso comportamenti precisi (ad esempio: “non mi è piaciuto che sei arrivato in ritardo”, o “avevo bisogno che tu finissi quel lavoro in tempo), si otterranno forme di comunicazione meno tossiche per le relazioni. In modo simile, potremmo forse impedire alla nostra invidia di colpire l’essenza delle persone invidiate. Se riusciamo a dire di preciso quale è l’aspetto di una persona che invidiamo, allora potrebbe essere più facile riconoscere che abbiamo un desiderio verso di esso; anzitutto di fronte a noi stessi, e forse perfino dicendolo agli altri. Dividere quello che desideriamo dalla persona che lo possiede può essere così un modo per diminuire l’ostilità verso quella persona.61

Concepire l’invidia come una forma di rabbia, ci porta anche ad attribuire all’invidia alcune caratteristiche che sono tipiche della rabbia. La rabbia, ad esempio, ha la proprietà di catturare l’attenzione e dirigere i pensieri rendendoli impermeabili ad informazioni non coerenti con sé stessa. La rabbia canalizza i pensieri rendendoli rigidi, fa sì che il ragionamento si polarizzi attorno al proprio oggetto, e diventa cieca al resto. Essere sempre arrabbiati è un modo perfetto per diventare sterili, e tale sterilità sembra essere una proprietà associata anche all’invidia. Quando viviamo i disegni suggeriti dall’invidia, possiamo anche riuscire a ritagliarci qualche vantaggio materiale (forse), ma il prezzo da pagare è quello di rendere un poco più stagnante la nostra vita spirituale.62 63

La rabbia è un sentimento pressoché ineliminabile dalla nostra vita. Perché protegge ciò che siamo dalle minacce esterne. Ed altrettanto possiamo dire della gelosia, che è una forma di rabbia volta a proteggere le nostre relazioni. Ma nell’invidia abbiamo soltanto da perdere. C’è sempre qualcosa di meglio da fare coi nostri pensieri, che non spenderli nell’invidia. Certo tutti abbiamo avuto modo di conoscerla,64 ma con la dovuta pratica mentale possiamo tutti farne a meno.

Da quanto abbiamo scritto ed in base all’esperienza personale di ciascuno, dovrebbe essere chiaro perché è meglio evitare di cadere nell’invidia. A tal proposito, ricordiamo che la ricerca scientifica sostiene in modo chiaro l’idea che l’invidia sia un fenomeno generalmente disfunzionale. In particolare, è stata riscontrata una correlazione fra l’invidia e i sentimenti di inferiorità, la disposizione alla rabbia, l’irritabilità, la depressione, l’ansia, l’ansia fobica, la compulsività ossessiva.65 66 Oltre a ciò è stato anche riscontrato che spesso le persone invidiose vengono evitate.67 La tendenza a sentirsi grati” invece, “in contrasto alla predisposizione all’invidia, sembra avere ampie implicazioni positive per il benessere soggettivo (…) suggerendo che non è una questione trascurabile se l’invidia lavora contro tale tendenza.”68

IN CONCLUSIONE: ALLARGARE LO SGUARDO

Quest’articolo sull’invidia si inserisce in un progetto più ampio di studio delle emozioni. Il nostro orizzonte teorico di riferimento è quello delle neuroscienze affettive fondate da Jaak Panksepp. In tale prospettiva vi sono sette emozioni primarie: paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, gioco, pena della solitudine e ricerca/voglia di fare/interesse. Avere presente questo nuovo ventaglio affettivo ci apre ampie possibilità di viaggiare attraverso le situazioni di ogni giorno. Prendiamo ad esempio in considerazione la gioia. Questa, dal punto di vista di Panksepp, è un’emozione complessa, la quale si alimenta anche di quel sistema emotivo fondamentale chiamato gioco. Ma esperire il gioco è mentalmente possibile soltanto quando non vi sono in corso eventi stressanti di nessun tipo.69 Ecco allora che l’ostilità portata dall’invidia ci toglie accesso all’emozione del gioco e ci da la possibilità di esperire soltanto, nel migliore dei casi, una forma monca di gioia.

È difficile trovarsi nel desiderio di qualcosa di irraggiungibile. Ma quel qualcosa di irraggiungibile, in fondo, ce lo siamo creato noi stessi. Non è un dato obbligatorio del nostro sentire. Esistono molte vie in cui incanalare la nostra vita mentale. In quanto esseri umani abbiamo dentro di noi delle sorgenti di motivazione che dirigono il nostro agire e la nostra attenzione. Chi impara a navigare nella complessità di queste sorgenti ha la chiave per accedere a una soddisfazione che è il contrario di irraggiungibile, che è sempre intimamente disponibile.

In un certo senso siamo tutti chiamati a diventare esperti e guardiani del nostro desiderio. Perché fino a quando il desiderio si aggira nei nostri dintorni, esso ci rende attivi, curiosi, vogliosi di esplorare il mondo. Ma quando si lascia ipnotizzare da luoghi irraggiungibili, è allora che vengono poste le premesse per la nostra infelicità. L’invidia di oggi è il segno che il nostro desiderio di ieri si era dimenticato di fare i conti con la realtà. Dove siamo colti dall’invidia, significa che il giusto equilibrio era andato perso.

In fin dei conti abbiamo tutti un intimo bisogno di esistere, di vivere il nostro desiderio, di elaborare progetti e lavorare per realizzarli. In una parola, di affermare il nostro essere. E l’emozione fondamentale della rabbia può essere vista come un meccanismo fondamentale di autoaffermazione. In modo simile, dietro ogni invidia c’è un dignitosissimo movimento interiore teso a vivere la propria vita, a mettere in atto il proprio essere. Solo che questo movimento ha proceduto senza coordinarsi con la realtà sociale in cui siamo immersi. Per qualche motivo, abbiamo alimentato una certa immagine molto elevata di noi stessi, che si scontra con l’esistenza intorno a noi di qualcuno che ci è superiore.

Detto questo, c’è una riflessione finale di cui non vorremmo dimenticarci. L’invidia è uno dei sette vizi capitali. È un sentimento sgradevole, e vorremmo capire come funziona per tenerla lontana. Ma in questo vi è un rischio. Perché leggendo e studiando tutti i risvolti dell’invidia, in un certo senso finiamo per inquinare l’atmosfera spirituale in cui viviamo. Detto in altre parole, è giusto frequentare il negativo, ma poi sarebbe meglio sciacquare il pensiero, per così dire, nell’acqua pulita di una visione più ampia, ricca, e tesa al positivo. Nei mondi della filosofia, della letteratura, dell’arte e della spiritualità si possono compiere grandi viaggi e scoprire paesaggi meravigliosi. La visione offerta dalle neuroscienze affettive può diventare lo sfondo di questi viaggi, nel suo descrivere l’architettura fondamentale di quell’affettività che interviene costantemente a modellare la nostra esperienza nel mondo.

BIBLIOGRAFIA

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1“Quindi, presi insieme, questi studi forniscono un’evidenza convergente per la nozione che i confronti sociali spontanei risultano in un’insoddisfazione invidiosa e in una tendenza di approccio impulsivo verso il bene superiore di un’altra persona che incide sul comportamento se la capacità di controllare l’invidia è ridotta (taxed, nel senso di messa a dura prova da un’altra attività NdT).” Crusius e Mussweiler 2012, p. 150.

2“I confronti con le altre persone sono una componente ubiquitaria ed altamente efficiente della cognizione umana (…) Per esempio, quando si giudica un altro individuo, le persone confrontano spontaneamente questo individuo a se stesse…” Crusius e Mussweiler 2012, p. 143.

3“La condivisione con la persona avvantaggiata di somiglianze collegate al confronto è importante affinché l’invidia si formi, ma la ricerca mostra anche che il dominio del confronto in cui la persona invidiata gode di un vantaggio dovrebbe essere rilevante per il sé…” Smith e Kim 2007, p. 50.

4Considera anche: “…la ricerca indica che l’invidia è esperita più di frequente come reazione a persone dello stesso sesso anziché del sesso opposto…” Hill et al. 2011, p. 655.

5“Noi supponiamo che il confronto invidioso implica un processo di questo tipo: sarebbe a dire, un’aspettativa di similarità, che è stata infine delusa.” Miceli e Castelfranchi 2007, p. 454.

6Confronta: “Anche se l’invidia avviene quando il vantaggio è equo secondo gli standard sociali prestabiliti, dal punto di vista soggettivo privato della persona invidiosa, il vantaggio è facilmente percepito come ingiusto, dando così all’invidia un carattere di risentimento.” Smith e Kim 2007, p. 61.

7Attributi come l’intelligenza, l’attrattività fisica e l’abilità musicale possono sembrare conferiti in modo arbitrario, e le persone invidiose si possono sentire ingiustamente svantaggiate da come è avvenuta la distribuzione di tali attributi. Comunque sia, le norme sociali non consentono di parlare di un’ingiustizia per via di tali handicap…” Smith e Kim 2007, p.49.

8“Nella parole di James Thomson (1780/1842), «la misera invidia si inaridisce guardando la gioia di un altro, ed odia l’eccellenza che non può raggiungere» (Season Spring, p. 21); sarebbe a dire, ogni tipo di eccellenza: bellezza, ricchezza, valori morali, e via dicendo.” Miceli e Castelfranchi 2007, p. 449.

Considera anche: “Ad un livello più inferenziale, suggeriamo che quanto viene invidiato sono anche quei sentimenti positivi che la persona invidiosa immagina provenire dal possesso della cosa o del tratto.” Frankel e Sherick 1977, p. 258.

9Qui potremmo porci una domanda: noi non possiamo chiedere agli altri di rinunciare alla loro gioia per la nostra tristezza, ma possiamo invece chiedere alla loro gioia, pur rimanendo gioia, di rimanere in ascolto della nostra tristezza? E soprattutto: quando succede a noi di essere nella gioia, ci è possibile rimanere in ascolto della miseria altrui, pur senza perdere la nostra gioia?

10“Poiché l’invidia contiene sentimenti di ostilità e di inferiorità che minacciano il sé, ed è socialmente ripugnante, si ritiene che le persone tendano a non riconoscere di provarla, sia pubblicamente sia in privato.” Smith e Kim 2007, p. 61.

11“L’invidia propriamente detta, comunque, così come sottolineano molte opinioni erudite (…) e come la ricerca supporta (…), è spesso tenuta segreta. Alcuni affermano che essa sia precisamente l’ultima emozione che le persone potrebbero accettare di ammettere…” Smith e Kim 2007, p. 47.

12“Molti studiosi affermano che le persone non soltanto evitano di ammettere il sentimento agli altri ma anche che detestano riconoscere il sentimento in privato…” Smith e Kim 2007, p. 54.

13“In molte culture, l’invidia è considerata un peccato e quindi vergognosa…” Smith e Kim 2007, p. 48-49.

14Leahy 2021, p. 420.

15Leahy 2021, p. 423.

16Tomasello 2014.

17Leahy 2021, p. 421.

18“Così come la persona invidiosa potrebbe screditare il proprio successo o le proprie esperienze di vita, l’invidia è spesso associata con l’idealizzazione delle vite presunte di persone che hanno ottenuto una qualche forma di prestigio.” Leahy 2021, p. 421.

19Leahy 2021, p. 422-423.

20Smith e Kim 2007, p. 55.

21“Anche l’indignazione morale, così come il fare complimenti, potrebbe in certe occasioni rappresentare una via socialmente approvata di esprimere l’invidia, anche se l’oggetto dell’invidia apparirebbe più diffuso e meno specifico rispetto al complimento. (…) L’evidenza a supporto dell’ipotesi che l’indignazione morale sia un’invidia mascherata è più difficile da trovare che l’evidenza per l’ipotesi dei complimenti, almeno nella letteratura antropologica, ma sembra chiaro che in alcune situazioni tale argomento sia valido.” Foster 1972, p. 175.

22“Inoltre, può essere che le persone spesso gestiscano le loro paure a riguardo delle implicazioni della loro invidia trasmutandola in altre emozioni più accettabili al sé e agli altri.” Smith e Kim 2007, p. 61.

23“In generale, ci si potrebbe aspettare che le risposte difensive siano la regola, e che conducano a una trasmutazione pressoché immediata del sentimento nel momento stesso in cui sorge. In questa “zona di trasmutazione”, è probabile che le persone che provano invidia tutelino e alimentino l’iniziale senso soggettivo di ingiustizia e trovino modi di percepire gli invidiati come non meritevoli dei suoi vantaggi per via di mancanze morali.” Smith e Kim 2007, p. 56.

24Sullo stesso tema vedi anche Miceli e Castelfranchi 2007 a pagina 464.

25Confronta: “L’inferiorità percepita come dovuta ad agenti incontrollabili o a condizioni al di fuori dell’individuo, per quanto non piacevole, può almeno essere sopportabile. L’inferiorità percepita come dovuta a inadeguatezza personale, mancanza di competenza o scarsa capacità di giudizio è molto più difficile da accettare, perché è molto dannosa per l’immagine del sé.” Di conseguenza “…è chiaro che il concetto di “fato”, o di “fortuna” – sia in qualche forma generalizzata, sia come la volontà di una divinità – è la più diffusa forma di razionalizzazione che rende sopportabile una posizione di inferiorità.” Foster 1972, p.184.

26Nota per Manuel: X1

27Foster 1972, p. 172.

28Foster 1972, p. 172.

29Nelle società più complesse l’invidia può essere espressa anche tramite il complimento. Foster stesso osserva che questa interpretazione può inizialmente lasciare scettici, ma diventa più comprensibile se ci ricordiamo che in molte società il complimento e la lode sono scoraggiati. In Tzintzuntzan, Messico, il villaggio contadino che io conosco meglio, i complimenti sono largamente assenti; essi mettono le persone a disagio. Questo è generalmente vero delle società contadine.” Foster 1972, p. 173.

Ciò naturalmente non significa che ogni forma di complimento porti con sé un sentimento di invidia. Ed a volte un complimento può essere il modo giusto per spostare la propria attenzione dalla persona invidiata a ciò che precisamente desideriamo. Smorzando così l’ostilità diretta all’invidiato.

L’osservazione di Foster 1972 per cui fare complimenti può essere un comportamento collegato all’invidia è ripresa da Smith e Kim 2007, alle pagine 54-55.

30Nota per Manuel: X1.

31“Il semplice occultamento è il modo più efficace di evitare la possibile invidia del cibo, e di certo è il più economico.” Foster 1972, p. 180.

32“Il nascondere può anche prendere forme più astratte, in particolare nei concetti di proprietà privata e nel diritto alla privacy personale.” Eppure, “…l’esercizio del diritto alla privacy in quelle società dove è permesso, più spesso che no sembra avere esattamente l’effetto opposto, di elevare il sospetto, di stimolare l’invidia.” Foster 1972, p. 176.

Quest’osservazione ovviamente va posta nel contesto di società diverse dalla nostra, nella quale vivere in una situazione di privacy è una condizione molto più diffusa.

33Foster 1972, p. 175.

34In inglese il termine usato per contentino è “sop”. Foster lo descrive come “…un oggetto simbolico dato per alleviare il disappunto di qualcuno che ha perso in una competizione, o che non ha avuto un successo comparabile a quello degli altri.” Può dunque “…essere pensato come una compensazione del perdente, una condivisione simbolica di buona fortuna da parte del vincitore con qualcuno che in effetti non condivide la buona fortuna.” Foster 1972, p. 177.

Foster osserva anche un parallelo fra il termine inglese “sop” e il termine spagnolo “remojo”.

35“La vera condivisione, con la quale intendo una significativa condivisione che va ben oltre il livello simbolico del contentino, prende molte forme – dall’impegno sociale fino alla distribuzione informale delle cose belle della vita o alla tassazione progressiva sui redditi…” Foster 1972, p. 179.

36“Anche non mostrare interesse per i possedimenti degli altri è un meccanismo per ridurre l’invidia, senza dubbio molto più ampiamente usato di quanto non sia riportato in letteratura.” Foster 1972, p. 184.

37Foster 1972, p. 184.

38“In modo abbastanza curioso, la vanteria – solitamente vista come un comportamento di ostentazione calcolato per indurre invidia negli altri – può anche essere impiegato come un dispositivo per assicurare ad un’altra persona che essa non è invidiata per i suoi possedimenti.” Foster 1972, p. 184.

39“Al contrario, quando è presente la vanteria, l’attribuzione di invidia non è necessaria; l’ostilità implicata dal commento dispregiativo sembra appropriata, legittima, e priva di invidia.” Smith e Kim 2007, p. 52.

40In aggiunta alle strategie utili a gestire l’invidia menzionate in questa sezione, merita ricordare che le situazioni in cui siamo sotto stress sono quelle in cui è più difficile mantenere il controllo su tale emozione. Cf: Crusius e Mussweiler 2012.

41“In secondo luogo, il terapista ha introdotto l’idea di un Life Portfolio. Con questa tecnica si rappresenta una “Torta dello spazio vitale” attraverso un circolo suddiviso in 10 parti. Al cliente si chiede di identificare quali altre cose nella loro vita hanno significato e di dare un nome a tali parti del loro Life Portfolio. Quindi, gli si chiede che percentuale del loro focus desiderano assegnare a ciascuna di queste parti. Questa tecnica aiuta a separarsi da un singolo focus su uno stato arbitrario in favore di una consapevolezza di altre valide possibilità di azione. In alcuni casi, ciò aiuta a reindirizzare gli individui verso aree della loro vita che erano state ignorate.” Leahy 2021, p. 423.

42Confronta: “L’invidia depressiva può essere osservata anche nel ritiro e nel disimpegno dalla persona invidiata, così da ridurre le occasioni di ricordarsi della propria sconfitta ed inferiorità…” Leahy 2021, p. 419.

43“Al fine di indurre una motivazione ad emulare in luogo di una comparazione dolorosa con chi è migliore, è necessario favorire le credenze di efficacia (…). Anche quando si parte da un sentimento di invidia, una persona potrebbe cambiarlo nella sua sorella nobile, l’emulazione, lavorando sulle convinzioni a riguardo della propria efficacia.” Miceli e Castelfranchi 2007, p. 474.

44Per il confronto fra invidia ed emulazione vedi Miceli e Castelfranchi 2007 alle pagine 473-474.

45Smith e Kim 2007, p.60.

46Un altro modo che abbiamo per affrontare l’invidia, è trovarci un modello da seguire che sia superiore alla persona invidiata. Potrebbe così aver luogo un ragionamento simile al seguente: “Tu sei meglio di me, ma il mio maestro è meglio di te, quindi io non perdo tempo a guardare te. Guardo il modello che mi sono scelto.”

47https://www.youtube.com/watch?v=uOOqkL3ndGQ “Jordan Peterson on Envy and Resentment”

48“La ruminazione è stata trattata con tecniche meta-cognitive (dedicando del tempo apposito per la ruminazione…” Leahy 2021, p. 424-425.

49“Un rivale può essere minaccioso precisamente perché lui/lei ha qualità invidiabili, il che potrebbe poi anche accrescere la gelosia stessa…” Smith e Kim 2007, p. 48.

50“Una conclusione suggerita da questi esperimenti è che le situazioni che creano gelosia intrinsecamente creano anche, in una certa misura, invidia. Tale affermazione è ampiamente riconosciuta in letteratura…” Parrott e Smith 1993, p. 917.

51“…la probabilità condizionale dell’invidia data la gelosia è piuttosto alta, là dove la probabilità condizionale della gelosia data l’invidia è piuttosto bassa. Forse a causa di queste contingenze, il termine gelosia è venuto ad indicare sia la gelosia sia l’invidia, mentre il termine invidia è rimasto non ambiguo…” Questo passo è anzitutto riferito ai termini jealousy ed envy in lingua inglese.

Parrott e Smith 1993, p. 918.

52“L’invidia coinvolge due individui (sé stessi e una persona con cui ci confrontiamo con esito sfavorevole), là dove la gelosia ne richiede tre (sé stessi, un partner con cui si ha una relazione, ed un rivale che ci fa temere per tale relazione). L’invidia implica un confronto sfavorevole con gli altri su caratteristiche che sono importanti per noi stessi, là dove la gelosia implica la paura del rifiuto da parte di qualcun altro, in favore di qualcuno che potrebbe anche esserci inferiore da tutti gli altri punti di vista…” Parrott e Smith 1993, p. 907.

53Considera anche: “Ekman (1992, 2003) descrive l’invidia e la gelosia come emozioni universali ma suggerisce che non ci sono espressioni facciali universali che riflettano tali emozioni.” Leahy 2021, p. 418.

54Nota per Manuel. Con l’etichetta X1 trovi almeno due punti nel testo che potrebbero essere menzionati per sostenere il legame nativo fra invidia e rabbia. In realtà ve ne sarebbero molti altri. Ma bisogna capire se sia d’aiuto elencarli distintamente.

55“A nostro avviso, è cruciale riconoscere che l’invidia, per adeguata definizione e per tradizione accademica, contiene dei sentimenti di ostilità che possono condurre ad azioni ostili.” Smith 2007, p. 49.

“L’ostilità invidiosa può essere compresa come una risposta immediata ed auto-assertiva all’inferiorità, un risultato naturale della frustrazione (specialmente della frustrazione percepita come ingiusta, per quanto soggettivamente derivata), ed un probabile prodotto di come le persone fanno fronte alla vergogna associata all’inferiorità che causa invidia e con la vergogna addizionale dovuta alla loro vergogna.” Smith 2007, p. 54.

Fra i componenti necessari dell’invidia, Miceli e Castelfranchi 2007 (p. 470) individuano “…una volontà malevola verso la parte avvantaggiata, il che implica (…) un fine ultimo o un desiderio che la parte avvantaggiata non raggiunga i suoi obiettivi (o alcuni di essi).”

Come si vede dalle citazioni appena riportate, il contenuto di ostilità nell’invidia è un tema ben presente nella letteratura scientifica, ma ipotizzare che l’invidia sia una sorta di sottospecie della rabbia, come stiamo facendo, è una nostra proposta. Si tratta di un’ipotesi di lavoro nata dallo studio di molti articoli sulla rabbia e sull’invidia. A nostro avviso, questo approccio potrebbe aiutare a collocare in modo più preciso l’invidia nel panorama complessivo delle emozioni.

Questa nostra posizione ci sembra vicina a quella di Miceli e Castelfranchi 2007, in particolare per come è articolata alle pagine 458-459. Qui gli autori discutono di come la rabbia sia collegata alla responsabilità di una terza persona, e nel farlo tracciano uno stretto parallelo fra la dinamica della rabbia e quella dell’invidia. Anche nel seguente passo sembra delinearsi l’idea di un’invidia intesa come forma di rabbia “inappropriata”.

“…là dove il risentimento globale è comunemente associato con l’invidia, è ancora da provarsi che esso sia all’origine della volontà malevola contro la persona avvantaggiata. Come già suggerito, una semplice rabbia (per quanto soggettivamente “colpevole” ed inappropriata) contro la causa della propria inferiorità potrebbe essere una motivazione sufficiente.” Miceli e Castelfranchi 2007, p. 467. Il corsivo è nostro.

56Sempre Miceli e Castelfranchi osservano: “Inoltre, l’ostilità invidiosa può essere un sentimento “passivo”, nel senso che non implica necessariamente un grande potere motivazionale o prontezza all’azione, i quali indurrebbero un’aperta aggressione.” Miceli e Castelfranchi 2007, p. 457.

Se dunque ipotizziamo di considerare l’invidia come una forma di rabbia, dovremmo tenere presente che la mancanza di consenso sociale spinge questo sentimento a manifestazioni di tipo più nascosto e quindi di tipo più passivo. L’invidia dunque sembrerebbe partecipare maggiormente della rabbia passiva che non della rabbia attiva.

57Frankel e Sherick 1977 riportano molte osservazioni sullo sviluppo dell’invidia nei bambini. Non è sempre semplice interpretare le loro osservazioni in modo univoco, ma nel complesso ci sembra che esse testimonino ulteriormente, se necessario, dello stretto legame fra rabbia ed invidia. Riportiamo qui di seguito, a titolo di esempio, due passi estratti da tali osservazioni. Il primo è relativo ai bambini fra i 12 e i 18 mesi: “In questo gruppo di età, abbiamo osservato i bambini mostrare un particolare interesse nelle cose possedute dagli altri, e prenderle come se ne avessero diritto. Il possessore non è riconosciuto come un essere umano separato; soltanto i suoi possessi, come per esempio un giocattolo, sono di interesse per il bambino. Questo fenomeno, a nostro avviso, è meno sofisticato dell’invidia.” p. 262.

Il secondo passo è relativo ai bambini fra i 18 e i 24 mesi: “Se un toddler junior nota un altro bambino che ha o acquisisce qualcosa di valore, egli diverrà interessato e quindi arrabbiato, esperendo un sentimento che ad un osservatore sembra essere invidia, e tenterà di ottenere quella cosa con la forza.” p. 265.

58“L’ostilità invidiosa è raramente sanzionata socialmente, là dove all’ostilità gelosa è stata solitamente accordata una maggiore legittimità (…). È meno verosimile, dunque, che l’ostilità invidiosa implichi una rabbia giustificata, ed è più probabile che sia accompagnata da un senso di disapprovazione da parte degli altri.” Parrott e Smith 1993, p. 907.

“Nel secondo esperimento, delle misure migliorate di ostilità suggerivano che la gelosia tende a produrre una rabbia giustificata, mentre l’invidia tende a produrre una volontà malevola non approvabile.” Parrott e Smith 1993, p. 917.

“Sembra dunque plausibile che in entrambi gli esperimenti la colpa discriminasse l’invidia dalla gelosia più tramite la sua assenza nella gelosia che non tramite la sua associazione con l’invidia. Nel complesso, si potrebbe dire che l’invidia tendeva a suscitare preoccupazione a riguardo della pubblica disapprovazione, mentre la gelosia tendeva a suscitare un senso di presunzione.” Parrott e Smith 1993, p. 918.

59Gillibrand et al. 2019, p. 278.

60“In base alla teoria qui presentata, le emozioni autocoscienti richiedono due importanti caratteristiche che si sviluppano nei primi tre anni di vita. Queste sono la consapevolezza, definita qui come l’auto-consapevolezza così come è misurata dall’auto-riconoscimento allo specchio”, l’inizio dell’uso di pronomi personali come “me” o “mio”, e il gioco di finzione complesso. Questi emergono tra i 15 ed i 24 mesi di età e danno origine ad emozioni autocoscienti (self-conscious-exposed) quali imbarazzo, invidia ed empatia, così come a comportamenti prosociali quali la condivisione e il gioco reciproco.” Lewis 2019, p. 311.

Nota per Manuel: l’articolo appena citato è importante anche per il modo in cui è concepito il self in relazione alle emozioni.

Per un riferimento in ambito psicoanalitico, considera questo: “Spitz (1965), per esempio, sostiene che i primi tre o quattro mesi siano caratterizzati da stati di piacere o dispiacere confusi e indifferenziati; che la paura e la frustrazione appaiano tra i quattro ed i sei mesi, l’ansia propriamente detta fra i sei e gli otto mesi; ed amore, possessività, invidia e gelosia verso la fine del primo anno di vita.” Draghi Lorenz et al. 2001, p. 285.

Sullo sviluppo delle emozioni secondarie vedi anche Gillibrand et al. 2019, p. 279-280.

61In un certo senso è come se concentrandosi sull’oggetto desiderato anziché sulla persona invidiata potessimo avvicinarci a quel sentimento che alcuni ricercatori chiamano invidia benevola, ma che in realtà non è propriamente una forma di invidia. Si vedano in proposito le due seguenti citazioni:

“L’invidia maligna è caratterizzata da sentimenti di ostilità verso la persona invidiata e da tendenze d’azione tese a danneggiare la sua posizione. Al contrario, l’invidia benigna è caratterizzata da una considerazione più positiva dell’altra persona (…) e dalla tendenza d’azione a migliorare la propria posizione muovendosi verso l’alto…” Crusius e Lange 2014, p. 4-5 del manoscritto accettato.

“Eppure, l’accettazione di una forma benevola di invidia potrebbe oscurare la natura dell’invidia. L’assenza di un sentimento di ostilità nell’invidia benevola potrebbe rendere questa emozione fondamentalmente differente dall’invidia propriamente detta sia in termini di esperienza vissuta sia dal punto di vista delle probabili conseguenze.” Smith 2007, p. 47.

62Confronta: “Il sociologo Schoeck (…) presentò un insieme di affermazioni particolarmente ampio riguardanti il ruolo di vasta portata dell’invidia a tutti i livelli della società. Sostenne che l’invidia è la spiegazione fondamentale per le norme pan-culturali che servono a mantenere la stabilità sociale, benché questo processo spesso conduca allo sfortunato soffocamento della creatività e a vari vizi di natura personale.” Smith e Kim 2007, p. 46.

63“In tal modo, l’invidia si oppone al cambiamento, rafforza lo status quo, ed è nemica dell’apprendimento.” Farber 1966/2000 citato da Miceli e Castelfranchi a pagina 474.

64Per la grande diffusione dell’invidia nella nostra vita sociale, si vedano Smith e Kim 2007 a pagina 60.

65“La scala dell’invidiosità di Gold (1966) (…) è risultata correlata positivamente con delle misure dei sentimenti di inferiorità, del tratto della rabbia, dell’irritabilità, così come con misure della depressione, dell’ansietà, della fobia ansiosa, della somatizzazione e della compulsività ossessiva, suggerendo così che l’invidiosità sia caratterizzata da un generale disadattamento.” Smith e Kim 2007, p. 58.

66Lavorare per superare l’invidia non è semplicemente una questione di crescita personale e di benessere individuale. L’invidia è un fenomeno che può creare difficoltà anche all’interno delle organizzazioni.

“La ricerca precedente indica che l’invidia è correlata con comportamenti tesi a migliorare la propria posizione nella propria organizzazione (…) e conduce ad una performance peggiore nei setting sociali…” Hill et al. 2011, p. 662.

“Duffy e Shaw (2000), impiegando piccoli gruppi di lavoro, hanno mostrato longitudinalmente che le autovalutazioni relative alle preoccupazioni di natura invidiosa erano negativamente correlate alla performance di gruppo…” Smith e Kim 2007, p. 52.

67“Così come le persone evitano gli individui depressi (…) anche gli individui invidiosi, la cui ostilità di fondo potrebbe trapelare attraverso i loro tentativi di mascherare le proprie emozioni, potrebbero essere similmente evitati” Smith e Kim 2007, p. 59.

68Smith e Kim 2007, p. 58.

69https://it.manuelcappello.com/2020/04/gioco-e-realta-di-donald-winnicott-una-sintesi-teorica/#contesto-protetto

Psicologia della gelosia

GELOSIA REATTIVA, POSSESSIVA, ANSIOSA

Possiamo distinguere fra tre tipi di gelosia.

Parliamo di gelosia reattiva quando il partner è effettivamente coinvolto in attività intime o sessuali con un altra persona.2 Questo tipo di gelosia è collegato ad una buona qualità della relazione,5 perché è un sentimento che ha chiaramente la funzione di proteggere il prezioso legame col partner.

Nel caso della gelosia di tipo ansioso, invece, la persona gelosa spende molto tempo a rimuginare su immagini di tradimenti ipotetici, provando ansia, sospetto, preoccupazione e sfiducia.4 Questo tipo di gelosia è collegato ad una inferiore qualità della relazione.6 È come se la persona gelosa stesse vivendo in un mondo parzialmente disallineato dalla situazione reale, ponendo sulla relazione il carico di uno stress immotivato.

Il terzo tipo di gelosia è la gelosa possessiva. Essa si manifesta nel desiderio di controllare il partner e nel tentativo di proibire l’incontro con troppi individui del sesso opposto.3 Questo tipo di gelosia può avere effetti positivi o negativi sulla relazione a seconda dei casi specifici. Essa diventa problematica “quando è indirizzata al controllo del proprio partner e quando sfocia in un’intrusione relazionale ossessiva ed in fenomeni di stalking.”11

Le distinzioni proposte ci aiutano a comprendere come ridurre le manifestazioni troppo intense della gelosia. La gelosia eccessiva che nasce da fantasie irreali andrebbe affrontata individuando le parti irrealistiche del dialogo interiore, e razionalizzando i propri pensieri.7 Quando invece la gelosia è stata provocata da un’infedeltà realmente avvenuta, razionalizzare i pensieri potrebbe indurre un peggioramento dei sentimenti di rabbia verso il partner.8 In tal caso sembra più utile, benché non semplice, indirizzarsi verso la decisione attiva di perdonare il proprio partner.9 10

Queste indicazioni nascono dallo studio di casi patologici, ma il giusto bilanciamento fra razionalizzazione e perdono può essere la giusta via anche per gestire la gelosia nei casi più normali.

GELOSIA PATOLOGICA

La forma più intensa di gelosia patologica è conosciuta come Sindrome di Otello, dal nome del famoso personaggio di Shakespeare. Si tratta di un disturbo grave, di natura psicotica, spesso associato con abuso di alcol o con forme di demenza. Il soggetto affetto da questa sindrome accusa il partner in modo delirante, sulla base di prove inesistenti.12

Vi sono anche altre forme di gelosia intensa che rientrano nel campo della patologia, pur senza raggiungere gli estremi della sindrome di Otello. Tali forme sono caratterizzate da comportamenti di tipo possessivo e dalla presenza di pensieri intrusivi, irrazionali e persistenti sull’infedeltà del partner. Contemporaneamente si osserva la mancanza di una comprensione corretta ed equilibrata della circostanza in cui ci si trova. In questi casi si possono manifestare forme di violenza verbale o fisica nonché sentimenti intensi di rabbia, paura, tristezza e colpa. Il comportamento si focalizza sulla ricerca di informazioni sul partner al fine di comprovarne l’infedeltà. La situazione complessiva pone il soggetto sotto stress al punto da mettere a rischio la salute delle sue relazioni.13

La forma di gelosia patologica che abbiamo appena descritto si trova più facilmente associata alla gelosia di tipo ansioso e preventivo che non a quella di tipo reattivo. È inoltre collegata preferenzialmente a forme di attaccamento insicuro14 ed è accompagnata facilmente da manifestazioni di depressione.15

ATTACCAMENTO E GELOSIA

Il fenomeno della gelosia può essere meglio compreso facendo ricorso alla teoria dell’attaccamento.16 17 Nel corso del Novecento, il lavoro di John Bowlby ha portato a concepire l’attaccamento come un bisogno fondamentale basato su radici biologiche. Le ricerche di Mary Ainsworth, allieva di Bowlby, hanno successivamente portato alla definizione di tre fondamentali stili di attaccamento.18

L’individuo contraddistinto da uno stile di attaccamento sicuro mostra ansia da separazione quando la persona affettivamente importante si allontana, ma tale malessere si converte in un sentimento chiaramente positivo al momento del riavvicinamento.19

Un individuo insicuro-ansioso si differenzia da un individuo sicuro perché il riavvicinamento non è sufficiente a calmarlo del tutto. L’ansia rimane per certi versi presente anche in presenza del partner. L’attaccamento insicuro ansioso è anche chiamato ambivalente, per la compresenza di sentimenti fra loro contrastanti.

Il terzo stile è quello dell’attaccamento insicuro-evitante. In questo caso l’individuo tende a minimizzare sia la manifestazione di malessere in fase di separazione sia la manifestazione di gioia in fase di riavvicinamento.

La persona insicura-ansiosa riconosce l’importanza della relazione, ma sembra non riuscire mai a raggiungere la sicurezza a riguardo della propria relazione. La persona insicura-evitante invece, sembra evitare il coinvolgimento intenso nella relazione, preferendo proteggere la propria indipendenza. 20 21

A questo punto è interessante vedere come si esprime l’emozione primaria della rabbia nei diversi stili di attaccamento, in quanto la rabbia risulta strettamente legata alla gelosia.

Nelle situazioni di attaccamento sicuro il sentimento della rabbia prevale sulle sfumature di paura e tristezza, anch’esse associate al sentimento della gelosia. Più precisamente, prevale un sentimento di rabbia espresso direttamente verso il partner, e tale sentimento andrebbe inteso come un tentativo di preservare la relazione.22

Anche nel caso di una persona gelosa caratterizzata da attaccamento insicuro-ansioso si osservano sentimenti di rabbia significativi, ma questi vengono espressi in modo indiretto, ad esempio tramite irritabilità. Gli insicuri-ansiosi di solito non rivolgono la loro rabbia direttamente al partner, forse per paura di perderlo.23

Tra gli evitanti l’espressione di rabbia verso il partner si colloca a livelli intermedi rispetto ai casi precedenti. Gli evitanti sembrano piuttosto impegnati a preservare la propria autostima. Fra gli evitanti, inoltre, sembra più difficile che la gelosia si risolva in un avvicinamento al partner. Tale eventualità sarebbe più tipica dell’attaccamento sicuro.24

Una precisazione è d’obbligo a riguardo dell’attaccamento sicuro. A questa forma di attaccamento non corrisponde una persona sempre e comunque sicura di sé stessa, che non ha mai davvero bisogno degli altri per stare bene. In realtà il bisogno degli altri è un tratto fondamentale della natura umana, e ciò che rende sicuro l’attaccamento non è l’assenza di tale bisogno. È il riconoscerlo e affrontarlo in modo costruttivo. Dunque anche la persona sicura prova gelosia, con la differenza che non ha paura di ammetterlo di fronte a sé stessa e agli altri, e che cerca modi interattivi ed efficaci per gestirla.25 26


Leggi anche: Attaccamento evitante e attaccamento ansioso negli adulti


LA GELOSIA E GLI STILI D’AMORE

Il modo in cui la gelosia si manifesta dipende anche dallo stile con cui si vive la propria relazione amorosa. La ricerca ne ha individuati sei. La gelosia eccessiva è tipica di chi vive l’amore con il cosiddetto stile della Mania, il quale si caratterizza per una concentrazione continua sul partner e su un continuo bisogno di avere per sé la sua attenzione. A parte Mania, gli altri stili che hanno più a che vedere con la gelosia eccessiva sono Agape, nel quale si antepone il benessere del partner al proprio, quasi con una forma di auto-sacrificio, ed Eros, basato sull’intesa e sull’attrazione reciproca. Vi è poi lo stile Ludus, in cui tipicamente accanto al partner vi sono altre figure nascoste nel ruolo di amanti. Gli stili più agli antipodi rispetto alla gelosia patologica sono quelli chiamati Storge e Pragma. Storge è una parola che indica un affetto di tipo familiare, ed è usata in questo caso per indicare un amore sviluppatosi gradualmente e di una natura prossima all’amicizia. Nello stile Pragma, infine, il partner è scelto con motivazioni prettamente pratiche quali gli effetti sulla propria carriera e sul proprio sistema famigliare, nonché la capacità di essere un buon genitore.27

Riusciamo, per gioco, ad immaginarci coinvolti in tali diversi modi di amare? Questo tipo di immaginazione può aiutarci ad allargare lo sguardo e a farci comprendere meglio le circostanze in cui la gelosia si manifesta.

ALCUNI RISULTATI DELLA RICERCA SCIENTIFICA

Nell’ambito degli studi scientifici sulla gelosia, questa viene spesso definita come una situazione triangolare in cui è presente un rivale, il quale interviene a minacciare la relazione di coppia.28 Dove vi è una relazione dunque, e non soltanto del tipo romantico29, vi sarebbe sempre la possibilità di un sentimento geloso. Non a caso la gelosia risulta presente in tutte o quasi le società studiate, nonostante i fattori scatenanti possano essere diversi da cultura a cultura.30 Un semplice esempio è quello della sottocultura swinger. In essa vengono accettati alcuni tipi di incontri che in altri contesti culturali provocherebbero facilmente una reazione di gelosia.31

La diffusione pressoché universale della gelosia può essere ricondotta al fatto che nell’ambito di una relazione sono sempre in gioco delle risorse di tipo limitato, a partire anzitutto dall’attenzione che ciascuno di noi è in grado di dare agli altri. Ne segue che quanto sarà concesso ad una persona, sarà con ciò sottratto ad un altra.32

La ricerca sulla gelosia mette in luce una differenza interessante fra uomini e donne. Le donne in genere sono più gelose degli uomini, e la loro gelosia viene provocata tipicamente dal coinvolgimento emotivo del partner verso una terza persona. Gli uomini, invece, sembrano più concentrati sulla gelosia a sfondo sessuale. La psicologia evoluzionistica suggerisce che questa tendenza degli uomini sia dovuta ad un certo tipo di sensibilità verso le possibilità di diventare padre.33

La formazione della gelosia è più probabile quando sono presenti determinate caratteristiche nella persona del rivale. Fra queste si trovano, come è facile immaginare, l‘attrattività del volto e del corpo, nonché la giovinezza e l’altezza. Anche una voce seduttiva può rivestire un ruolo importante. Le donne sono anche sensibili al grado di gentilezza e comprensione esibito dalla rivale.34

Vi è poi un altro aspetto del rivale, meno evidente, che suscita la gelosia. È quando il nostro rivale possiede in misura superiore le qualità che noi riteniamo importanti.35 Se la nostra autostima si fonda sulla prestanza atletica, ad esempio, potrebbe essere più facile ingelosirci a causa di un rivale più prestante di noi. Se invece fondiamo la nostra autostima sulla carriera lavorativa, potrebbe essere più facile ingelosirci a causa di un rivale con più successo lavorativo di noi.36

Per gestire la gelosia è importante aver presente alcune strutture molto importanti del pensiero umano. Una parte importante del nostro sapere è immagazzinata sotto forma di script. È come se vi fossero nella nostra mente una serie di copioni da recitare, adatti alle varie situazioni del vivere quotidiano. Il vissuto emotivo di ciascuno si fonda su schemi di pensiero e su script del tipo menzionato. Per approcciare schemi diversi da quelli che ci sono più caratteristici può rivelarsi utile il semplice immaginare noi stessi in un ruolo diverso da quello abituale. Se ci rendiamo conto di provare una gelosia eccessiva, c’è la possibilità di praticare un esercizio descritto in alcuni studi. Tale esercizio consiste nel recitare per alcuni giorni il ruolo di una persona solo moderatamente gelosa.37 In questo modo potremo esplorare percorsi verbali e sentieri emotivi nuovi, che non fanno riferimento al sentimento della gelosia.


Il nostro approccio teorico è basato sulle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp, secondo le quali vi sono sette emozioni fondamentali: rabbia, paura, pena della solitudine, eccitazione sessuale, gioco cura ed interesse/voglia di fare. Un aspetto generalmente riconosciuto della gelosia è la presenza di un contributo importante da parte della rabbia.38 La rabbia nasce generalmente dal mancato rispetto delle nostre aspettative. Nel caso della gelosia vediamo disattesa l’aspettativa che il partner dedichi a noi le sue attenzioni di natura più intima. Motivo per cui possiamo provare verso di esso un sentimento di ostilità. La rabbia può essere presente anche nei confronti del rivale, il quale è colpevole di non aver rispettato, per così dire, il nostro territorio.

Per arrivare a comprendere la gelosia bisogna passare dunque dalla comprensione della rabbia. Sul nostro sito sono presenti alcuni articoli che approfondiscono diversi aspetti di quest’emozione. Se ne può trovare una sintesi a questa pagina: La psicologia della rabbia: un’occasione per crescere. In particolare, alcune osservazioni sulla rabbia che possono rivelarsi utili alla gelosia si trovano in questi articoli: La rabbia repressa (con alcune osservazioni importanti sulla comunicazione assertiva) e La rabbia verso il partner: il ruolo delicato del desiderio

Aver descritto i diversi tipi di gelosia (reattiva, ansiosa e possessiva) rende il nostro sguardo più attento nel cogliere i dettagli di ogni situazione in cui la gelosia si manifesta. E ci fa capire che la gelosia può essere nociva specialmente quando è infondata, oppure quando viene espressa in modo distruttivo.1 La visione offerta dalla teoria dell’attaccamento ci porta a dare una maggiore dignità al nostro bisogno degli altri e a comprendere meglio le radici della gelosia. La descrizione di alcuni diversi stili di amare può aiutarci ad accendere il nostro immaginario. La teoria dei sistemi emotivi ci consente di contestualizzare la gelosia ponendola in relazione con le altre forme emotive fondamentali. Come risultato, probabilmente, non avremo l’annullamento della gelosia. Potremo però aspirare a riconoscerla sul nascere e a trasformarla in un atteggiamento che costruisce. Superando la paura di manifestare la nostra vulnerabilità. Trovando anche quel piccolo ma importante coraggio necessario per raccontare al partner la nostra paura di perderlo. Senza nascondere le nostre fantasie sulle possibili infedeltà per timore di sembrare deboli. Piuttosto giocandocele, guardandosi negli occhi, come una chance per ritrovare ogni volta l’intimità più delicata.

Leggi anche: Psicologia dell’invidia: un’emozione sconveniente

(modifica del 3 luglio: reso piú fluente l’incipit senza variazioni maggiori di contenuto)

BIBLIOGRAFIA

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1“Là dove la gelosia in risposta ad una minaccia effettiva alla relazione potrebbe mostrare che i partner sono interessati uno all’altro, la gelosia in assenza di una minaccia effettiva alla relazione e/o la gelosia che è espressa in modo distruttivo può causare problemi di relazione e rivelarsi nociva per la relazione (Guerrero & Eloy, 1992)”. Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 179.

2“La gelosia reattiva è il grado al quale gli individui provano emozioni negative, come rabbia e turbamento, quando il loro compagno è o è stato emozionalmente o sessualmente infedele.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 177.

3“La gelosia possessiva si riferisce allo sforzo considerabile che può essere prodotto dagli individui per prevenire contatti da parte del proprio partner con individui del sesso opposto.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 177.

4“Infine, la gelosia ansiosa si riferisce al processo in cui l’individuo rimugina a riguardo dell’infedeltà del compagno e genera cognitivamente immagini su di essa, ed esperisce sensazioni di ansia, sospetto, preoccupazione e sfiducia.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 177.

5“In contrasto, i nostri studi hanno individuato associazioni positive tra la qualità della relazione e la gelosia reattiva. La gelosia reattiva sembra quindi costituire un fenomeno di relazione primariamente positivo.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 183.

6“In tutti e tre gli studi, sia il livello di gelosia ansiosa degli individui sia quello dei loro partner erano negativamente correlati alla qualità della relazione. La gelosia ansiosa sembra dunque costituire un fenomeno di relazione negativo.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 183.

7“In particolare, le tecniche cognitivo-comportamentali, come l’identificazione e la messa in discussione delle credenze irrazionali (come per esempio: “Io devo essere sempre amato“), il gioco di ruolo prolungato (fixed role playing) (giocare per una settimana ad essere qualcuno che non è irragionevolmente geloso) e la desensitivizzazione hanno dimostrato la loro efficacia nel trattamento della gelosia infondata (DeSilva & Marks, 1994; Ellis, 1996; Ridley, 1996).” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 185.

8“Al contrario, gestire la gelosia reattiva in questo modo, sarebbe a dire razionalizzando l’intensità dei sentimenti di dolore e rabbia in risposta alla effettiva infedeltà del partner, potrebbe deteriorare anziché migliorare il funzionamento della relazione.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 185.

9“L’intensità dell’esperienza di gelosia reattiva potrebbe forse essere gestita al meglio elaborando i sentimenti di dolore e rabbia risultanti dalla trasgressione del partner. In aggiunta, all’inizio della terapia, gli individui gelosi reattivamente potrebbero essere aiutati a decidere di perdonare il loro partner per l’infedeltà, praticando il cosiddetto perdono decision-based.” Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 185.

10A completamento di quanto detto in questo paragrafo si potrebbe notare come spesso le persone contraddistinte da uno stile di gelosia reattiva abbiano un partner abituato ad esprimere un tipo simile di gelosia, e lo stesso vale per la gelosia di tipo ansioso. (La citazione sarebbe possibile, ma non ricordo da dove esattamente.)

11Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 179.

12“La gelosia delusionale, conosciuta anche come Sindrome di Otello, è solitamente associata al genere maschile, all’abuso cronico e severo di alcol, alla demenza e a lesioni al lobo frontale destro, non dominante” Stravogiannis et al. 2018, p. 563.

13Stravogiannis et al. 2018, p. 562-564, ed in particolare:

“I partecipanti con un punteggio superiore a 43, (Marazziti et al., 2003) e che avevano riportato tutti i seguenti sintomi furono ritenuti adatti alla presente ricerca: (1) pensieri irrazionali e sospetti riguardo alla fedeltà del partner; (2) comportamento eccessivo diretto a scoprire informazione sull’infedeltà sospetta; (3) intense sensazioni di rabbia, paura, tristezza e colpa; violenza verbale o fisica contro il partner o una terza parte; e (4) pensieri/comportamenti che causano stress e danno alle relazioni sociali, emozionali o sessuali (Tarrier et al., 1990; Kingham and Gordon, 2004).” Articolo citato, p. 564.

14Stravogiannis et al. 2018, tabella 2 a pagina 566.

15Stravogiannis et al. 2018, tabella 3 a pagina 566.

16Qui si potrebbe aggiungere un’eventuale riferimento a Sharpsteen e Kirkpatrick 1997.

17 Ricordiamo che nella situazione tipica della gelosia siamo in presenza di una minaccia nei confronti delle relazioni di attaccamento. “In breve, sia il complesso della gelosia (…) sia il sistema di attaccamento a) possono essere pensati come sistemi per il mantenimento delle relazioni strette; b) appaiono innescati dalla separazione, o dalla minaccia di separazione, da figure di attaccamento (caregivers o partner romantici); c) implicano le medesime emozioni fondamentali di paura, rabbia e tristezza…” Sharpsteen e Kirkpatrick 1997, p. 627.

Bisogna però tenere presente che nella ricerca riportata nello studio citato la linea di distinzione fra paura e tristezza potrebbe non corrispondere esattamente alla distinzione fra il sistema emotivo della paura e quello della pena della solitudine. Nondimeno ci sembra possibile utilizzare i risultati di tale studio come indicazioni orientative.

18Gillibrand et al. 2019, pp. 52-56.

19 Qui è importante sottolineare che l’ansia da separazione non è di per sé un tratto patologico, bensì un fenomeno naturale nella persona umana. “Uno dei contributi primari di Bowlby fu quello di mostrare come l’ansia da separazione fosse una risposta naturale e prevedibile alla separazione da una figura di attaccamento – anziché una paura irrazionale o nevrotica, come era stata caratterizzata nella letteratura psicoanalitica – perché l’assenza della figura di attaccamento segnala un aumentato rischio di pericolo (Bowlby, 1973).” Sharpsteen e Kirkpatrick 1997, p. 629.

20Per meglio comprendere lo stile di attaccamento nell’ambito di una relazione adulta si possono prendere in considerazione le tre frasi caratterizzanti tratte da Hazan e Shaver 1987, p. 515.

“Sicuro (…): Io trovo relativamente facile avvicinarmi agli altri e sono a mio agio nel dipendere da loro e nel loro dipendere da me. Non mi preoccupo spesso di essere abbandonato o che qualcuno si avvicini troppo a me.”

“Evitante (…): Mi trovo in qualche modo a disagio nell’essere vicino agli altri; trovo difficile fidarmi di loro completamente e consentire a me stesso di dipendere da loro. Sono nervoso quando chiunque si avvicina troppo, e spesso, i partner romantici vorrebbero che io avessi un atteggiamento più intimo di quello che io trovo confortevole.”

Ansioso/Ambivalente (…): Trovo che gli altri siano riluttanti ad avvicinarsi quanto io vorrei. Temo spesso che il mio partner non mi ami davvero o che non vorrà stare con me. Voglio fondermi completamente con un’altra persona, e questo desiderio a volta spaventa e fa allontanare le persone.”

21Qui si potrebbero aggiungere alcune note sull’attaccamento adulto da Sable 2008.

22“I partecipanti caratterizzati da un attaccamento sicuro provarono rabbia più intensamente che altre emozioni, ed erano relativamente più pronti ad esprimerla rispetto ad altri partecipanti, specialmente verso il loro partner. E anche se i partecipanti ansiosi provarono rabbia relativamente intensamente, ed erano pronti come gli altri ad esprimerla attraverso irritabilità, essi erano meno pronti ad affrontare davvero il loro partner. Ciò potrebbe essere attribuibile a sentimenti di inferiorità e paura, che erano specialmente caratteristici dei partecipanti caratterizzati da attaccamento ansioso, e da cui ci si poteva aspettare l’inibizione delle espressioni dirette di rabbia.” Sharpsteen e Kirkpatrick 1997, p. 637.

23Vedi nota del paragrafo precedente.

24“Inoltre, era relativamente più probabile che gli evitanti lavorassero per mantenere la loro autostima e, forse come conseguenza, era per loro relativamente meno probabile un avvicinamento al partner (a seguito dell’esperienza di gelosia, N.d.T).” Sharpsteen e Kirkpatrick 1997, p. 637.

25In uno studio sull’attaccamento in età adulta la sicurezza nell’individuo adulto “veniva identificata attraverso l’abilità degli intervistati di riflettere sulle loro esperienze e di descriverle in una maniera aperta e coerente. Non era necessario che le loro prime esperienze (…) fossero state prive di problemi nella misura in cui esse venivano integrate in una visione bilanciata che né idealizzava né condannava (maligned) i loro genitori. Gli altri schemi suggeriscono una strategia difensiva che alternativamente massimizza (…) o minimizza (…) il comportamento di attaccamento.” Sable 2008, p. 24.

Coloro che massimizzano corrispondono allo stile insicuro-ansioso, e nello studio citato sono descritti con l’aggettivo “preoccupato” (preoccupied). Coloro che minimizzano corrispondono allo stile insicuro-evitante, e nello studio citato sono descritti con l’aggettivo inglese “dismissing”.

26Riporto qui alcune note ulteriori sull’attaccamento in età adulta:

“Anche se suscitato con meno urgenza, il bisogno di mantenere il contatto con le figure di attaccamento e specialmente di cercarle quando si presentano delle situazioni stressanti è un tratto caratteristico dell’attaccamento lungo tutto il ciclo di vita. I mezzi per raggiungere prossimità e comunicazione diventano più organizzati nel corso dello sviluppo, diversi e sofisticati, e il comportamento di attaccamento si direziona a persone e gruppi oltre la sfera famigliare, ma le condizioni che suscitano il comportamento non cambiano.” Sable 2008, p. 22-23.

“In alcune situazioni un adulto potrebbe essere in grado di ridurre lo stress semplicemente pensando ad una figura di attaccamento ma in certe circostanze queste rappresentazioni mentali non potrebbero portare sollievo, e la persona necessita di una prossimità effettiva (Mikulincer and Shaver 2007).” Sable 2008, p. 23.

“La prima evidenza degli effetti dell’attaccamento in età adulta venne dal lavoro di Marris (1982), Parkes (1991), e Weiss (1982, 1991), i quali trovarono che la separazione o la perdita di una figura affettiva chiave portava a una sequenza di risposte – protesta, disperazione, distacco – comparabile a quelle che Robertson e Bowlby avevano identificato nei bambini in tenera età che erano stati separati dai loro genitori.” Sable 2008, p. 23.

“I risultati provenienti dagli AAQ sostanzialmente supportano la misura di Hazan e Shaver’s (1987), con l’attaccamento insicuro rappresentato da due dimensioni, evitamento o ansietà (Mikulincer e Shaver 2007).” Sable 2008, p. 23. (AAQ sta per “Adult Attachment Questionnaire”: questionario per l’attaccamento in età adulta)

“Hanno bisogno di sapere che c’è qualcuno che sta attento a loro che li cercherebbe se loro non comparissero quando ce lo si aspetta.” Sable 2008, p. 24.

27Hendrick et al. 1998, p. 151.

28“Per molti, la situazione prototipica che evoca la rabbia implica una triade romantica: un individuo diventa geloso quando lui o lei sospetta o effettivamente apprende che il partner prova interesse per un rivale (Salovey, 1991).” DeSteno et al. 2006, p. 627.

29“La ricerca supporta chiaramente il fatto che la gelosia non è limitata solo alle relazioni romantiche ma può accadere nell’ambito di ogni tipo di relazione triadica. La ricerca sullo sviluppo, per esempio, ha mostrato che i bambini potrebbero essere gelosi delle relazioni di fratelli e sorelle con i genitori (Masiuch & Kienapple, 1993; Volling, McElwain, & Miller, 2002); è stato mostrato che i lavoratori sono gelosi delle relazioni dei loro collaboratori con i superiori (Vecchio, 2000)” DeSteno et al. 2006, p. 627.

30“Anche se il tema della protezione dell’autostima (…) si pone come un universale biologico, la messa a punto del sistema relativamente ai fattori che implicano una minaccia rimane aperto a ricevere una grande influenza da parte dell’apprendimento sociale idiografico e dell’acculturazione.” DeSteno et al. 2006, p. 637.

31“Presso i Todas dell’India o la sottocultura “swinger” in Europa e negli Stati Uniti, per esempio, le interazioni extradiadiche di certi tipi sono una pratica accettata (Buunk, 1991; Rivers, 1906).” DeSteno et al. 2006, p. 636.

32Ad esempio: “I genitori possiedono una quantità finita di risorse personali (per esempio emozionali e attenzionali) e sostanziali (per esempio in termini di economia e cibo) che possono essere divise fra la prole; in modo simile i superiori possiedono una quantità finita di privilegi che possono offrire.” DeSteno et al. 2006, p. 627.

33“Numerosi studi hanno mostrato che gli uomini fanno esperienza di livelli relativamente più elevati di gelosia in risposta agli aspetti sessuali di un’infedeltà (relativamente alle donne), mentre le donne fanno esperienza di livelli relativamente più elevati di gelosia in risposta agli aspetti emozionali di un infedeltà (relativamente agli uomini).” Edlund et al. 2019, p. 575.

“È importante notare che molti fattori oltre all’influenza evolutiva possono influenzare la risposta di una particolare persona ad una particolare situazione in grado di produrre gelosia (per esempio, in molti studi sulla gelosia, le donne riportano livelli più elevati di gelosia in risposta a tutti gli aspetti di un’infedeltà; Edlund & Sagarin, 2009).” Edlund et al. 2019, p. 579.

“È anche importante notare che ci stiamo occupando delle origini ultime del comportamento umano; le ragioni prossime di un particolare comportamento potrebbero apparire completamente disconnesse dall’origine ultima.” Edlund et al. 2019, p. 579.

“Presi nel loro insieme, questi studi si schierano a favore di un cambiamento nella nostra comprensione della differenza di genere nell’ambito della gelosia. Suggeriamo che la migliore spiegazione per il lato maschile della differenza di genere nell’ambito della gelosia sia che gli uomini siano sensibili alla perdita percepita di opportunità di paternità (piuttosto che alla perdita di certezza di paternità.)” Edlund et al. 2019, p. 586.

34“In particolare, il dominio fisico in entrambi i sessi (attrattività del corpo e del volto, giovinezza, altezza) e la voce seduttiva (…) possono essere minacciosi. Le donne sono influenzate anche dalla gentilezza e dalla comprensione della rivale femminile (Ottesen, Nordeide, Andreaseen, Stronen, & Pallesen, 2011).” Martinez-Leon et al. 2017, p. 208.

35“Per esempio, il nostro passato lavoro di investigazione sui legami tra l’autostima e la gelosia ha rivelato come gli individui pensino che saranno più gelosi di rivali che eccellono nelle aree di grande importanza per l’autoconcezione di questi individui (DeSteno & Salovey, 1996b).” (In inglese: “…areas of high import to these individuals’ self-concepts”). DeSteno et al. 2006, p. 629.

36Si possono facilmente immaginare altri esempi costruiti, fra le altre cose, sul grado di competenza nel mondo dell’arte, in filosofia, in termini di profondità spirituale o di performance sessuale.

37Vedi nota 7 (Barelds e Barelds-Dijkstra 2007, p. 185).

38“In relazione alla fenomenologia, la maggior parte dei ricercatori ritiene che l’esperienza soggettiva della gelosia sia piuttosto spiacevole e descrivibile al meglio come una combinazione o una mescolanza di sentimenti di rabbia, ansia, tradimento e dolore (Buck, 1999; Hupka, 1984, 1991; Parrott & Smith, 1993; Sharpsteen, 1991; Sharpsteen & Kirkpatrick, 1997).” DeSteno et al. 2006, p. 627.

Combattere la depressione con l’attività fisica

Il modo migliore di fare sport contro la depressione è concentrarsi sulla propria personale sensazione di piacere. Questo atteggiamento mentale sembra essere più importante rispetto all’attività specifica che scegliamo di praticare.

Qui di seguito riportiamo l’estratto del nostro libro sulla depressione in cui si approfondisce questo tema, facendo riferimento ai più recenti risultati della ricerca scientifica.


Nel 1979 è stato scritto un articolo che parlava della possibilità di usare la corsa come rimedio contro la depressione. Negli anni successivi si è sviluppata un’attenzione crescente alla possibilità di impiegare l’esercizio fisico come terapia per i disturbi di natura depressiva, e negli ultimi anni si sono resi disponibili un gran numero di esperimenti e di meta-analisi su questo argomento. Una meta-analisi è un articolo accademico dove si aggregano i risultati degli esperimenti condotti in altre pubblicazioni, solitamente per mezzo di metodi statistici.

Oggi sono disponibili anche delle meta-meta-analisi, come quella di Rebar e colleghi del 2015, nella quale si osserva che Basandosi sugli effetti di quasi 400 esperimenti randomizzati e più di 14.000 partecipanti, è stato trovato che l’attività fisica ha un effetto riduttivo significativo sulla depressione, di dimensione media, ed un effetto riduttivo significativo sull’ansia, di dimensione piccola.1

Questi risultati riguardano l’andamento dei sintomi depressivi in una popolazione non clinica, mentre per i casi di pazienti a cui è stata diagnosticata ufficialmente una sindrome depressiva il risultato è anche più consistente: Nella popolazione clinica, l’effetto anti-depressivo dell’attività fisica è stato stimato come medio e grande”.2

Nel caso dell’ansia invece, prendendo in considerazione le forme più gravi l’effetto migliorativo dell’esercizio fisico diviene meno evidente.3 A tal proposito, è opportuno ricordare che le patologie collegate all’ansia sono più diversificate rispetto ai disturbi depressivi, e dunque è più difficile fare una generalizzazione sugli effetti di una terapia specifica: A livello clinico l’ansia si può manifestare in disordini di natura divergente (per esempio attacchi di panico, fobie, ansia generalizzata) e potrebbe essere che gli effetti dell’esercizio fisico differiscano tra questi disordini”. 4 5 6


LEGGI ANCHE: Ansia e Depressione: relazione e differenze


L’effetto positivo dell’attività fisica sulla salute in generale, inclusa la depressione, è riconosciuto dall’organizzazione mondiale della salute (OMS), che suggerisce di compiere attività fisica moderata per almeno 150 minuti a settimana, oppure 75 minuti di attività intensa.7 8 9 L’attività fisica moderata viene definita come “l’attività che è compiuta ad un intensità di 3,0-5,9 volte il riposo. Nell’ambito di una scala relativa alle capacità personali di un individuo, l’attività fisica moderata ha solitamente un’intensità di 5 o 6 su una scala da zero a dieci.” Sempre secondo l’OMS, “Il tipo di attività fisica può prendere molte forme: aerobica, anaerobica (attività di potenza), flessibilità (stretching), equilibrio”. “L’attività aerobica, chiamata anche attività di resistenza, migliora la capacità cardiorespiratoria. Esempi di attività aerobica includono: la camminata svelta, la corsa, la bicicletta, il salto della corda, e il nuoto.10

Il fatto che l’esercizio fisico abbia un effetto positivo sulla salute mentale non vuol dire che si sia individuato in modo preciso il meccanismo fisiologico sottostante, e molta ricerca deve ancora essere fatta per approfondire la conoscenza di questo fenomeno.11 Di recente sono stati pubblicati degli studi che misurano il piacere dato dall’esercizio fisico durante lo svolgimento dell’attività fisica anziché nei momenti precedenti o successivi, e questa modalità sperimentale ha consentito ad Ekkekakis ed altri ricercatori di mettere a punto un modello degli effetti dell’attività fisica sul benessere mentale.

In questi studi è stata individuata una soglia fisiologica al di sopra della quale si verificano effetti stressanti per molti sistemi fisiologici, ed è molto interessante che questa soglia corrisponda al limite oltre il quale non si prova più piacere nel condurre l’esercizio. Esercitandosi in prossimità di questa soglia si possono ottenere benefici sulla salute ed insieme una sensazione di piacere. Come conseguenza, l’abitudine a praticare l’esercizio ne viene rinforzata.

A questi effetti fisiologi di base si possono combinare influenze di tipo cognitivo. Ad esempio, è significativo che le stesse intensità di esercizio possano essere percepite come meno piacevoli se il livello di esercizio è imposto dall’esterno anziché scelto autonomamente. Il suggerimento che ne segue è di effettuare un esercizio seguendo la propria sensazione di piacere personale, evitando comunque di scendere ad intensità eccessivamente basse. L’approccio in base al quale si considera l’esercizio fisico come una medicina rischia invece di avere effetti controproducenti, perché distoglie dall’idea che si tratti di una potenziale fonte di piacere.12 13

Dagli studi del già citato Ekkekakis emergono anche altre indicazioni su come si può strutturare la sessione di esercizio fisico, al fine di favorire la continuità da parte dei praticanti. Facendo riferimento agli studi di economia comportamentale, Ekkekakis nota che la durata della sessione di esercizio fisico non è rilevante14. “Invece, ciò che appare essere più influente sul successivo processo decisionale è il livello di piacere o dispiacere provato alla fine dell’episodio (la cosiddetta “end rule”15), l’ampiezza positiva o negativa del picco affettivo (la cosiddetta “peak rule”16) e la pendenza del cambiamento lungo l’asse piacere-dispiacere nella seconda metà dell’episodio (…). Questi principi potrebbero avere una diretta implicazione per come sono strutturate le sessioni di esercizio fisico, evitando picchi negativi (come negli intervalli di allenamento ad alta intensità), assicurando un finale piacevole, e scalando verso il basso l’intensità nella seconda metà della sessione.17

Leggi il nostro libro sulla depressione

1Rebar e altri 2015, pagina 9.

2Rebar e altri 2015, pagina 9.

3Anche da Jayakody 2014, che riguarda l’ambito clinico dei disturbi d’ansia, risulta che vi sono casi specifici in cui si è evidenziata la potenzialità dell’esercizio fisico, ma manca il riscontro di un effetto consistente e generalizzato.

4Rebar e altri 2015, pagina 9.

5Stonerock e altri 2015, a pagina 11, assumono una posizione simile, sempre a riguardo dei casi clinici di ansia.

6Sull’efficacia dell’esercizio fisico per ridurre i sintomi di ansia nella popolazione generale si veda anche Wipfli e altri 2008 a pagina 400: “Si è trovato che l’esercizio fisico è meglio oppure pari a tutte le altre forme di terapia, eccetto la farmacoterapia; la dimensione dell’effetto per la farmacoterapia (rispetto all’esercizio fisico, NdT) è risultata 0.11, che viene considerato molto piccolo.”

7World Health Organization 2010, pagine 25-26.

8Le indicazioni per le persone sopra i 65 anni sono simili. Soltanto, si inseriscono delle raccomandazioni specifiche per i casi di limitata mobilità e per il miglioramento dell’equilibrio.

9Sul valore dell’attività ad intensità moderata si consideri anche: “Il dato più importante è che la dose pubblica consigliata (public health dose, PHD) di esercizio fisico è una monoterapia effettiva per casi di depressione con intensità da leggera a moderata.” Dunn e altri 2005, pagina 5.

Ed anche: “…l’evidenza sembra suggerire con forza che questi effetti non sono dipendenti dai cambiamenti dei livelli di forma fisica; anche piccoli valori incrementali di attività fisica possono avere benefici significativi per la salute mentale.” Rebar e altri 2015, pagina 10.

10World Health Organization 2010, pagina 16.

11Rebar e altri 2015, pagina 10.

12Ekkekakis e altri 2011, pagine 661-662 e 666.

13Si consideri anche la seguente opinione critica espressa in riferimento al movimento Exercise is Medicine, che tende a promuovere l’esercizio fisico come una medicina anziché facendo appello al piacere che se ne può provare: “Infine, un focus sugli effetti medicinali benefici dell’esercizio non ha rispecchiato i molteplici tipi di piacere esperiti attraverso la partecipazione all’esercizio.” Williams e altri 2017, pagina 1.

14In inglese il fenomeno si chiama “duration neglect”, che in italiano potremmo rendere come “dimenticanza della durata”.

15In italiano potremmo dire “regola della fine”.

16In italiano potremmo dire “regola del picco”.

17Ekkekakis e altri 2013, pagina 755.

Inside Out e la psicologia della Rabbia

Il modo migliore di comprendere la rabbia è collocarla in una storia. Perché così impariamo a distinguere con più precisione le situazioni in cui nasce. E perché ci abituiamo a prevedere in anticipo i suoi risvolti più delicati.

Nella storia di Inside Out, il famoso film della Pixar, Rabbia è un personaggio basso e robusto, che indossa una camicia bianca e porta la cravatta, quasi a sottolineare la convinzione molto seria riposta nelle proprie ragioni. Una voce fuori campo lo introduce con queste parole: “Lui è Rabbia, ci tiene molto che Riley non subisca ingiustizie”.

Riley è la ragazzina protagonista del film. Quando il padre le dice che non potrà avere il dolce se non mangerà i broccoli, Rabbia percepisce l’ingiustizia in atto e prende il controllo della situazione, spingendo Riley a fare una piccola scenata e a buttare il piatto per terra. Il padre reagisce prontamente e si mette a giocare facendo l’aeroplano col cucchiaio; l’espediente funziona, Riley si incuriosisce al gioco del padre e smette di fare i capricci.

Quando Riley diventerà più grande le situazioni da cui si nascerà la rabbia assumeranno una natura sempre più complessa, e non sarà più possibile risolverle in modo così semplice.

L’evento principale del film è il trasloco con cui la famiglia di Riley si trasferisce dallo stato del Minnesota alla città di San Francisco. Il cambiamento si rivela emotivamente molto stressante per Riley. La nuova casa non è bella come l’aveva sognata, le stanze sono tutte vuote e i genitori sono sempre impegnati nel lavoro. Non ci sono amici con cui giocare, e le mancano i luoghi familiari del Minnesota.

Il primo giorno nella nuova scuola si rivela traumatico. Riley è chiamata a presentarsi davanti ai suoi compagni, ma mentre sta raccontando i propri ricordi diventa triste e si mette a piangere, perché si rende conto delle cose che ha perso. In quel momento si sente terribilmente a disagio, osservata e giudicata dai suoi nuovi compagni, con cui non ha ancora confidenza.

Riley è sempre stata un’appassionata giocatrice di Hockey. Quando prova a giocare nella nuova squadra di San Francisco, però, ha un momento di incertezza che la fa cadere nel bel mezzo di un’azione. È in questo frangente che l’intervento infastidito di Rabbia porta Riley alla decisione di andarsene dalla squadra, e le fa perdere così il legame con il mondo dell’Hockey.

In un altro momento, nel corso di una videochiamata, Riley viene a sapere che la sua migliore amica del Minnesota ha già trovato un’altra amica con cui ha una grande confidenza. Anche in questa situazione una rabbia mista a gelosia prende il sopravvento e irrita Riley fino al punto di interrompere bruscamente la chiamata, gettando così un’ombra negativa su un’amicizia fino a quel momento fonte di gioia.

I genitori di Riley sono molto presi dai loro impegni e faticano a seguire Riley con attenzione. Quando poi il padre e la madre si accorgono che qualcosa non va, e cercano di comprendere i sentimenti di Riley, il padre non riesce ad essere abbastanza attento e delicato. Succede così che Rabbia prenda ancora una volta il controllo, provocando uno scontro verbale fra Riley ed il padre.

L’insieme degli episodi negativi provoca una stratificazione del sentimento della rabbia, e dentro di sé la ragazza inizia ad accusare i genitori per averla portata in un posto dove non sta bene. Nasce così la decisione di fuggire di casa per tornare nel luogo dove era felice: il Minnesota. Il risentimento contro i genitori arriva perfino a giustificare il furto dei soldi che le servono per acquistare il biglietto dell’autobus.

Accecata dalle proprie ragioni, Rabbia ha prodotto un progetto irrealizzabile senza ragionare a sufficienza sulle conseguenze. Per fortuna la fuga viene interrotta dall’intervento decisivo di Tristezza, che porta Riley a sentire la mancanza dei genitori. Riley rinuncia così alla fuga, scende dall’autobus e corre verso casa, dove ritroverà l’abbraccio dei genitori.

Se ripensiamo a tutte le situazioni in cui Rabbia ha preso il controllo, vediamo che aveva sempre una ragione ben precisa per intervenire. Eppure, le conseguenze della sua influenza hanno peggiorato la situazione di Riley e messo a rischio le sue relazioni. La piccola morale che possiamo trarne è che dobbiamo sempre ascoltare la rabbia per capire da dove si è originata, ma poi è meglio evitare di seguire i suoi consigli. Sul momento questi hanno l’incredibile potere di sembrare perfetti, ma col passare del tempo rivelano tutta la loro inconsistenza.

La parte finale del film ci lascia intravedere la possibilità di dare un ruolo più costruttivo alla rabbia, impiegandola come una spinta per essere più determinati nelle nostre attività preferite. Nel caso di Riley, questo può accadere quando Rabbia la porta a dare il massimo impegno sul campo da Hockey.

Inside out non è soltanto un film per bambini, ed anche gli adulti possono trovarvi dei buoni spunti di riflessione. La rabbia è un sentimento universale che ci accompagna per tutto l’arco della vita, così come anche le altre emozioni messe in scena nel film della Pixar: Gioia, Tristezza, Paura e Disgusto. Esse sono tutte dotate di una loro funzione particolare e di un espressione facciale caratteristica.

Paul Ekman, insieme a Carroll Izard, é stato un pioniere degli studi sull’espressione facciale delle emozioni, e non a caso è uno degli esperti consultati dalla Pixar per stendere la trama di Inside Out.

Un approccio teorico distinto da quello delle espressioni facciali delle emozioni è costituito dalle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp. Queste forniscono, a nostro avviso, una comprensione più profonda dei fenomeni emotivi rispetto agli studi sulle espressioni facciali, le quali rimangono comunque un approccio molto interessante. Le emozioni fondamentali secondo le neuroscienze affettive sono Rabbia, Paura, Sessualità, Cura, Pena della solitudine, Gioco e Interesse/Voglia di fare.

Sul nostro sito sono presenti alcuni articoli che approfondiscono il tema della rabbia. Nel post “La psicologia della rabbia: un’occasione per crescere.” se ne può trovare una breve descrizione. Qui segnaliamo in particolare il nostro scritto sulla rabbia nei bambini, di cui riportiamo l’inizio:

Assistere alle crisi di rabbia di un bambino può essere spiazzante. Durante questi episodi i bambini lanciano oggetti, urlano e sbattono i piedi. Nei momenti più intensi danno calci, fanno versi, colpiscono, tirano e spingono. Tali comportamenti non rappresentano il caso più insolito o bizzarro, e costituiscono piuttosto un elenco delle azioni più caratteristiche compiute dai bambini durante le crisi di rabbia. A volte, i bambini possono anche arrivare a…” LEGGI TUTTO

La psicologia della rabbia: un’occasione per crescere.

La rabbia è una finestra psicologica sull’intimità della persona che si arrabbia. Ci arrabbiamo quando vengono toccate le nostre aspettative, e per difenderci mettiamo in atto una reazione tesa a riaffermare i nostri diritti. Il problema è che dobbiamo stare attenti a non calpestare le aspettative e i diritti altrui. In un certo senso il sentimento della rabbia è una sorta di sentinella della nostra identità.1 Dovremmo imparare a riconoscerne i segnali più lievi ed impercettibili. Così da dare a questo sentimento una forma verbale appropriata, quando ancora si presenta come un’esigenza di cui è lecito chiedere il rispetto.


SUL NOSTRO SITO SONO PRESENTI UNA SERIE DI ARTICOLI SULLA PSICOLOGIA DELLA RABBIA, CHE PRENDONO SPUNTO DALLE NEUROSCIENZE AFFETTIVE DI JAAK PANKSEPP. QUI DI SEGUITO NE POTETE TROVARE UNA BREVE SINTESI.


La rabbia monta con una spirale negativa di ragionamenti che si auto-rinforzano; per calmarci dobbiamo disattivare questo meccanismo. Per farlo ci servono dei compiti con cui tenere occupato il pensiero, delle iniziative che funzionino da distrazione nei confronti della rabbia. Verrà più tardi il momento in cui saremo tranquilli e potremo tornare a riflettere su quanto accaduto, per elaborare una diversa interpretazione dei fatti.

Ci sono molte attività che possono funzionare come distrazione. Potremmo, per esempio, preparare un viaggio, riordinare la stanza, guardare un film o fare esercizio fisico. Una particolare menzione merita la cura: prendersi cura di qualcuno implica un’emotività positiva in grado di bilanciare la negatività della rabbia. Anche l’umorismo può rivelarsi utile, quando allenta la tensione sociale che ha dato luogo alla rabbia.


PER APPROFONDIRE: ATTACCHI DI RABBIA E SCATTI D’IRA


Quando due persone fanno la scelta di stare vicine l’una all’altra, è davvero facile “pestarsi i piedi” e arrabbiarsi. Le manifestazioni di rabbia assumono un ruolo particolare quando avvengono nell’ambito di un rapporto di coppia. Se gestite nel modo sbagliato diventano il punto di attrito su cui sedimentano i sentimenti negativi. Ma, se comprendiamo gli schemi tipici che governano il conflitto fra uomo e donna, allora gli episodi di rabbia possono anche diventare l’occasione per conoscersi meglio. La rabbia, infatti, rivela quanto più ci sta a cuore.


PER APPROFONDIRE: LA RABBIA VERSO IL PARTNER: IL RUOLO DELICATO DEL DESIDERIO.


Si sente parlare spesso della possibilità di “sfogare la rabbia” distruggendo qualcosa. In letteratura sono presenti alcuni articoli che mostrano come tale approccio sia tendenzialmente sbagliato. Vi sono in proposito due punti da tenere ben presenti. Il primo è che la rabbia si disattiva se si disinnesca la rappresentazione dell’offesa che le aveva dato origine, non se si esauriscono le energie fisiche prodotte dalla rabbia. Se mi rendo conto che l’offesa ricevuta non era in realtà diretta verso di me, la mia rabbia e l’alterazione fisica scompaiono in una frazione di secondo, senza bisogno di “buttar fuori” nessuna energia fisica.

Il secondo punto da tenere presente è che, a titolo di esempio, se prendo a pugni un cuscino rimanendo focalizzato sulla persona che mi ha offeso, allora non miglioro di molto il mio stato d’animo. Se invece faccio attività fisica come forma di distrazione, senza pensare a chi mi ha offeso, questo può aiutare.


PER APPROFONDIRE: SFOGARE LA RABBIA?


Il concetto di rabbia repressa implica la difficoltà ad esprimere correttamente la propria rabbia. La soluzione però non dovrebbe essere quella di mostrare agli altri la parte peggiore di noi stessi. La soluzione dovrebbe essere la coltivazione della capacità di comunicare le nostre esigenze. Può sembrare scontato, ma a volte consumiamo un intero discorso senza riuscire a dire in modo chiaro di cosa abbiamo bisogno e cosa ci da fastidio. Se invece riuscissimo a parlare delle cose che per noi sono importanti, gli episodi di arrabbiatura, poi, potrebbero sembrarci meno difficili da affrontare. Perché smetterebbero di diventare il simbolo di un’incapacità sistematica di farsi valere.

Le espressioni di rabbia sono già presenti nei bambini di pochi mesi, ma i veri problemi, per i genitori, iniziano più tardi, quando si allarga la sfera d’azione del bambino. Ciò accade solitamente attorno ai due anni d’età. In questa fase dello sviluppo il bambino non è ancora in grado di modulare la propria emotività, e la rabbia si può manifestare in modo scomposto con azioni distruttive verso oggetti e persone. Padroneggiare le manifestazioni più intense è un’arte difficile. Ci si chiede fino a che punto è giusto lasciar perdere, quando bisogna intervenire, e come si può intervenire. Soprattutto, al di là della difficoltà immediata posta da queste crisi, si desidera comprendere fino a che punto il comportamento del bambino rientra nella normalità, e quando invece è il caso di rivolgersi ad uno specialista. Nell’articolo dedicato alla rabbia nei bambini abbiamo riportato una serie di indicazioni che dovrebbero essere d’aiuto per i genitori desiderosi di approfondire il tema.

Per affrontare il tema della rabbia con i bambini puó essere utile raccontare una storia. Il film Inside Out della Pixar ci offre una buona opportunitá di farlo. Ne parliamo nell’articolo Inside Out e la psicologia della Rabbia.

La rabbia da luogo ad uno stato di attivazione fisiologica che ci rende pronti ad un possibile scontro immediato con il “nemico” responsabile dell’offesa. Se però per qualche motivo lo stato di rabbia diventa un’abitudine mentale, ne risulta una sorta di stato fisiologico di allarme permanente. La conseguenza di questa focalizzazione continua sul pericolo imminente è che vengono sottoposte ad un lavoro eccessivo alcune componenti dell’organismo, come ad esempio il sistema cardiovascolare. Al tempo stesso vengono sottratte risorse a parti dell’organismo che in uno stato di emergenza non risultano prioritarie, come ad esempio l’apparato digestivo. Non è un caso che la rabbia sia associata a problemi cardiovascolari e digestivi.

Il tema dell’allarme permanente riguarda anche la paura e l’ansia, ed è strettamente collegato al fenomeno dello stress. Per un approfondimento consigliamo il nostro articolo sullo stress e sulla depressione.

Il dibattito sulla relazione fra rabbia e depressione attraversa la storia della filosofia. Nel suo famoso articolo del 1917, Mourning and Melancholia, Freud descrisse una distinzione fra una sorta di fondo depressivo generalizzato, e una patologia depressiva specifica e più grave. La differenza era riconducibile ad un atteggiamento aggressivo rivolto verso il sé. Con l’avvento della psicologia cognitiva l’importanza assegnata alla relazione fra rabbia e depressione è calata notevolmente, salvo essere “riscoperta” in anni più recenti. Sono ormai disponibili degli studi, infatti, che mostrano una forte presenza dell’irritabilità e degli attacchi di rabbia fra i soggetti affetti da depressione, ed il tema merita senza dubbio un approfondimento. A questo link puoi trovare il nostro articolo su rabbia e depressione.


Uno scatto di rabbia manifesto, o anche soltanto accennato, è il segno che siamo stati toccati nel vivo, e diventa un’ottima occasione per guardarsi allo specchio. Riflettere su ciò che ci da fastidio sembra un buon modo per scoprire i nostri nodi interiori. L’intenzione è quella di crescere e di diventare persone migliori, capaci di difendere in modo intelligente il sorriso: il nostro sorriso, nonché quello della famiglia e degli amici. Noi crediamo sinceramente in questa trasformazione, ma pensiamo anche che debba avvenire prendendosi del tempo. Per questo è forse opportuno esercitare un pizzico di autoironia: per non pensare di avere trovato troppo presto la soluzione, per concedere alla stratificazione dei contenuti di giungere a maturazione.


I nostri articoli sulla rabbia si inseriscono in un progetto di ricerca più ampio sulle emozioni, ispirato dalle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp. Uno psicologo importante con una visione molto prossima a quella delle neuroscienze affettive è Carroll Izard. Sia nel discorso di Panksepp sia nel discorso di Izard le emozioni non sono soltanto dei momenti circoscritti di particolare intensità affettiva. Entrambi questi autori assegnano alle emozioni l’importante ruolo di sorgenti del nostro essere cosciente, sorgenti senza le quali la vita mentale non sarebbe possibile.


Copyright Manuel Cappello 2021


Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico o del terapista abilitato.


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1Confronta: “In both psychodynamic therapy and cognitive constructive therapy, the mobilization of emotions is considered essential for psychotherapeutic change. Anger is needed for individuation.” (il grassetto è nostro) Luutonen – 250

La rabbia nei bambini in età prescolare (capricci, crisi isteriche e crisi di pianto)

Assistere alle crisi di rabbia di un bambino può essere spiazzante. Durante questi episodi i bambini lanciano oggetti, urlano e sbattono i piedi. Nei momenti più intensi danno calci, fanno versi, colpiscono, tirano e spingono. Tali comportamenti non rappresentano il caso più insolito o bizzarro, e costituiscono piuttosto un elenco delle azioni più caratteristiche compiute dai bambini durante le crisi di rabbia. A volte, i bambini possono anche arrivare a sputare sulle altre persone o morderle.1

Per indicare questi episodi di crisi emotiva in inglese si usa la parola tantrum, diffusa sia in ambito scientifico che in ambito quotidiano. In italiano spesso si impiegano modi di dire come “fare i capricci” o “fare una scenata”, oppure si parla di “crisi di pianto” o di “crisi isteriche, benché l’aggettivo “isteriche” sia qui utilizzato in modo improprio. Noi abbiamo scelto di usare l’espressione “crisi di rabbia” per evidenziare meglio il legame con l’emozione fondamentale della rabbia.

Le crisi di rabbia riguardano la grande maggioranza dei bambini in età prescolare.2 Si tratta di un fenomeno normale, non dipeso per forza da una cattiva educazione. Nel seguito dell’articolo daremo una breve descrizione di questi momenti di crisi e proveremo a fornire alcune indicazioni per gestirli nel modo migliore. Cercheremo anche di comprendere quando è il caso di preoccuparsi perché sono stati oltrepassati i limiti del comportamento considerato normale.

L’emozione della rabbia è già presente nei bambini di pochi mesi,3 ma la capacità di controllarla si sviluppa lentamente. La rabbia di un neonato può manifestarsi nello sforzo di rimuovere una barriera o un ostacolo, e non crea particolari problemi ai genitori. Quando il bambino inizia a muoversi da solo, però, le difficoltà dovute alle manifestazioni di rabbia aumentano, ed è intorno a un anno e mezzo di età che il bambino può iniziare ad avere delle vere e proprie crisi di rabbia.4

La durata tipica delle crisi di rabbia nei bambini sembra essere inferiore ai 10 minuti (senza distinzione fra maschi e femmine5), anche se si può arrivare a più di mezz’ora.6 Il sentimento della rabbia di per sé tende a decadere piuttosto alla svelta7, ma spesso, nel corso di questi episodi critici, la rabbia si mescola ad un altro sentimento che tende ad allungare la durata della crisi.8 Si tratta di una forma di disagio e tristezza,9 ed è un sentimento forse simile a quello che il bambino prova quando piange disperato per la mancanza della madre. Questo sentimento, distinto da quello della rabbia, fa capo al sistema emotivo della pena della solitudine; il richiamo espresso sotto forma di pianto è una sua manifestazione caratteristica.10 11


PER COMPRENDERE MEGLIO LA PENA DELLA SOLITUDINE SI PUÒ LEGGERE IL NOSTRO ARTICOLO: LA DEPRESSIONE E IL PIANTO.


Comprendere quali siano le componenti emotive attive nel bambino è importante, perché le emozioni sono una forza modellatrice della coscienza, e determinano il modo in cui siamo coinvolti nel mondo. Oltre alla rabbia e alla tristezza (quest’ultima collegata alla pena della solitudine) nel bambino sotto i sei mesi di età è già presente l’emozione fondamentale della paura, la quale risulta ben distinta dalla rabbia e dalla tristezza, ed è strettamente connessa all’ansia.12 L’ansia però, al contrario delle interpretazioniproposte da alcuni ricercatori, non sembra avere un ruolo significativo nelle crisi di rabbia: “…noi non abbiamo trovato indicazioni nei resoconti dei genitori che i loro bambini esperissero ansia o sentimenti collegati durante le loro crisi di rabbia”.13


PER APPROFONDIRE IL TEMA DELLE EMOZIONI NEI BAMBINI, LEGGI ANCHE: EDWARD TRONICK, LE EMOZIONI NEI BAMBINI E IL MOMENTO DELL’INCONTRO


Vi sono alcuni segnali da cui si può intuire la durata di una crisi di rabbia. Quando al principio della crisi (per esempio nei primi 30 secondi) il bambino sbatte i piedi o si abbassa mettendosi a terra, solitamente la crisi ha una durata inferiore.14 Quando invece il bambino mostra evidenti segni di arrossamento del volto (per via dell’intensità della rabbia espressa) allora la scenata può durare più a lungo.15 Alcuni ricercatori hanno anche osservato che “se la crisi persisteva oltre i 3 o 4 minuti, la maggior parte dei comportamenti erano ripetizioni o continuazioni dei comportamenti già mostrati.”16

La frequenza elevata delle crisi di rabbia può costituire un fattore di rischio per cui è opportuno richiedere il parere di un medico o di uno psicologo con esperienza in materia. Secondo alcuni autori il limite critico viene superato quando si verificano dieci o venti episodi nell’arco di un mese in ambiente casalingo, oppure quando si verificano, fuori casa, cinque episodi al giorno in più giorni distinti. Un altro campanello di allarme si ha quando la durata delle crisi è solitamente superiore ai 25 minuti, o se nella maggior parte dei casi il bambino aggredisce chi si prende cura di lui. Oppure, ancora, se il bambino mostra spesso un comportamento violentemente distruttivo verso qualche oggetto. Un’altra situazione a cui bisogna prestare particolare attenzione è quando il bambino si rivela incapace di calmarsi da solo.17

Un ulteriore motivo per cui può essere consigliabile la consultazione di un esperto sono i comportamenti autodistruttivi, come ad esempio colpire se stessi, sbattere la testa, trattenere il respiro e mordersi.18 I comportamenti autodistruttivi potrebbero indicare un legame con la patologia depressiva: “I comportamenti autolesionistici nel corso delle crisi di rabbia sono stati raramente riscontrati nei bambini in età prescolare con l’eccezione dei soggetti con depressione maggiore.”19

Irrigidirsi è un altro tipo di comportamento osservato spesso nelle crisi di rabbia dei bambini. Sembra che solitamente non si presenti spontaneamente come espressione del sentimento di rabbia, ma piuttosto come reazione all’intervento dei genitori.20 Per quanto riguarda lo scappare e l’abbassarsi a terra, invece, tali comportamenti assomigliano più ad un modo di gestire la rabbia che non ad una sua espressione diretta.

Oltre a provare il sentimento della rabbia, i bambini sviluppano molto precocemente la capacità di riconoscere la rabbia nelle altre persone. A tre mesi distinguono già le manifestazioni di rabbia nella madre. A 5 mesi possono riconoscere la rabbia semplicemente ascoltando una voce arrabbiata.21 A 12 mesi si rendono conto quando gli adulti hanno fra di loro un comportamento arrabbiato e “possono fissare o bloccarsi, apparire preoccupati o corrucciare il volto, oppure mostrare uno stress negativo piagnucolando”22 A 16-18 mesi la loro reazione può essere di “coprirsi le orecchie, lasciare la stanza, intervenire verbalmente e/o fisicamente (…) o comportarsi aggressivamente.”23 I bambini di 4 anni dimostrano già una chiara consapevolezza del contesto e sono in grado di distinguere le reazioni che possono aspettarsi dalla madre, dal padre o dagli amici.24 Si accorgono se il conflitto è risolto a partire dai 4-5 anni, e in maniera più precisa oltre i 6 anni.25

Per quanto riguarda lo sviluppo della rabbia nel corso della crescita, è difficile stabilire un percorso univoco valido per tutti i bambini. Nei casi in cui si sviluppa una forma di attaccamento sicuro fra madre e bambino, generalmente si assiste ad una diminuzione della rabbia.26 In particolare diminuiscono le crisi di rabbia, ma non è detto che diminuiscano anche le manifestazioni di rabbia a bassa intensità, le quali possono permanere o anche aumentare.27

Sembra che le crisi di rabbia tendano a diminuire al crescere del linguaggio28, e questo può essere interpretato in due modi. Da un lato, il linguaggio offre gli strumenti per risolvere i conflitti evitando che generino il sentimento della rabbia. Dall’altro, quando il sentimento della rabbia si attiva, esso può trovare nella comunicazione verbale un canale di espressione alternativo29 (il che non significa per forza che l’emotività collegata sia meno intensa).


PER UNA VISIONE INTEGRATA DELLO SVILUPPO DEL BAMBINO, SI PUÓ LEGGERE IL NOSTRO ARTICOLO CHE RIASSUME LA VISIONE DELLO PSICOANALISTA INGLESE DONALD WINNICOTT.


GESTIRE LE CRISI DI RABBIA NEI BAMBINI

Nella prima parte dell’articolo abbiamo dato una descrizione generale del fenomeno della rabbia nei bambini e delle crisi ad essa collegate. Andiamo adesso a prendere in considerazione il modo in cui è possibile prevenire e gestire queste crisi.

La rabbia nasce nel bambino quando le sue aspettative sul mondo risultano disattese. Ne segue che risulta utile costruire un sistema di routine giornaliere, di rituali, di sequenze abituali che il bambino impara ad aspettarsi. Se infatti il bambino si forma delle aspettative corrispondenti a ciò che davvero sta per accadere, poi non avrà motivo di arrabbiarsi. Per noi queste abitudini possono essere noiose, ma per il bambino costituiscono un modo per incanalare l’esperienza di ciò che ancora gli appare come nuovo e sconosciuto. Nel parlare di routine e abitudini bisogna tener presente che il bambino non ha la nostra capacità astrattiva, e ragiona in termini più concreti rispetto a noi. Per noi è normale pensare che mettersi le scarpe per uscire di casa piuttosto che per andare sulla terrazza sia la stessa cosa. Per il bambino invece questo non è scontato, perché è più sensibile di noi ai cambiamenti di situazione.

Considerando che la rabbia emerge quando sono disattese le aspettative del bambino, è molto importante comprendere come si possono gestire le transizioni da una situazione all’altra. Di nuovo, dobbiamo ricordarci che per noi è immediato spostare la concentrazione dal parco giochi all’ambiente di casa, là dove per il bambino questo passaggio non è cosí semplice. Può essere utile annunciare più volte il cambiamento di situazione, con il dovuto anticipo. Per esempio: “Tra un quarto d’ora andiamo a casa” seguito da “Tra dieci minuti andiamo a casa” e poi da “Tra cinque minuti andiamo a casa”.

Per molti bambini il “no” può avere un effetto notevole e diventare l’innesco del conflitto. Il no va usato solo se necessario, perché può essere percepito come una sfida. Dove possibile, è meglio evitare la negazione diretta, accettando con parole accoglienti l’idea del bambino, ma poi indirizzando l’attenzione sull’alternativa preferita dai genitori. “Ah si, i biscotti sono buonissimi, possiamo mangiarli dopo la passeggiata.” “Si anche io vorrei andare al parco, dove c’è l’altalena rossa e gialla. Andiamo a dirlo anche alla nonna.” Ognuno può impiegare la propria fantasia per sviluppare approcci verbali simili.

Quando i bambini devono fare qualcosa gliela possiamo offrire in due alternative fra cui scegliere. Per esempio: “Vuoi dare a tuo fratello il trattore oppure il camion?” “Vuoi mettere le scarpe rosse oppure quelle blu?” “Vuoi indossare prima la sciarpa o la cuffia?” “Vuoi che torniamo a casa adesso oppure fra cinque minuti?” “Ci sono due tipi di shampoo, puoi decidere tu quale preferisci.” Chiedere anziché comandare può aumentare molto il livello di cooperazione, ma bisogna essere sicuri di poterlo fare. Non ha senso chiedere al bambino se vuole mettersi il cappotto o meno, quando sappiamo che è necessario metterlo, ma possiamo sempre chiedergli se vuole indossarlo in corridoio oppure nell’atrio al piano terra.

Quando notiamo che il bambino sta sviluppando un sentimento di rabbia e desideriamo comunicare con lui, si può iniziare riconoscendo lo stato di arrabbiatura del bambino: “vedo che sei arrabbiato, c’è qualcosa che non va?”. Nel fare questo è importante essere consapevoli del proprio linguaggio verbale, evitando ad esempio di stare con le braccia incrociate. Quando il bambino non sa ancora parlare, può essere utile rispecchiare il suo stato d’animo, provando a tradurre in parole le sue emozioni, visto che lui ancora non lo sa fare.

In generale è bene ricordarsi che il bambino è mosso prima di tutto da una forma di amore verso i genitori, non da sentimenti di rabbia. Questi hanno solitamente delle origini ben specifiche che si possono sempre investigare con curiosità, mettendoci nei panni del bambino e interrogandoci sui motivi che lo hanno infastidito. Può sembrare scontato, ma la temperatura dell’acqua o portare l’acqua o il sapone sul volto possono essere il fattore specifico che, se evitato, consentirà di fargli fare il bagno senza proteste.

Come si può notare, ci sono tanti modi di comportarsi che si possono adottare per evitare le crisi di rabbia, e le medesime soluzioni sono d’aiuto anche per migliorare il rapporto col bambino al di là delle manifestazioni di rabbia. Ciononostante, alcuni momenti critici possono essere inevitabili, e sembra esserci un punto di non ritorno oltre il quale lo scoppio di rabbia deve per forza aver luogo. Sembra esserci “…un evidente punto di svolta prima del quale un abile intervento può prevenire una crisi di rabbia e dopo il quale qualsiasi intervento, non importa quanto abile, lo inasprisce soltanto.30


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Come dobbiamo comportarci, dunque, quando il bambino giunge a manifestare intensamente la propria rabbia? Reagire arrabbiandoci a nostra volta, naturalmente, è esattamente quello che non si deve fare: “…una risposta arrabbiata della madre ai comportamenti difficili dei bambini è associata con la persistenza dei bambini nella rabbia e nei comportamenti non accondiscendenti, e con una minore probabilità di risposte empatiche verso le altre persone.”31 Tra l’altro, al di là degli effetti sul bambino, gridare da arrabbiati è un comportamento poco furbo, perché è dispendioso e richiede tanta energia. E quando il bambino ci si abitua non ha più effetto.

Il copione della rabbia è completo soltanto quando c’è qualcuno che osserva la manifestazione della rabbia. Per questo la miglior cosa da fare durante una crisi di rabbia (anche se non è facile) è togliere attenzione al bambino, almeno fino a quando non vi sono comportamenti palesemente distruttivi o violenti. Non bisogna diventare il pubblico della scenata. Cosí che la scenata non abbia motivo di continuare (e cosí che passi la voglia di ripeterla in una situazione successiva).32

Un tema strettamente collegato alla rabbia nei bambini è quello della punizione. La vitalità del bambino lo porta naturalmente a infrangere le regole che i genitori gli impongono. Vi sono però alcuni limiti che non possono essere superati. Non si può accettare, ad esempio, che il bambino picchi un’altra persona. Vorremmo tutti che lo sviluppo del bambino avvenisse in modo indolore, ma sembra impossibile evitare tutte le situazioni in cui è necessario punire il bambino.33

Negli Stati Uniti sono stati sviluppati dei programmi di educazione dei genitori considerati molto efficaci nel gestire i bambini difficili. Un metodo molto diffuso nell’ambito di questi programmi è chiamato time-out.Si tratta di una pratica molto simile ad isolare il bambino mettendolo in castigo per alcuni minuti in un luogo noioso. Il bambino, per sua natura, ama essere nella stessa situazione dei genitori, ama essere parte della famiglia. Interrompendo questa appartenenza si provoca un dolore psicologico. Alcuni genitori possono anche ritenere che l’isolamento in un luogo separato sia una misura eccessiva. Può darsi che basti anche l’interruzione del discorso, lo stare in silenzio. Si tratta di comprendere quale grado di distanza imporre al bambino perché avverta la pena dello stare soli. Non vi dovrebbe essere soddisfazione nel punire in questo modo. Questa imposizione di separazione non andrebbe accompagnata con forme di rabbia o irritazione verso il bambino, e si dovrebbe associare chiaramente la punizione alle conseguenze negative del comportamento punito (“Non hai messo la giacca, di conseguenza prenderai freddo.”)34

Il tema della punizione dei bambini è molto delicato, e ci possono essere genitori che rifiutano del tutto la possibilità di punire i bambini. Pensiamo che sia utile riportare una breve descrizione di come veniva visto questo tema in ambito Montessori: “Nel sistema di educazione Montessori, le ricompense e le punizioni sono state abolite. Lei credeva che le ricompense fossero in qualche modo un insulto alla dignità umana. L’unica misura di punizione riconosciuta era il metodo di isolare il colpevole dal collettivo dei bambini, ma in modo tale che potesse vedere cosa stavano facendo i suoi compagni di classe. Il bambino, naturalmente, soffre di questo suo isolamento.”35

Come già abbiamo avuto modo di notare in precedenza, la fase finale della crisi di rabbia può essere caratterizzata da un momento in cui il bambino è debole, triste e bisognoso del nostro aiuto. Questa è la situazione in cui bisognerebbe dimenticarsi di tutto quello che è appena accaduto ed accogliere il bambino lasciando cadere ogni eventuale malumore. Evitando anche di dare etichette negative al bambino, quali ad esempio “sei una lagna”, “sei impossibile”, “sei capriccioso”.

Il miglior lavoro che si può fare per evitare i momenti di rabbia è in fin dei conti quello di promuovere i comportamenti positivi, concedendo delle piccole ricompense esattamente nel momento in cui avviene il comportamento che apprezziamo. “I programmi di educazione parentale insegnano l’uso del rinforzo positivo (ricompensa o lode) per accrescere il comportamento pro-sociale. Il rinforzo positivo è ottimamente efficace quando è amministrato (…) frequentemente, e immediatamente per piccoli miglioramenti del comportamento. (…) Ai genitori viene insegnato ad usare frasi di lode in cui viene nominato il comportamento del bambino, come per esempio “Grazie per ascoltare.”…”36

Una delle più importanti fonti di gioia nella vita del bambino è il gioco, che è un’altra delle sette emozioni fondamentali secondo le neuroscienze affettive. Non è un caso che molti programmi di educazione dei genitori includano alcune indicazioni su come gestire il gioco dei bambini. Per esempio, ai genitori vengono insegnate “competenze tradizionali della terapia del gioco come seguire il ruolo guida del bambino, imitare il gioco del bambino, fornire un’attenzione indivisa, descrivere le attività di gioco, ed ampliare le verbalizzazioni del bambino”37 lodando, rispecchiando, imitando, descrivendo e usando entusiasmo. È anche importante evitare “comandi e criticismi durante il gioco.”38


PER APPROFONDIRE IL TEMA DEL GIOCO, LEGGI ANCHE: LA PSICOLOGIA DEL GIOCO.


Gli ultimi decenni hanno visto un esplosione dello studio sulle emozioni, che sono viste sempre più come l’origine del nostro essere coscienti e non soltanto come episodi circoscritti del sentire: le emozioni determinano il modo in cui ci sentiamo coinvolti nel mondo. La rabbia è una delle sette emozioni fondamentali dell’uomo secondo le neuroscienze affettive. (Le altre sei sono paura, interesse, eccitazione sessuale, gioco, cura e tristezza.)

La rabbia interviene dove le nostre intenzioni si scontrano con quelle di qualcun altro. Comprendere come funziona la rabbia significa comprendere come è possibile stare con le altre persone in modo costruttivo. Si tratta forse della lezione più importante da insegnare a un bambino.


PER APPROFONDIRE IL TEMA DELLA RABBIA, LEGGI ANCHE: LA PSICOLOGIA DELLA RABBIA


Copyright Manuel Cappello 2021


Precisiamo per correttezza che chi scrive non ha figli. Questo articolo fa parte della nostra ricerca sulle emozioni ed è basato anzitutto sul contenuto della letteratura contemporanea.


Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico o del terapista abilitato.


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1I termini elencati sono presi dalla tabella proposta da Potegal e Davidson 2003 a pagina 144.

2È stato riscontrato che la diffusione delle crisi di rabbia cresce dall’87% del periodo 18-24 mesi al 91% del periodo 30-36 mesi e poi decresce al 59% del periodo 42-48 mesi, in parallelo coi risultati dello studio longitudinale di MacFarlane et al. …” Potegal e Davidson 2003, p. 142.

Österman e Björkqvist 2010, che lavorano su un campione finlandese anziché americano, forniscono dati a riguardo del primo manifestarsi delle crisi di rabbia che implicano una diffusione inferiore rispetto a quella riportata da Potegal: “La diffusione delle crisi di rabbia trovata da Potegal e Davidson (2003) era molto più alta di quella del presente studio. Questi fatti suggeriscono variazione culturale.” (riferimento di pagina mancante).

In questo articolo vengono forniti esplicitamente dei dati in formato diverso rispetto all’articolo di Potegal e Davidson. Rimane vero anche per Österman e Björkqvist che, considerando l’intero arco dell’età prescolare, le crisi di rabbia riguardano la grande maggioranza dei bambini.

3L’espressione di rabbia è stata osservata in infanti di appena 2 mesi nell’ambito di un paradigma contingency-learning… Lemerise e Dodge 2008, p. 731.

4Per esempio, Campos et al. (1992) riportavano che l’inizio della locomozione è associato con l’osservazione, da parte dei genitori, di rabbia, sia nei bambini sia nei genitori, ed anche con la percezione che i bambini siano più autonomi e responsabili. Lemerise e Dodge 2008, p. 732.

In ogni caso, la percezione dei bambini come autonomi e responsabili, coincidente con l’emergere della locomozione, è associato con l’osservazione, da parte dei genitori, di rabbia nei bambini.” Lemerise e Dodge 2008, p. 733.

5L’analisi della varianza (ANOVA) ha mostrato che la durata delle crisi di rabbia (tantrum) sottoposta a trasformazione logaritmica non differiva in funzione del genere…” Potegal et al. 2003, p. 150.

6“…il 75% delle crisi di rabbia durava tra 1.5 e 5 minutiPotegal et al. 2003, p. 152.

Österman e Björkqvist 2010 invece, indicano tempi più lunghi: “Nell’8% dei casi, le crisi di rabbia sono durate meno di 5 minuti. E nel 46,5% dei casi tra 5 e 10 minuti.”

Come già ricordato in una nota precedente, la ricerca di Potegal riguarda un campione di bambini degli Stati Uniti, mentre quella di Österman riguarda bambini finlandesi.

7Dunque, la rabbia tende a decrescere relativamente velocemente e poi a risolversi, là dove lo stress negativo (Distress) tende ad accrescersi durante la crisi di rabbia.” Potegal et al. 2003, p. 151.

8Questo ritrovamento, e l’alta correlazione riscontrata fra Distress e durata complessiva della crisi di rabbia, indica che le crisi più lunghe potrebbero essere state estese primariamente dal prolungamento del Distress” Potegal et al. 2003, p. 153.

9Camras ha identificato la tristezza come un’emozione che appare nella fase avanzata delle crisi di rabbia. Per via del fatto che i nostri Componenti Principali includevano anche un elemento di ricerca d’aiuto attiva che si estende oltre la semplice manifestazione di tristezza, abbiamo nominato questa combinazione di comportamenti Distress. Questa etichettatura è consistente con altri studi che mostrano come la ricerca di aiuto sia associata con il malessere (discomfort). Che sia la rabbia sia la tristezza siano entrambi abitualmente presenti nelle crisi di rabbia (tantrum) è consistente con la loro frequente riportata co-occorrenza nell’infanzia. Cole et al. hanno trovato, in modo simile, due componenti nella risposta emozionale dei bambini di due anni ai piccoli incidenti (mishap). Una componente si fondava su preoccupazione, tensione e rabbia, mentre l’altra si basava su tristezza e riparazione (reparation).” Potegal e Davidson 2003, p. 146.

10Negli articoli che abbiamo consultato si impiega il termine distress. Noi parliamo di pena della solitudine per via del nostro quadro concettuale di riferimento che fa capo alle neuroscienze affettive di Panksepp. Per comprendere meglio il legame fra pena della solitudine e lo stress si può leggere il nostro articolo: Stress e Depressione.

11Il passaggio dalla manifestazione di rabbia al pianto mosso dalla pena della solitudine andrebbe argomentato qualitativamente. Una possibilità è che il bambino si renda conto dell’inefficacia della propria rabbia e si senta impotente e perso. Un’altra possibilità, è che il bambino, a seguito della scenata, finisca per scoprirsi lontano dalla sua famiglia, non per impotenza, bensì perché l’ha allontanata/rifiutata con la rabbia. Un’ulteriore possibilità è che il pianto sia in parte impiegato strumentalmente dal bambino per ottenere quello che vuole.

Al riguardo, si consideri questo passo: “I commenti di alcuni genitori nella nostra indagine ricordavano i suggerimenti di Camras e di Stein e Levine in base ai quali i bambini diventano inizialmente arrabbiati quando realizzano che i genitori ostruiranno i loro desideri, ma sperano ancora di prevalere. La tristezza predomina in un momento successivo, quando i bambini si rendono conto che la loro rabbia è inefficace, e che non l’avranno vinta.” Potegal et al. 2003, p. 153.

12Lemerise e Dodge 2008, p. 731-732.

13Potegal et al. 2003, p. 153.

Nota che in base alle indicazioni delle neuroscienze affettive gli attacchi di panico sono da ricondurre alla pena della solitudine e non all’ansia. Per approfondire si può leggere il nostro articolo: Depressione ed attacchi di panico: una radice in comune?

14Come mostrato in Figura 2, l’occorrenza sia dell’abbassamento (down) sia del pestare i piedi (stamp) nei primi 30 secondi prediceva una crisi di rabbia più breve…” Potegal et al. 2003, p. 150.

15L’attivazione autonomica visibile ai genitori (per esempio l’arrossamento del viso) era associata con una durata prolungata, un effetto riportato in dettaglio altrove. (…) L’intensità che veniva attribuita alle crisi era correlata con la loro durata…” Potegal et al. 2003, p. 150.

16Potegal et al. 2003, p. 153.

17Belden et al. 2008, p. 121.

18Vedi la tabella di Belden et al. 2008 a pagina 120, in base alla quale si può affermare che i comportamenti manifestati nel corso degli episodi di rabbia sono raggruppabili a formare 4 fattori distinti: aggressivo distruttivo (calciare verso gli altri, colpire gli altri, lanciare e distruggere oggetti); auto-distruttivo (colpire se stessi, sbattere la testa, trattenere il respiro, mordersi), aggressivo non distruttivo (calci a vuoto, battere i piedi, colpire il muro) e aggressività orale (mordere gli altri e sputare sugli altri).

19Belden et al. 2008, p. 121.

20Che l’irrigidimento fosse il comportamento più sensibile all’intervento era interamente nelle previsioni basate sulle narrative dei genitori, nelle quali era chiaro che l’irrigidimento è in generale una risposta all’essere trattenuto, bloccato, sollevato o trasportato e raramente accadeva al di fuori di tali condizioni.” Potegal et al. 2003, p. 152.

Potrebbe essere che, con la chiara eccezione dell’elicitazione dell’irrigidimento da parte dell’intervento dei genitori (con un meccanismo molto simile al riflesso), una volta che la crisi di rabbia è cominciata, molte azioni dei genitori sono una risposta ai comportamenti esibiti durante la crisi, piuttosto che un fattore modellante.” Potegal et al. 2003, p. 152.

21Gli infanti di appena 3 mesi rispondono in modo differenziato alle manifestazioni naturali (multimodali) di emozioni da parte della madre, inclusa la rabbia (…), e gli infanti di 5 mesi rispondono in modo differenziato a vocalizzazioni dirette all’infante e intonate in modo positivo oppure negativo, sia nel loro proprio linguaggio sia in un linguaggio non familiare…” Lemerise e Dodge 2008, p. 732

22Lemerise e Dodge 2008, p. 732.

23Lemerise 2008, p. 732-733.

24I bambini riportavano che si sarebbero sentiti arrabbiati più spesso e che avrebbero regolato di più le emozioni con le madri e gli amici che non con i padri. I bambini si aspettavano che le madri ed i padri fossero più ricettivi degli amici alle manifestazioni delle emozioni; essi erano più propensi a riferire che avrebbero espresso emozioni negative quando si aspettavano di ricevere supporto o assistenza. Dunque i bambini di 4 anni dimostravano una consapevolezza delle norme espressive e una sensibilità al ruolo del contesto nel loro utilizzo.” Lemerise e Dodge 2008, p. 735.

25I bambini con più di 6 anni mostrano una sensibilità crescente a rendersi conto se i conflitti sono risolti, e sono meno agitati dai conflitti risolti, ma anche i bambini di 4-5 anni sono in qualche modo sensibili a tale informazione…” Lemerise e Dodge 2008, p. 734.

26“Kochanska (2001) ha anche trovato che mentre i bambini con attaccamento sicuro diventavano meno arrabbiati dai 14 ai 33 mesi, nei bambini con attaccamento insicuro si accresceva l’espressività emozionale negativa; l’attaccamento disorganizzato era associato con netti aumenti di rabbia e diminuzioni di paura…” Lemerise e Dodge 2008, p. 733.

27La durata della rabbia ad alta intensità diminuiva nei bambini dai 18 ai 60 mesi; la durata della rabbia di basso livello aumentava (questo è stato l’effetto primario dell’età riscontrato in questi dati).” Potegal et al. 2003, p. 153.

28“Il declino delle crisi di rabbia era più rapido per i bambini con un età da 3 a 4 anni, che coincide con un loro vocabolario accresciuto. (…) Queste abilità consentono verosimilmente una migliore espressione e processazione dei sentimenti di rabbia e frustrazione. Se è cosí, ciò potrebbe spiegare la marcata diminuzione delle crisi di rabbia.” Österman e Björkqvist 2010. (riferimento di pagina mancante)

29L’aggressione verbale diventa più frequente con il generale miglioramento delle abilità verbali. Quando le capacità sociali si sono sviluppate, il bambino impiega anche forme indirette di aggressione (manipolazione sociale)” Österman e Björkqvist 2010. (riferimento di pagina mancante)

30Potegal et al. 2003, p. 148.

31Ed anche: Le madri che rispondevano alla rabbia dei bambini con una neutralità calma oppure con manifestazioni di buon umore avevano bambini che mostravano interesse per l’ambiente, emozioni positive e risposte positive agli estranei in assenza della madre.” Entrambe le citazioni vengono da Lemerise e Dodge 2008, p. 732.

32Confronta: I programmi di educazione dei genitori (PMT) insegnano anche ‘l’ignoramento pianificato’, che avviene scegliendo i comportamenti indesiderabili lievi (quelli non pericolosi o distruttivi) da ignorare, e i comportamenti positivi opposti che verranno seguiti con attenzione e lodati…” Pearl 2009, p. 297.

33 La ricerca dimostra che (…) i genitori devono imparare metodi efficaci di imporre limiti (le punizioni) per riuscire ad ottenere miglioramenti clinicamente significativi nell’area del comportamento oppositivo ed aggressivo (…) Tre generazioni di ricercatori sull’educazione parentale hanno confermato l’ipotesi che insegnare ai genitori soltanto le tecniche di rinforzo positivo non è sufficiente a normalizzare il comportamento aggressivo dei bambini…Pearl 2009, p. 297.

34Il Time-out è una strategia disciplinare efficace e comunemente impiegata nella maggior parte dei programmi di educazione dei genitori (…) Con i bambini in età prescolare, il time-out generalmente è situato in un posto noioso nel quale il bambino siede su una sedia larga e robusta (…). I genitori sono istruiti a ignorare le proteste del bambino, ma la durata raccomandata del time-out varia a seconda del programma. La maggior parte dei programmi suggerisce che un time-out efficace per un bambino piccolo non dovrebbe durare più di 2-5 minuti (…) e alcuni programmi raccomandano 1-2 minuti per ogni anno di età del bambino…” Pearl 2009, p. 297.

35Plekhanov 1992, p. 90-91.

36Pearl 2009, p. 297.

37Pearl 2009, p. 298.

Nel medesimo passo si indica che l’espansione della verbalizzazione del bambino può essere compiuta in modo specifico con questo tipo di azioni: lodando, riflettendo, imitando, descrivendo, usando entusiasmo (PRIDE skills).

38Pearl 2009, p. 299.

La relazione fra rabbia e depressione

La depressione può svilupparsi indipendentemente dal sentimento della rabbia, e solitamente nasce da situazioni di perdita ed abbandono. È possibile però che le manifestazioni di rabbia si innestino in modo perverso sulla depressione, dando luogo ai casi più severi e tenaci. Questo può succedere, ad esempio, quando la rabbia si presenta come rabbia verso sé stessi.

Uno studio molto interessante del 2008, pubblicato da Belden e colleghi, rintraccia un collegamento fra la depressione e la rabbia verso se stessi già nei bambini in età prescolare: “I comportamenti autolesionistici nel corso delle crisi di rabbia sono stati raramente riscontrati nei bambini in età prescolare con l’eccezione dei soggetti con depressione maggiore.”1 (I comportamenti autolesionistici possono ad esempio includere: sbattere la testa, trattenere il respiro, colpirsi, mordersi).

La rabbia diretta verso se stessi potrebbe essere all’origine di un fenomeno riscontrato di frequente nella sindrome depressiva: la svalutazione del sé. Tale punto di vista era già presente nel famoso scritto di Freud del 1917, Lutto e Melanconia. Lutto e melanconia erano i termini impiegati da Freud per descrivere degli stati mentali che al giorno d’oggi chiameremmo depressivi. Nella visione di Freud, la melanconia rappresentava una forma più grave del lutto ed era contraddistinta da una forma di aggressività verso il sé che si aggiungeva al mancato interesse verso il mondo (la mancanza di interesse verso il mondo è a tutt’oggi considerata un tratto caratteristico della depressione), provocando cosí un calo dell’autostima. 2 3 4 5 6 7


Per approfondire il tema dell’interesse come emozione fondamentale, leggi anche: Carroll Izard e le emozioni


RABBIA E DEPRESSIONE - 1

RABBIA E DEPRESSIONE – 1

La distinzione fra le due differenti forme depressive di cui parlava Freud è successivamente passata in secondo piano. In particolare “…il ruolo primario dell’aggressività è stato più tardi messo in dubbio (…) specialmente dai proponenti della teoria cognitiva.”8 A tutt’oggi, nel DSM 5 (il più importante manuale di riferimento per i disturbi mentali), nella sezione dedicata alla depressione maggiore negli adulti, il termine irritabilità è impiegato soltanto a livello descrittivo, e non figura fra i criteri diagnostici veri e propri.9 La maggior parte degli operatori ritiene comunque che nel trattamento della depressione sia rilevante affrontare anche il tema della rabbia, ed esistono degli studi che mostrano statisticamente l’associazione fra rabbia e depressione.10

“La ricerca più recente suggerisce che oltre il 50% dei pazienti con depressione maggiore (MDD) fa esperienza di irritabilità e rabbia manifeste…”. Ed inoltre: “La frequenza degli attacchi di rabbia nella MDD (depressione maggiore) varia dal 33% (…) al 44%…”. Questa notevole diffusione delle manifestazioni di rabbia nell’ambito della patologia depressiva si associa ad “…una maggiore severità della depressione, livelli di ansia più elevati, e una maggiore probabilità di avere un disturbo della personalità…” 11 12 13 14

La distinzione fra irritabilità, sentimento della rabbia e crisi di rabbia disegna una sorta di scala di intensità emotiva delle manifestazioni della rabbia. Accanto a tale scala di intensità emotiva troviamo anche il tentativo, da parte della ricerca, di individuare la parte cognitiva collegata a questi stati emotivi. Si può allora parlare, con alcune leggere differenze, di ostilità, o di interpretazione ostile.15 16 In generale, è possibile affermare che l’interpretazione ostile sia facilitata dagli stati depressivi, cosí che situazioni ambigue e non apertamente avverse vengano giudicate in modo inadeguato con l’attribuzione di intenzioni ostili.17

Vi sono alcune modalità di interazione con la rabbia che si trovano di frequente fra i pazienti depressi.18 Una di queste è la negazione, con la quale ci si rifiuta di prendere atto del proprio sentimento ostile e quindi non si vanno ad indagare ne tanto meno a risolvere le radici che hanno originato il sentimento di ostilità.19 La negazione della rabbia può essere a volte “controbilanciata da uno sforzo accresciuto di aiutare gli altri. Le questioni intrapsichiche e interpersonali che hanno dato origine alla rabbia, comunque, rimangono irrisolte, continuando ad alimentare i sentimenti e le fantasie di ostilità.”20 Nel caso della proiezione invece, succede che “la rabbia verso gli altri viene negata e vista come se fosse espressa dagli altri verso sé stessi.”21 L’aggressività passiva è un altro modo non costruttivo di esprimere la rabbia. Si parla di aggressività passiva quando si adottano dei comportamenti di ostilità mascherata evitando il confronto chiaro e diretto. Esempi ne sono il far finta di non capire, evitare ripetutamente un incontro con delle scuse, fingere che il rispetto sia stato mantenuto, dimenticarsi di fare qualcosa o farlo al di sotto delle proprie capacità. I comportamenti di aggressività passiva, oltre a non risolvere il problema di partenza, rischiano di suscitare il fastidio delle persone che ci stanno intorno.22

È comunemente accettato che la depressione si origini da un’esperienza di perdita di un “oggetto” (molto spesso una persona, come ad esempio un partner, un parente o un amico, ma anche un lavoro, una situazione o un ideale23) al quale si era molto legati. La perdita di tale oggetto carico di affettività implica una fase di rielaborazione dei propri “investimenti emotivi” nel mondo. La fase di rielaborazione può farsi più difficoltosa se il nostro rapporto con l’oggetto che abbiamo perso era complicato da istinti di natura aggressiva. Secondo lo psicoanalista americano Leo Stone, “È molto più difficile rinunciare ad un oggetto amato ed indispensabile che desideriamo punire od uccidere, senza poterlo fare, piuttosto che ad un oggetto che è stato genuinamente e largamente amato.”24

Sempre secondo Leo Stone, “Quello che è certamente vero da un punto di vista clinico, nel mio personale campo di osservazione è che i pazienti depressi mostrano sia un ideale dell’ego (il super-ego) con delle richieste molto esigenti, sia una rimarcabile incapacità di rinunciare o a cambiare radicalmente gli obiettivi stabiliti su tale base”25. Questa forma di narcisismo è la base per un’insoddisfazione per sé stessi e quindi per un giudizio e una critica molto aggressivi nei confronti di alcuni aspetti di sé: “Non vorrei dare l’impressione che tutti gli individui che diventano depressi siano ‘personalità narcisistiche’ (…). Credo comunque che alcuni tratti narcisistici giochino usualmente un ruolo decisivo nella genesi delle forme più severe e tenaci di depressione.” 26

Stone considera valida la distinzione introdotta da Freud e accetta l’idea che vi sia una sorta di fondo depressivo (mancanza di interesse verso il mondo) innescato da una forma di abbandono o di perdita. È su tale fondo che poi si possono innestare delle dinamiche peggiorative, in cui la rabbia ha un ruolo rilevante. Secondo alcuni psicoanalisti, incluso il medesimo Stone, l’indirizzamento dell’aggressività verso il sé può essere mediato dall’identificazione con una persona desiderata verso la quale nutriamo anche dei sentimenti di forte critica. “Ciò che ho osservato quasi invariabilmente è una lampante identificazione con l’oggetto, ambivalentemente perpetuato, deludente o svalutato, per lo più in una modalità auto-punitiva. Raramente queste identificazioni portano con sé gli aspetti positivi…” 27

Nell’ambito della teoria psicoanalitica (che, ricordiamolo per chiarezza, fa capo a Freud e si distingue dall’indirizzo cognitivo per una maggiore enfasi sull’inconscio, sul passato, sugli eventi accaduti nell’infanzia e su un lungo processo di interpretazione) i sensi di colpa nella patologia depressiva sono spesso associati a delle forme di aggressività verso sé stessi.28 Le neuroscienze affettive contemporanee danno alla pena della solitudine il ruolo di emozione fondamentale dell’uomo, e nel fare ciò offrono la possibilità di una differente interpretazione dei sensi di colpa, che forse possiamo pensare come parallela a quella suggerita dalla tradizione psicoanalitica.

I sensi di colpa provengono da comportamenti socialmente inadeguati, fra cui per esempio una manifestazione eccessiva di rabbia. I sensi di colpa possono provocare sia dei fenomeni di evitamento (per timore del giudizio degli altri) sia la sensazione di distanza dal gruppo di appartenenza, come se fossimo soggetti ad una sorta di rifiuto. Da questo può seguire anche un contributo emotivo negativo sotto forma di sentimento di abbandono e solitudine. Si tratta naturalmente di dinamiche complesse che variano da caso a caso, ma appaiono molto importanti se ci ricordiamo che la depressione tende ad originarsi proprio da situazioni di abbandono, di solitudine, di perdita della persona o dell’oggetto amato. 29


Per approfondire il legame fra la depressione e l’abbandono, leggi anche: La depressione e il pianto


Vi è anche un altro modo, più generale, con cui la rabbia provoca un peggioramento del tono affettivo. Nel corso di un’arrabbiatura si può provare una forma di soddisfazione o di liberazione, in particolare nel momento in cui si da sfogo al proprio sentimento. Nel suo complesso però, l’esperienza della rabbia è spiacevole, e le persone sempre arrabbiate non sono felici. Le manifestazioni della rabbia spostano l’equilibrio delle nostre atmosfere emotive verso il lato negativo. In particolare, la rabbia focalizza la nostra attenzione sul torto subito e sull’azione da compiere contro il supposto “nemico”. La rabbia stabilisce una sorta di stato di emergenza concentrando le risorse sul problema immediato da risolvere, e questo accade a scapito della sensibilità per tutto il resto della situazione in cui ci troviamo. In tal senso, è come se la rabbia ci impedisse di goderci i paesaggi che attraversiamo nel corso delle nostre giornate. Ciò è particolarmente significativo se pensiamo che la natura più intima della depressione sta nell’incapacità di provare piacere per le cose che ci accadono e per le attività che compiamo.


Un approfondimento sullo “stato di emergenza” indotto dalla rabbia si trova in questo articolo: Lo Stress e la Depressione


Nei pazienti depressi manca spesso un’adeguata competenza a gestire gli stati emotivi della rabbia: “Una bassa autostima, colpa e paura della punizione spesso li conducono a cedere agli altri in modi che esasperano ulteriormente la loro bassa auto-stima. Questo tipo di persone manca di pratica nell’esprimere la propria rabbia e quando lo fanno, possono esprimerla in modo passivo o in una maniera apertamente aggressiva. (…) i pazienti temono che l’espressione della loro rabbia possa danneggiare le relazioni importanti.” 30

A partire da tali presupposti si rivela opportuno un lavoro per accrescere la consapevolezza del proprio stato emotivo, osservandone le manifestazioni fisiologiche, riconoscendone i motivi scatenanti, ricollegando la propria esperienza a quella visibile nelle altre persone, nonché sviluppando un vocabolario appropriato per descrivere le dinamiche e i risvolti del sentimento della rabbia. Si rende importante anche il miglioramento della capacità di comunicare in modo adeguato le proprie esigenze; cosí che si possano approcciare i conflitti in anticipo, quando ancora sono gestibili.31 32 33

Sul nostro sito abbiamo già pubblicato alcuni articoli che consentono di approfondire temi quale la rabbia repressa, la rabbia verso il partner, la gestione degli scatti d’ira e lo sfogo della rabbia. (a questo link pubblicheremo a breve una guida riassuntiva di tali articoli: la psicologia della rabbia). Qui ci limitiamo ad aggiungere un’osservazione che si ricollega al nesso fra rabbia e narcisismo.

In generale, la rabbia nasce da un mancato rispetto dei nostri desideri e delle nostre aspettative su come dovrebbero andare le cose nel mondo. Nel caso del narcisismo le aspettative sul proprio ruolo sono molto elevate e vengono facilmente sconfessate quando ci si incontra con la realtà. Una stima esagerata di sé stessi è il presupposto per essere feriti facilmente e per arrabbiarsi contro gli altri oppure contro noi stessi (per non essere stati all’altezza dell’ideale di riferimento). In un caso del genere, potrebbe essere d’aiuto esercitare un piccolo atto di coraggio riconoscendo ciò che veramente siamo e accettando i nostri limiti. Con l’avvertenza che accettare i nostri limiti non è veramente un atto di rinuncia, quanto piuttosto la condizione di possibilità perché un percorso di trasformazione personale possa davvero avvenire. In un certo senso, è come se dovessimo anzitutto andare a prendere noi stessi nel luogo dove ci troviamo. Soltanto in un secondo momento, dopo aver scoperto dove siamo, potremo (finalmente) incamminarci verso un altrove.


LEGGI ANCHE: Come combattere la depressione: 30 pagine di informazione


RABBIA E DEPRESSIONE 2

RABBIA E DEPRESSIONE 2

Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico e del professionista abilitato.

BIBLIOGRAFIA

Belden, Andy C., Nicole Renick Thomson, and Joan L. Luby. “Temper tantrums in healthy versus depressed and disruptive preschoolers: Defining tantrum behaviors associated with clinical problems.” The Journal of pediatrics 152.1 (2008): 117-122.

Busch, Fredric N. “Anger and depression.” Advances in Psychiatric Treatment 15.4 (2009): 271-278.

Carhart-Harris, Robin L., et al. “Mourning and melancholia revisited: correspondences between principles of Freudian metapsychology and empirical findings in neuropsychiatry.” Annals of General Psychiatry 7.1 (2008): 9.

Cassiello‐Robbins, Clair, and David H. Barlow. “Anger: The unrecognized emotion in emotional disorders.” Clinical Psychology: Science and Practice 23.1 (2016): 66-85.

Luutonen, Sinikka. “Anger and depression—Theoretical and clinical considerations.” Nordic Journal of Psychiatry 61.4 (2007): 246-251.

Pasquini, M., et al. “Relevance of anger and irritability in outpatients with major depressive disorder.” Psychopathology 37.4 (2004): 155-160.

Smith, Hillary L., et al. “Hostile interpretation bias in depression.” Journal of affective disorders 203 (2016): 9-13.

Stone, Leo. “Psychoanalytic observations on the pathology of depressive illness: selected spheres of ambiguity or disagreement.” Journal of the American Psychoanalytic Association 34.2 (1986): 329-362.

Winkler, Dietmar, Edda Pjrek, and Siegfried Kasper. “Gender-specific symptoms of depression and anger attacks.” Journal of Men’s Health and Gender 3.1 (2006): 19-24.


1Belden 2008, p. 121.

2“Per riassumere i processi chiave coinvolti nella depressione cosí come sono stati descritti da Freud: la malattia è innescata dalla perdita di un oggetto imbevuto da un livello particolarmente intenso di catessi libidinale, si verificano un ritiro forzato della catessi, una regressione della libido nell’ego, un giudizio critico dell’ego basato sul suo fallimento di essere all’altezza degli ideali, e un simultaneo attacco dell’ego da parte di emozioni represse provate verso l’oggetto perduto.”

Carhart-Harris et al. 2008, p. 9.

3“La melanconia ci mostra l’ego diviso, spezzato in due parti, delle quali una si accanisce contro la seconda. Questa seconda parte è quella che è stata alterata dall’introiezione e che contiene l’oggetto perduto. Ma nemmeno la parte che si comporta cosí crudelmente ci è sconosciuta. Essa comprende la coscienza, un agente critico all’interno dell’ego, che anche in tempi normali assume un’attitudine critica verso l’ego, benché mai in modo cosí incessante e cosí ingiustificabile”

Carhart-Harris et al. 2008, p. 9. (tutto questo passo è una citazione di Freud)

4“Nel suo classico Lutto e Melanconia, Freud presentò la sua concettualizzazione della depressione, in base alla quale la perdita di un oggetto attuale primario è trasformata in una perdita dell’ego e l’odio verso l’oggetto primario è ritirato e diretto verso il sé.”

Luutonen 2007, p. 247.

5“Per rapportarsi alla perdita, il paziente internalizza un aspetto di quell’individuo. La rabbia verso quella persona tuttavia, diviene ora direzionata verso la parte del sé identificata con quell’individuo, conducendo ad autocritica, rimprovero e depressione”

Busch 2009, p. 272. (descrivendo la posizione di Freud)

6Leo Stone riprende la distinzione di Freud, e cosí si esprime (Stone nel 1986 usa il termine ‘depressione’ là dove nel 1917 Freud scriveva ‘melanconia’): “La depressione è uno stato affettivo complesso, che nasce sulla base del mourning….” Stone 1986, p. 339.

7Dopo aver osservato che il cuore dei vari fenomeni depressivi sono dei “vari gradi di perdita di interesse e di efficacia nel mondo…”, Stone osserva che i sensi di colpa e il calo di autostima non sono intrinseci a questa base depressiva, ma vi si possono aggiungere: “Mentre la colpa o una ridotta autostima possono contaminare questi fenomeni, essi non sono intrinseci al mourning in quanto tale.” Stone 1986, p. 337.

8Luutonen 2007, p. 246. E la citazione così continua: “Uno dei punti di partenza di Beck nel formulare la sua teoria cognitiva della depressione fu il rigetto (..) di tale associazione”.

9“Nel DSM 5 (…) Descrittivamente, l’irritabilitá è impiegata nel descrivere le caratteristiche diagnostiche della depressione, benché non sia un criterio diagnostico.”

Cassiello Robbins 2016.

10“In pratica, molti terapisti, indipendentemente dal loro orientamento terapeutico, sembrano pensare che la rabbia abbia un qualche ruolo nelle dinamiche della depressione.” Luutonen 2007, p. 246.

11Per tutte e tre le citazioni vedi Cassiello-Robbins e Barlow 2016 (numero di pagina assente).

Nota che una maggiore severità dei sintomi a causa della comorbiditá con rabbia elevata si osserva anche in PTSD, GAD, OCD.

12Considera anche: “L’esperienza degli attacchi di rabbia è più comune nelle fasi depresse del disturbo bipolare rispetto alla depressione maggiore.” Cassiello Robbins e Barlow 2016 (numero di pagina assente).

13Sembra che i momenti di irritabilità non varino in frequenza fra uomini e donne, mentre gli attacchi di rabbia sono più frequenti negli uomini: Nel nostro campione di 151 pazienti depressi circa tre quarti soffriva di irritabilità accresciuta durante l’episodio depressivo, ma non c’erano differenze significative tra uomini e donne nella frequenza dell’irritabilità. Gli uomini comunque, soffrivano due volte più spesso delle donne di attacchi di rabbia. Inoltre, la frequenza di questi attacchi era circa tre volte più alta negli uomini.” Winkler et al. 2006, p. 20.

14Sull’importanza della rabbia per la depressione si veda anche: “Abbiamo ottenuto una soluzione di tre fattori che rende conto del 47,4% della varianza totale. I fattori sono stati interpretati come ‘rabbia/irritabilità’, ‘depressione’, e ‘ansietà’, rispettivamente. La dimensione della rabbia/irritabilità era clinicamente rilevante nel 23% dei pazienti. La rabbia/aggressività era molto frequente (21,6%), là dove l’attivazione psicomotoria era infrequente (0.9%).”

Pasquini et al. 2004, p. 155.

15“L’ostilità è considerata una componente cognitiva della rabbia che, ad alti livelli, è teorizzata essere la causa del sospetto abituale verso gli altri e del comportamento difensivo o aggressivo verso gli altri dovuto a minacce percepite – spesso erroneamente…” Smith et al. 2016, p. 3.

“Il bias da interpretazione ostile è un bias di processazione dell’informazione che riflette la tendenza dell’individuo ad assumere un intento ostile oppure aggressivo nelle azioni degli altri. Anche se questo costrutto si sovrappone intrinsecamente con la componente cognitiva dell’ostilità, il bias da interpretazione ostile non misura la disposizione aggressiva.” Smith et al. 2016, p. 4.

In un senso l’ostilità dovrebbe essere cognitiva, in quanto “componente cognitivo della rabbia”, ma in un altro senso, nel venire contrapposta all’interpretazione ostile sembra vestirsi di una componente emotiva (per comprendere meglio la questione sarebbe meglio andare a vedersi esattamente il contenuto dei questionari impiegati per effettuare le misurazioni di queste variabili.)

In linea generale mi sembra probabile che tra cognitivo ed emotivo vi sia (anche a seguito di una lunga interazione avvenuta nel corso dello sviluppo) una sorta di continuum. E allora diventa difficile distinguere dove una supposta irritazione possa essere riconducibile ad una maggiore attività dei circuiti più profondi del sistema emotivo della rabbia, e dove invece l’origine dell’irritazione sia collocabile nei mini-carichi emotivi naturalmente portati da ciascun componente della rete cognitiva.

16“Complessivamente, i risultati suggeriscono che il bias da interpretazione ostile possa giocare un ruolo unico nella depressione e possa essere una caratteristica trattabile dei meccanismi interpersonali che mantengono la MDD.” Smith et al. 2016, p. 2.

17“In una recente revisione della letteratura esistente, una sbagliata percezione delle interazioni sociali era mediatrice nella relazione fra depressione e difficoltà interpersonali…” Smith et al. 2016, p. 3.

18“I meccanismi di difesa trovati nelle osservazioni cliniche e negli studi di ricerca su persone con depressione includono la negazione, la proiezione, l’aggressività passiva, la formazione reattiva e l’identificazione…” Busch 2009, p. 273.

19“La negazione mantiene la rabbia dell’individuo e altri sentimenti conflittuali fuori dalla coscienza.” Busch 2009, p. 273.

20Busch 2009, p. 273.

21Busch 2009, p. 273.

22“Nell’aggressione passiva, la rabbia è espressa indirettamente attraverso comportamenti trattenuti. Questi comportamenti tipicamente inaspriscono i problemi interpersonali, in quanto gli altri si arrabbiano nei confronti dell’individuo.” Busch 2009, p. 273.

23Cf. Stone 1986 a pagina 333-334

24Stone 1986, p. 351.

25Stone 1986, p. 341.

26Stone 1986, p. 357.

27Stone 1986, p. 356.

28“Insieme alla tristezza e all’impossibilità di essere amati, il disappunto e il rifiuto spesso innescano le reazioni arrabbiate verso le persone viste come sorgente di queste esperienze dolorose. Come descritto sopra, questa rabbia innesca sentimenti di colpa e meccanismi di difesa intesi a proteggere gli altri di cui si ha bisogno. La rabbia diviene diretta a se stessi, abbassando ulteriormente l’autostima, creando un circolo di vulnerabilità narcisistica e rabbia…” Busch 2009, p. 273.

29Stone 1986 fa riferimento ai sensi di colpa nella depressione a pagina 337. Ne riconosce l’importanza senza però concedere loro il ruolo di sintomo caratteristico (patognomonico) della depressione.

30Busch 2009, p. 275.

31“Sembra che una gestione esplicita della rabbia possa essere presente o meno nel trattamento. In ogni caso, è molto spesso implicitamente presente sotto forma di incoraggiamento all’assertività.” Luutonen 2007, p. 249.

32“In conclusione, sia elicitare la consapevolezza dell’esperienza della rabbia da un lato e allenare a non agire ciecamente in base ad essa dall’altro, sembrano essere importanti nel trattamento dei pazienti con depressione.” Luutonen 2007, p. 250.

“Potrebbe essere una questione di equilibro tra l’esperire la rabbia e la capacità di esprimerla adattivamente.” Luutonen 2007, p. 250.

33“Gli approcci cognitivo-comportamentali non concepiscono la rabbia come un fattore determinante della depressione, e la gestione della rabbia non è considerata centrale al trattamento.” Busch 2009, p. 271.

“Molti medici, comunque, continuano a vedere la rabbia come un fattore clinico significativo nel trattamento dei loro pazienti.” Busch 2009, p. 271.

“Più in generale, quindi, molti pazienti con depressione hanno difficoltà con la modulazione e la gestione dei sentimenti e delle fantasie della rabbia.” Busch 2009, p. 271

“Aiutare i pazienti a modulare e controllare i contrasti interpersonali e l’impatto negativo della loro rabbia è una parte importante del loro trattamento.” Busch 2009, p. 271.

“Ricerche sul legame tra rabbia e depressione hanno indicato o un accrescimento nella rabbia diretta verso l’esterno, oppure un maggior grado di rabbia repressa nei pazienti con depressione (Luutonen 2007)…” Busch 2009, p. 271.

Ansia e Depressione: relazione e differenze

L’ansia nasce da un senso di pericolo e di minaccia, mentre la depressione si caratterizza per una cronica mancanza di interesse verso il mondo. Il senso di pericolo dell’ansia tende a provocare dei comportamenti di fuga ed evitamento, i quali possono interferire con il nostro desiderio di interagire con il mondo. È cosí possibile che l’ansia (abbassando l’interesse verso certi aspetti del mondo) contribuisca allo sviluppo di uno stato depressivo, specialmente se gli effetti dell’evitamento ricadono nella sfera sociale. Lo stato di inattività in cui consiste la depressione, a sua volta, ci rende meno pronti ad interagire e ad affrontare attivamente le situazioni potenzialmente pericolose e fonte di ansia.

L’ansia deriva anzitutto dall’emozione fondamentale della paura. La paura tende ad avere un’origine identificata e dei comportamenti di reazione ben definiti, mentre nel caso dell’ansia il senso del pericolo appare più delocalizzato e non dà luogo a comportamenti di risposta immediatamente praticabili. La paura, ad esempio, ci fa correre nella direzione opposta rispetto al predatore di cui abbiamo avvertito la presenza. Nel caso dell’ansia, invece, ci sentiamo continuamente minacciati da molteplici possibilità di pericolo che intravediamo in ogni situazione quotidiana. Questa ubiquità delle fonti di possibile pericolo dipende dal nostro modo di pensare, e rende difficile identificare una via di fuga per sottrarsi alle minacce percepite.1 2

Oltre al contributo dello stato emotivo della paura, in alcune forme di ansia possono confluire anche gli effetti del sistema emotivo della pena della solitudine, il quale si accompagna al senso dell’abbandono e ad una sensazione di vuoto e spaesamento.3 Il comportamento prototipico di tale modo del sentire è costituito dal bambino che piange quando rimane senza la madre. Il contributo di questo sistema emotivo è particolarmente visibile in quello specifico disturbo dell’ansia che è l’attacco di panico.


La pena della solitudine (GRIEF in inglese) è una delle sette emozioni fondamentali secondo le neuroscienze affettive di Jaak Panksepp.


Non è detto che sia possibile operare una distinzione precisa dentro noi stessi fra il contributo di queste distinte fonti dell’affettività umana. Il normale vivere quotidiano è un flusso continuo di eventi e di situazioni di natura differente. Ogni stato mentale (e similmente ogni patologia mentale) tende a riassumere in sé il contributo di diverse sorgenti emotive che si attivano in risposta a differenti circostanze del mondo esteriore ed interiore. Nondimeno, le differenze fra i due sistemi emotivi della paura e della pena della solitudine possono fornirci dei preziosi suggerimenti nel percorso di comprensione di noi stessi.

Il sistema emotivo della paura tende a produrre un’attivazione generale dell’organismo per fuggire il più rapidamente possibile, o, dove la fuga non è possibile, per affrontare il pericolo con tutta l’energia disponibile. Quest’attivazione è sia di tipo fisico che mentale, e genera i sintomi tipici dell’ansia quali tensione muscolare, sudorazione, respirazione intensa, accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa4 (negli stati a riposo dei pazienti soggetti ad ansia cronica, solitamente rimane evidente la tensione muscolare, al di là dei dati dei self-report che a volte risultano imprecisi ed indicano un’attivazione di tipo più generale5)


Per approfondire il legame fra i sintomi dell’ansia e lo stress, puoi leggere questo articolo: Lo Stress e la Depressione


Gli effetti della pena della solitudine non sono, come nel caso della paura, una concentrazione di risorse finalizzata all’azione immediata.6 7 8 Si tratta piuttosto di una forma di agitazione che serve ad attirare l’attenzione dei propri simili. L’esempio già citato è quello del bambino che piange, ma si potrebbe anche ricordare che lo stesso meccanismo è evidente nei richiami dei piccoli di molti animali. Soprattutto nei mammiferi e negli uccelli.


Il corretto riconoscimento del proprio stato fisiologico non è scontato, e può essere facilitato dalla pratica della meditazione mindfulness.


La pena della solitudine ha come effetto prototipico una manifestazione esteriore che funziona da richiamo, ma questa forma di agitazione ad un certo punto cessa per lasciare posto ad una più lunga fase di calma che evita un consumo eccessivo di risorse. Sembra essere questo uno dei meccanismi che può facilitare lo sviluppo della depressione.9

Il legame fra la depressione e la pena della solitudine implica che la depressione abbia una connessione specifica con la dimensione sociale, ed infatti vi sono delle ricerche che mostrano come la depressione abbia un associazione preferenziale con la “dimensione interpersonale condivisa”.10 L’ansia invece può certo accadere nel contesto interpersonale, ma possiamo anche percepire minacce fisiche o di altra natura, non per forza contestuali alle nostre relazioni personali.

Abbiamo visto che la depressione si presenta come un ritiro dal mondo e come un abbassamento dell’interesse per ogni genere di attività nel mondo. Tale forma mentis si associa ad un generale orientamento al passato,11 alla tendenza all’autocritica, e allo sviluppo di forme di pensiero più concettuali e lente.

L’ansia invece si caratterizza come una frenesia focalizzata sul pericolo incombente e fa si che il futuro sia percepito come psicologicamente vicino,12 13 è caratterizzata da una maggiore tendenza a criticare gli altri, e alimenta il pensiero con processi percettivi automatici e veloci. 14 15 16 17

Una differenza molto significativa tra ansia e depressione è rintracciabile nella dimensione dell’affettività positiva. L’ansia genera dei momenti di affettività negativa e dei fenomeni di evitamento di situazioni o di oggetti specifici, ma non preclude l’esistenza di altri momenti in cui si esperiscono forme di piacere e di affettività positiva. La depressione invece, ha il suo carattere distintivo proprio nell’assenza di affettività positiva, nella difficoltà a provare piacere. Ciò si accorda bene con l’idea che la depressione sia essenzialmente un ritiro dal mondo, una forma cronica di abbassamento dell’interesse per il mondo.18


Per approfondire il tema dell’interesse è possibile leggere questo articolo: Carroll Izard e le emozioni.


La disconnessione fra la depressione e le esperienze di affettività positiva è testimoniata anche da alcune ricerche specifiche sul comportamento visivo, dalle quali risulta come le persone depresse tendano ad evitare gli stimoli positivi, là dove invece questo non accade con l’ansia. Quest’ultima risulta collegata piuttosto ad una maggiore sensibilità per gli stimoli minacciosi, come per esempio volti arrabbiati o animali quali serpenti e ragni.19 20 21

La mancanza di affettività positiva era un cardine della distinzione fra ansia e depressione già nel modello tripartito elaborato da Clark e Watson nel 1991.22 23 Mentre tale aspetto del modello tripartito è rimasto valido, ve ne sono altri che sono stati contestati. In particolare è stata messa in discussione l’idea che l’attivazione fisiologica fosse tipica dei disturbi ansiosi in contrapposizione alla depressione.24 Si tratta di un tema complesso che possiamo provare a riassumere come segue: l’attivazione fisiologica nell’ambito dei disturbi dell’ansia è prodotta anzitutto dal sistema emotivo della paura e quindi è più facilmente distinguibile nei disturbi più strettamente associati alla paura, quali le fobie specifiche (che possono avere per oggetto animali, danni al corpo, oppure certi tipi di spazi, come nell’agorafobia) e in misura lievemente minore le fobie sociali. Nel caso dell’ansia generalizzata e del disturbo da stress post traumatico invece l’attivazione fisiologica è minore25 (il disturbo da stress post-traumatico è caratterizzato dal rivivere un’esperienza traumatica, ed è spesso associato ad un significativo livello di ostilità;26 27 tipico è il caso dei veterani di guerra). Il caso dell’attacco di panico, infine, va compreso in modo particolare, in quanto l’attività visibile è interpretabile come una forma di agitazione che differisce dall’attivazione prodotta dalla paura, come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti.28

Sulla base di quanto abbiamo appena osservato è possibile disporre i principali disturbi della famiglia dell’ansia in una serie che va dalle fobie specifiche (manifestazioni più specifiche della paura e del senso di minaccia) agli attacchi di panico, i quali ricevono un contributo più importante dalla pena di solitudine e dal relativo senso di abbandono).29

I disturbi dell'ansia e la depressione

I disturbi dell’ansia e la depressione

Questa interpretazione va intesa come un approccio utile anzitutto come schema orientativo, in quanto un’interpretazione esaustiva dei rapporti reciproci fra i disturbi dell’ansia e quello della depressione non è ancora stata raggiunta dalla scienza contemporanea. Nondimeno tale schema, che abbiamo introdotto riflettendo sull’attivazione fisiologica, riceve anche il supporto di alcune ricerche sui dati della genetica.30 31 Tali ricerche tendono ad associare fra loro i disturbi da attacchi di panico, da ansia generalizzata e da stress post-traumatico, considerandoli prossimi alla depressione, e differenziandoli invece dalle fobie specifiche. Queste ultime potrebbero quindi essere considerate una più pura manifestazione del sistema emotivo della paura, priva del contributo del senso di vuoto e spaesamento che è tipico della pena della solitudine e che può invece entrare a far parte dello stato d’animo ansioso.32 33 34 35

Alcune osservazioni a parte vanno fatte per il disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Tale disturbo fa sempre parte della famiglia dei disturbi dell’ansia e può essere esaminato con una scala diagnostica suddivisa in 4 sottoscale distinte. Fra di esse, quella che mostra una correlazione maggiore con il disturbo depressivo è quella mirata a rilevare i comportamenti di controllo ossessivo (le altre sottoscale sono: accumulazione, pulizia ossessiva e rituali compulsivi, questi ultimi collegati alla mania dell’ordine36). 37 38

Dalla meta-analisi di Jacobson e colleghi del 2017 emerge che il disturbo ossessivo compulsivo favorisce l’insorgere del fenomeno depressivo, mentre il contrario si verifica più raramente. Seguendo le indicazioni di alcuni studi specifici, potremmo dire che la natura del DOC è distinta da quella della depressione, ma che tramite il meccanismo della vergogna39 il DOC può favorire l’insorgere del disturbo depressivo (perché la vergogna tende a separarci dalla dimensione sociale).40 41

La medesima meta-analisi di Jacobson e colleghi del 2017 aveva come obiettivo quello di analizzare l’influenza reciproca fra ansia e depressione. Il quadro risultante è molto complesso, diversificato in base al disturbo specifico preso in esame, e indicativo di un rapporto causa-effetto in entrambe le direzioni. Per quanto riguarda il meccanismo con cui l’ansia tende a favorire l’insorgere della depressione, gli autori di questa ricerca suggeriscono quanto abbiamo già accennato in apertura dell’articolo. L’ansia produce meccanismi di evitamento, e questi ultimi, specialmente se agiscono in un ambito interpersonale, possono deteriorare le nostre relazioni sociali. Ciò finisce per favorire l’isolamento e il senso di solitudine che contribuiscono alla stratificazione della patologia depressiva.42 43

Dall'ansia alla depressione

Dall’ansia alla depressione

L’ansia e la depressione sono due patologie interconnesse44, molto diffuse nella società contemporanea, ma sorprendentemente ancora prive di una comprensione solida e completa che ne metta in luce le reciproche interazioni in modo soddisfacente. Manca anche una descrizione approfondita e definitiva della relazione fra l’ansia, la depressione e la dimensione dell’ostilità, la quale fa capo all’emozione fondamentale della rabbia.45

Quel che si trova in letteratura è un insieme di indizi che abbiamo provato a riordinare secondo un approccio fruibile ispirato dal punto di vista delle neuroscienze affettive. Queste ultime concepiscono le emozioni come una sorgente profonda del nostro essere coscienti. Le emozioni toccano in modo intimo la nostra tendenza ad agire nel mondo. Ne impostano le modalità fondamentali. Con una metafora un poco banale, ma tutto sommato valida, potremmo dire che differenti emozioni attivano differenti atmosfere cosí come accade coi generi cinematografici, quali per esempio il drammatico, la commedia, l’horror, l’erotico e la fantascienza. Succede cosí che oggetti, persone e ambienti simili si trovino coinvolti in narrative diverse, le quali evocano ciascuna un insieme di significati distintivi e specifici.

La paura che alimenta l’ansia genera una tendenza ad evitare, e organizza il nostro comportamento attorno a un polo negativo, il quale sottrae attenzione ad altre possibili esperienze di emotività positiva.46 Chi ha paura non gioca, ad esempio. La depressione invece, è un’affettività negativa che non si organizza intorno a un polo preciso, è una mancanza generalizzata di voglia di fare che si ripercuote nel modo in cui giudichiamo noi stessi, il mondo e la vita.

Queste radici del sentire sono troppo importanti per non farne oggetto di comprensione. In questo scritto abbiamo presentato alcune delle idee più interessanti prodotte dalla letteratura scientifica, cosí da renderle disponibili nel lavoro di crescita interiore. La nostra sensibilità può svilupparsi, il tono affettivo delle nostre giornate può essere compreso, e il movimento delle emozioni non è sottoposto a nessun contratto col destino che abbia decretato la necessità dei momenti neri. È vero, ci sono diversi fatti della nostra vita che non possiamo cambiare a piacimento, ma l’atmosfera emotiva in cui farli confluire rientra nella sfera delle nostre possibilità. L’intento della nostra prosa è quello di sviluppare il miglior vocabolario per prendersi cura di tali possibilità, svelando cosí l’accesso a equilibri del vivere più elevati.


LEGGI ANCHE: Come combattere la depressione: 30 pagine di informazione


Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico.

BIBLIOGRAFIA

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Hoehn-Saric, Rudolf, and Daniel R. McLeod. “Anxiety and arousal: physiological changes and their perception.” Journal of affective disorders 61.3 (2000): 217-224.

Jacobson, Nicholas C., and Michelle G. Newman. “Anxiety and depression as bidirectional risk factors for one another: A meta-analysis of longitudinal studies.” Psychological bulletin 143.11 (2017): 1155.

Öhman, Arne. “Fear and anxiety: Overlaps and dissociations.” (2008).

Panksepp, Jaak, and Lucy Biven. The archaeology of mind: neuroevolutionary origins of human emotions (Norton series on interpersonal neurobiology). WW Norton & Company, 2012.

Stone, Leo. “Psychoanalytic observations on the pathology of depressive illness: selected spheres of ambiguity or disagreement.” Journal of the American Psychoanalytic Association 34.2 (1986): 329-362.

Watson, David. “Differentiating the mood and anxiety disorders: A quadripartite model.” Annual Review of Clinical Psychology 5 (2009): 221-247.

Watt, Douglas F., and Jaak Panksepp. “Depression: An evolutionarily conserved mechanism to terminate separation distress? A review of aminergic, peptidergic, and neural network perspectives.” Neuropsychoanalysis 11.1 (2009): 7-51.

1“Nella paura, gli organismi cercano di affrontare il pericolo, ma nell’ansia, la situazione non ammette modalità efficaci per essere affrontata” Öhman 2008, p. 724.

2“Nella paura, dunque, è un evidente (benché non necessariamente percepito con chiarezza) pericolo collocato nello spazio e nel tempo che bisogna affrontare; nell’ansia, invece, la natura e la collocazione della minaccia rimangono più oscure e quindi sono difficili da affrontare con manovre attive di difesa.” Öhman 2008, p. 710.

(Qui si potrebbe osservare che da un punto di vista delle rappresentazioni profonde che l’organismo ha del mondo, sarebbe meglio evitare di dire che il pericolo non è collocato esattamente nello spazio. Pare più primitiva proprio l’assenza di comportamenti efficaci di ingaggio. Il riferimento ad una posizione esatta nello spazio pare essere anzitutto una costruzione cognitiva dell’osservatore. Andando oltre con questo ragionamento, si potrebbe sostituire lo spazio con i percorsi, nell’ambito della gerarchia delle entità più primitive.)

3Considera: “Non ogni forma di ansia emerge dal sistema della PAURA” Panksepp and Biven 2012, p. 189.

4Vedi ad esempio Hoehn-Saric and McLeod 2000, p. 218.

5Considerando le reazioni corporee oggettive e soggettive osservate in soggetti normali durante lo stress acuto, era ragionevole aspettarsi che i pazienti con disordini di ansia cronica, i quali lamentano sensazioni corporee simili, avrebbero mostrato anche una sovreccitazione fisiologica a riposo o, almeno, una risposta più intensa agli stimoli stressanti. Non è questo però il caso nei pazienti con ansia cronica. La maggior parte dei pazienti non mostra segni di sovra-attivazione autonomica a riposo. Contrariamente alle aspettative, essi reagiscono con una più debole risposta fisiologia agli stimoli stressanti da laboratorio rispetto ai soggetti normali di controllo. I pazienti mostrano una forte reazione fisiologica solo a stimoli che sono stati associati con una paura patologica, come gli stimoli fobici.” Hoehn-Saric and McLeod 2000, p. 218.

“Contrariamente ai self-report, la maggioranza dei pazienti con ansia cronica mostra un’accresciuta tensione muscolare, possibilmente come espressione periferica di uno stato di iper-allerta, ma non sovreccitazione autonomica.” Hoehn-Saric and McLeod 2000, p. 223.

6“Complessivamente, questi dati mostrano che la paura intensificata (fobica) degli stimoli animali è associata con una distinta risposta psicofisiologica, suggerendo l’attivazione di una risposta del tipo attacco o fuga, la quale chiaramente differisce dallo schema elicitato da questi stimoli in partecipanti normali. Questa distinta risposta di paura indotta dagli stimoli nel caso di fobie specifiche contrasta con la risposta psicofisiologica allo stress vista in PD e GAD. Nonostante le descrizioni cliniche (confermate dai dati dei self-report) di un panico che implica un’attivazione del sistema simpatico simile a quella della paura (Öhman, 1993), la ricerca mostra che PD e GAD sono associati primariamente con un’attività autonomica improntata al riposo, e, se non altro, con una meno acuta reattività ai comuni compiti stressanti (Hoehn-Saric & MacLeod, 2000).” Öhman 2008, p. 723.

7“Mentre la PAURA induce un individuo a scappare da situazioni che intensificano l’ansia, il PANICO/PENA (pena della solitudine) promuove pensieri sugli oggetti d’attaccamento persi e spinge a cercare la compagnia delle persone che amiamo” Panksepp and Biven 2012, p. 190.

8Vi sono studi che tendono a collegare la sindrome dell’attacco di panico con un maggiore attivazione fisiologica:

“Confrontando i valori medi sulle nuove scale fra pazienti con uno dei quattro disturbi dell’ansia (gSAD, GAD, SP e PDA), la scala dell’attivazione somatica pareva essere specifica dei pazienti con disordine da panico.” Hollander-Gijsman et al. 2010, p. 203.

Per quanto detto nel testo sarebbe interessante andare a verificare di che tipo di attivazione si tratta. L’attacco di panico infatti, secondo la visione delle neuroscienze affettive, sarebbe generato anzitutto dal sistema emotivo della pena della solitudine, che tende ad attivare più il sistema parasimpatico (funzioni di recupero) piuttosto che quello simpatico (attivazione fisica immediata).

(Si tenga presente che livelli molto alti di paura possono provocare anche fenomeni di svenimento e di abbassamento delle attività sostenute dal sistema simpatico.)

9“In modo critico per la nostra discussione, i lavori classici sullo stress da separazione (Bowlby, 1980; Elliot & Scott, 1961; Panksepp, 1981) suggeriscono una fase iniziale di protesta (con una durata variabile in individui e specie differenti), seguita da una cosiddetta fase di disperazione, nella quale gli animali mostrano un analogo della depressione umana, caratterizzato da apatia, letargia, struggimento, ritiro sociale e diminuzione del pianto (Harris, 1989)” Watt and Panksepp 2009, p. 26.

10“Quindi, la più chiara differenza fra i profili di significato riguardava la realtà condivisa interpersonale: questa era chiaramente associata con la depressione ma non con l’ansia.”

Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1396.

11L’orientamento al passato della depressione è coerente con la rilevazione di distorsioni (bias) della memoria associati alla depressione:

“Phillips, Hine, e Thorsteinsson (2010) e Gaddy e Ingram (2014) hanno condotto una rivista meta-analitica della ricerca sui bias di memoria implicita e la depressione. In entrambi gli studi, i dati indicavano che la depressione era significativamente associata coi bias di memoria implicita. In contrasto, Mitte (2008), in una meta-analisi, non ha trovato nessuna relazione fra l’ansia e i bias di memoria implicita.”

E, sulla memoria implicita:

“È prassi comune distinguere fra bias di memoria esplicita (che coinvolgono il recupero cosciente di informazione dalla memoria di lungo termine) e bias di memoria implicita (che riguardano test di memoria implicita come ad esempio il completamento di parole).” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1392-1393.

12“Gli individui ansiosi hanno mostrato una tendenza molto più forte di quelli depressi a percepire il futuro come psicologicamente più vicino.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1392.

13“Comunque sia, la formulazione di Brenner generalizza progressivamente le sue inferenze, fino a che l’ansia viene a significare “qualcosa di brutto sta per accadere” mentre il tono depressivo viene a significare “qualcosa di brutto è accaduto””. Stone 1986, p. 338.

14“…la depressione risultò associata con la ruminazione, l’autocritica, e la mancanza di reinterpretazione positiva e di rifiuto. In contrasto (…) l’ansia risultò associata con il catastrofismo e la critica rivolta verso gli altri.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1397.

15“Per esempio, Williams, Watts, MacLeod, e Mathews (1997) hanno distinto tra processi veloci, “automatici” e percettivi, e processi più lenti, controllati e concettuali. Hanno sostenuto che l’ansia è associata più strettamente con i primi mentre la depressione con i secondi, cosí che non vi sono relazioni di tipo semplice tra i bias cognitivi e l’ansia o la depressione.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1392.

16Nel costruirsi un’immagine del proprio passato prossimo, i depressi tendono a riportare eventi di perdita, mentre gli ansiosi tendono a riportare maggiormente situazioni di possibile pericolo.

“Finlay-Jones e Brown (1981) hanno studiato i pazienti con disturbi d’ansia o depressione, ai quali era stato chiesto di identificare gli eventi di vita nei mesi precedenti l’instaurarsi del disordine. Eventi pericolosi (collegati a minacce future) furono ricordati dal 77% dei pazienti ansiosi, ma solo dal 47% dei pazienti depressi. In contrasto, il 65% dei pazienti depressi menzionò eventi di perdita (collegati al passato) contro solo il 15% dei pazienti ansiosi.”

Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1392.

17“Uno dei più influenti approcci teoretici alla comprensione delle differenze fra ansia clinica e depressione fu proposto da Beck (1976). In essenza, egli sostenne che i disordini dell’ansia sono caratterizzati da un focus eccessivo sul tema del pericolo; ciò implica l’esagerazione della portata della minaccia fisica o psicologica e anche l’esagerazione della probabilità e del costo del danno atteso. In contrasto, i pazienti depressi si focalizzano eccessivamente sui temi dell’auto-svalutazione; ciò produce credenze negative a riguardo di sé stessi, del mondo e del futuro. Queste credenze e temi sono rappresentati nella memoria da schemi cognitivi (definiti da Beck & Duzois, 2011, come “strutture cognitive ben organizzate di informazioni e memorie immagazzinate che formano il nocciolo delle credenze di base su sé stessi e sugli altri” (p.598).” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1397.

18“Ci sono importanti punti in comune nei processi coinvolti nel richiamare gli eventi passati e immaginare quelli futuri (Schacter et al., 2012). (…) Per esempio, MacLeod, Tata, Kentish, e Jacobsen (1997) hanno chiesto ai pazienti ansiosi e depressi di generare esperienze positive dal passato e dal futuro. I risultati furono molto simili per entrambi gli orientamenti temporali: gli individui depressi generano molte meno esperienze positive indifferentemente dalla collocazione dell’esperienza nel passato o nel futuro.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1394.

19“Armstrong e Olatunji hanno passato in rivista gli studi sul tracciamento degli occhi in tempo reale (online eye tracking) e hanno trovato che non c’era un bias attenzionale associato con l’ansia, ma che la depressione era associata ad un bias attenzionale opposto (gli stimoli positivi venivano evitati). Winer e Salem hanno esaminato gli studi sul compito del dot-probe task e hanno ottenuto risultati piuttosto simili.” Eysenck 2018, p. 1395.

20“Un bias attenzionale per le minacce, dunque, potrebbe essere un fattore importante che con un circolo vizioso prolunga l’ansia nel tempo…” Öhman 2008, p. 718.

“Se l’evento minaccioso che trattiene l’attenzione in questo modo è mentale (una memoria, un pensiero, un immagine), ciò è equivalente a rimanere intrappolati in una preoccupazione ruminativa. Quindi il sintomo centrale della GAD potrebbe provenire da problemi con il controllo dell’attenzione.” Öhman 2008, p. 718.

“C’è un’ampia letteratura (…) sulle funzioni cognitive nell’ansia, la quale documenta che l’ansia come tratto della personalità è associata con un bias attenzionale che si focalizza sull’informazione minacciosa presente nei dintorni.” Öhman 2008, p. 716.

21La depressione è associata anche con una difficoltà a a distaccarsi da un contenuto disforico.

“Armstrong e Olatunji (2012) hanno condotto un esame meta-analitico degli studi che impiegano il tracciamento degli occhi per valutare il bias attenzionale. L’ansia è risultata associata con un bias attenzionale. La depressione non è risultata associata con un bias intenzionale in termini di un orientamento iniziale verso la minaccia. Comunque, è risultata associata con una difficoltà a distaccarsi dal contenuto disforico.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1395.

22Il cuore concettuale del modello tripartito del 1991 potrebbe essere cosí riassunto:

“La depressione (ma non l’ansia) è caratterizzata da una relativa assenza di affettività positiva (o da manifestazioni di anedonia). In contrasto, l’ansia (ma non la depressione) è caratterizzata da sovreccitazione.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1394-1395.

23Anche Watson 2009 evidenzia come la mancanza di affettività positiva sia più specifica della depressione che non dell’ansia.

“In accordo con i modelli tripartito e integrativo gerarchico, la scala IDAS Well-Being mostra la più impressionante specificità in questi dati: essa è correlata molto più nettamente con la depressione (valore medio di r = -0.56) che con l’ansia (valore medio di r = -0.32) in entrambi i campioni.” Watson 2009, p. 239.

24Un’altra critica importante che è stata portata a questo modello consiste nel fatto che l’affettività negativa dell’ansia e quella della depressione non sono la medesima cosa, bensì si caratterizzano con tratti distinti, come abbiamo avuto modo di segnalare in più parti del presente articolo.

Un’ulteriore critica importante riguarda il fatto che Clark e Watson nel modello originale hanno posto la dimensione affettiva positiva e la dimensione affettiva negativa su un’unica scala come fossero degli opposti di un medesimo spettro. Ma vi sono analisi che mostrano come queste due dimensioni si comportino come fattori indipendenti. Per approfondire i possibili sviluppi del modello tripartito di Clark e Watson si veda Hollander 2010

25La ridotta attivazione fisiologica nel caso dell’ansia generalizzata potrebbe forse essere interpretata come una conseguenza della mancanza di una possibilità di fuga da mettere in atto.

26“In aggiunta alle manifestazioni cronicamente iperattive dei sistemi della PAURA e del PANICO/PENA, il PTSD è uno stato di terrore spesso accompagnato da rabbia…” Panksepp and Biven 2012, p. 191.

27Öhman 2008, p. 711.

28“Shapiro e Crider (1969) hanno esaminato la vecchia letteratura e hanno concluso che ‘i tentativi organizzati di affrontare le minacce ambientali sono accompagnati da una reazione del sistema autonomo, là dove la disorganizzazione e l’attitudine difensiva sono correlate con un ridotto coinvolgimento del sistema autonomo’” Hoehn-Saric and McLeod 2000, p. 221.

29La serie che proponiamo mantiene una buona corrispondenza con la contrapposizione fra un polo dominato dall’attivazione fisiologica tipica della paura e un polo caratterizzato da una bassa affettività positiva. Vedi al riguardo le seguenti citazioni:

“Specialmente bassa è la correlazione tra la bassa affettività positiva e la paura fobica: r = .26, il che suggerisce come queste scale potrebbero differenziare in modo adeguato la depressione dai disordini della famiglia dell’ansia.” Hollander-Gijsman et al. 2010, p. 202

“I pazienti con un punteggio elevato sulla bassa affettività positiva tendono ad appartenere al gruppo con la depressione (punteggio medio DEP = 4.36, S.D. = .64 contro un punteggio medio ANX = 3.70, S.D. = .82) e i pazienti con un punteggio alto nella paura fobica tendono maggiormente ad appartenere al gruppo con disordini dell’ansia.” Hollander-Gijsman et al. 2010, p. 202

“Come previsto, i pazienti con depressione avevano un punteggio maggiore nella scala LPA (low positive affect) rispetto ai pazienti senza un disordine dell’umore o di natura ansiosa (punteggio medio DEP = 4.36, S.D. = .64 rispetto ad un punteggio medio NO ANX/DEP = 3.60, S.D. = .79, p = .000) e i pazienti con un disordine dell’ansia avevano un punteggio più alto sulla scala PF rispetto ai pazienti senza un disordine dell’umore o di natura ansiosa.” Hollander-Gijsman et al. 2010, p. 202

30“Nell’ambito della letteratura sulla genetica del comportamento sta emergendo una distinzione tra i disordini collegati primariamente alla paura come le fobie specifiche da un lato, e i disordini di natura primariamente ansiosa (PD, GAD, PTSD) e la depressione dall’altro.” Öhman 2008, p. 722.

31“Quindi, è ragionevole parlare di fobie specifiche come di disordini legati esclusivamente alla paura, degli attacchi di panico e forse in particolare della GAD come di disordini primariamente legati all’ansia, e della fobia sociale e del PTSD come disordini collegati sia alla paura sia all’ansia. Tale conclusione è ulteriormente supportata dai dati sulla comorbiditá, che mostrano soltanto una lieve comorbiditá con altri disordini del DSM appartenenti alla famiglia dell’ansia e con la depressione per quanto riguarda le fobie specifiche; un certo grado di comorbiditá del medesimo tipo per quanto riguarda la fobia sociale; e un considerevole grado di comorbiditá del medesimo tipo per quanto riguarda PTSD, PD e GAD (Brown et al., 2001).”

Öhman 2008, p. 725.

32La lettura dei dati di Jacobson e colleghi 2017 (in particolare le tabelle 9 a pagina 1169 e tabella 8 a pagina 1168) suggerisce che l’interazione maggiore col disturbo depressivo si ha per il gruppo GAD PTSD e PD, valori più bassi si hanno per le fobie specifiche, e valori intermedi per la fobia sociale. Anche questi dati supportano lo schema che abbiamo proposto. Vi sono comunque alcuni altri dati nella medesima ricerca che posizionerebbero il disturbo da ansia generalizzata ad livello di interazione inferiore rispetto a PTSD e PD. Vedi tabella 10 a pagina 1170.

33Anche Watson 2009 concorda nel contrapporre le fobie specifiche nei confronti di GAD, PD e PTSD, considerando questi ultimi più prossimi alla depressione. Watson include in questo gruppo anche l’OCD. E considera le fobie sociali come intermedie fra tale gruppo e le fobie specifiche. Il che ha senso in quanto la patologia depressiva ha una profondo legame con la dimensione interpersonale. Watson d’altra parte tende a porre il disturbo da attacchi di panico nello stesso gruppo dei disturbi della paura. Mantiene comunque una struttura in cui a un capo stanno le fobie (disturbi della paura) e all’altro capo il disturbo depressivo (incluso nei distress disorders). E qui è interessante ricordare che Panksepp riteneva la pena della solitudine essere un caso paradigmatico di stress. Quest’ultimo tema può essere approfondito leggendo il nostro articolo su stress e depressione.

Noi abbiamo preferito mantenere gli attacchi di panico prossimi alla depressione seguendo il punto di vista di Panksepp e delle neuroscienze affettive. Tra l’altro Panksepp osserva che alcuni farmaci attivi contro l’ansia (sistema emotivo della paura) sono inefficaci contro gli attacchi di panico.

“Anzitutto, i disordini dell’ansia mostrano una correlazione piuttosto differenziata rispetto alla depressione maggiore e al disordine distimico. Specificatamente, questi disordini dell’umore sono fortemente comorbidi con la GAD; mostrano una più moderata associazione con il PTSD, con i disordini da panico, il DOC e la fobia sociale; e sono collegati debolmente con l’agorafobia e le fobie specifiche.” Watson 2009, p. 241.

“La GAD mostra la maggiore comorbiditá coi disordini unipolari dell’umore del DSM, con una media pesata di correlazione tetracorica di 0.64 e 0.66, rispettivamente, con la depressione maggiore e il disordine distimico. Il PTSD, il disordine da panico, il DOC e la fobia sociale mostrano associazioni più moderate con i disordini dell’umore, con coefficienti medi che variano da 0.48 a 0.57 (media complessiva r=0.52). L’agorafobia e le fobie semplici/specifiche, infine hanno il legame più debole con i disordini dell’umore, con valori medi che variano fra solo 0.41 e 0.48 (media complessiva=0.44).

Inoltre, la GAD mostra un maggior legame con questi disordini dell’umore (media r=0.65) che con altri disordini dell’ansia del DSM (range=da 0.42 a 0.58; media r=0.51).” Watson 2009, p. 225.

“Slade & Watson (2006) hanno ulteriormente esteso questa linea di evidenza definendo un set allargato di disordini dell’ansia. Essi hanno dimostrato che la depressione maggiore, il disordine distimico, la GAD e il PTSD definiscono nel loro insieme il fattore ansia-miseria (anxious-misery), là dove il disordine da panico, l’agorafobia, la fobia sociale e il DOC individuano la paura.” Watson 2009, p. 226.

Nelle conclusioni, Watson cosí si esprime: “Di conseguenza, le analisi strutturali indicano in modo consistente che la depressione maggiore, il disordine distimico, la GAD e il PTSD individuano un fattore, là dove il disordine da panico, l’agorafobia, la fobia sociale e le fobie specifiche ne definiscono un altro. (…) ha più senso organizzarli in disordini dello stress (distress) e della paura, rispettivamente.” Watson 2009, p. 241.

34Sarebbe interessante chiedersi se lungo questa disposizione di patologie è anche lecito ipotizzare un continuum che vada da un massimo di definitezza del pericolo delle fobie specifiche a un malessere dovuto ad indeterminatezza nel caso della depressione. L’interesse di tale approccio deriva dal fatto che il grado di determinatezza potrebbe essere una proprietà molto primitiva degli schemi rappresentativi prodotti dal sistema nervoso. D’altra parte è evidente che la complessità sottostante dei fenomeni in esame necessita di agganciare un tale approccio a dei dati oggettivi non semplici da reperire e da interpretare.

35Il punto di giunzione fra paura e panico (grief) sembra essere lo spaesamento. La mancanza di un comportamento di fuga. La scelta di impiegare l’espressione “comportamento di fuga” anziché via di fuga è nostra, e nasce dalla considerazione che lo spazio geometrico tridimensionale è una costruzione cognitiva elevata, mentre la disponibilità di comportamenti specifici è un tratto molto più primitivo della vita organica cosí come è “vista” dall’organismo. Lo spazio geometrico tridimensionale è pensato da noi, ma non è diffusamente percepito dalle nostre strutture nervose. (Lo spaesamento e la mancanza di comportamenti di fuga si pongono come dei gradi di definitezza. Vedi nota precedente)

36“la sottoscala SCOPI Rituali Compulsivi corrisponde alla sottoscala OCI-R Ordine (r=0.64)” Watson 2009, p. 234.

37Considera anche questo commento: “Le scale che vanno a determinare i pensieri intrusivi e ricorrenti mostrano in modo consistente il legame più forte con la depressione; tutte le altre associazioni sono relativamente basse.” Watson 2009, p. 236.

“Mataix-Cols et al. (2005) hanno passato in rivista i risultati di 12 importanti studi analitici fattoriali e hanno identificato quattro dimensioni di sintomi altamente replicabili: (a) simmetria e ordine, (b) pulizia e contaminazione, (c) ossessioni e controllo, e (d) accumulazione.” Watson 2009, p. 234.

38Sul DOC riportiamo le seguenti citazioni:

“Similmente, anche se i sintomi del DOC sono diffusi nella popolazione generale, (Watson & Wu 2005, Watson et al. 2004), la sindrome completa è infrequente e spesso è esclusa dalle analisi strutturali.” Watson 2009, p. 227.

“L’evidenza disponibile è limitata, ma suggerisce che i sintomi del DOC abbiano una specificità minima o nulla nei confronti degli indicatori tradizionali di ansia e depressione” Watson 2009, p 235.

“Queste correlazioni sono ovviamente di una grandezza molto inferiore rispetto a quelle per il PTSD: là dove la correlazione fra i sintomi del PTSD e la depressione tipicamente si trovano nel range tra 0.45 e 0.75, i corrispondenti valori per le scale DOC si collocano generalmente tra 0.25 e 0.45.” Watson 2009, p. 235.

39“Inoltre, la vergogna mediava trasversalmente (cross-sectionally) la relazione tra DOC e sintomi depressivi” Jacobson and Newman 2017, p. 1170.

40È significativo che il DOC sembri condurre alla depressione più nettamente che non il contrario, il che concorda con l’idea della mediazione da vergogna. È significativo anche che le fobie specifiche e sociali siano causate dalla depressione più di quanto esse non causino la depressione. Jacobson and Newman 2017, tabella 10 a pagina 1170.

41Coerentemente con questa distribuzione dello spettro, la fobia specifica, non sociale, è il disturbo che meno accresce la probabilità di sviluppare la patologia depressiva. La fobia sociale accresce maggiormente tale probabilità, e valori più elevati ancora si riscontrano per il gruppo GAD, PTSD e PD. Da notare che per il DOC si riscontrano valori molto elevati. Come suggerito nel testo, è possibile che il passaggio da DOC a Depressione sia mediato dalla vergogna.

Jacobson and Newman 2017, Tabella 9 a pagina 1169.

42“Quindi, anche se c’è bisogno di effettuare più ricerca, i ritrovamenti preliminari suggeriscono che l’evitamento e le relazioni interpersonali siano fattori mediatori fra un’ansia iniziale e una successiva depressione, e ciò è valido sia a livello di sintomi che di diagnosi del disordine.” Jacobson and Newman 2017, p. 1171

43Anche degli studi sulle interazioni emotive da un giorno al successivo mostrano un ruolo significativo del contesto interpersonale per comprendere come l’ansia causi la depressione. Sembra che le giornate di ansia tendano a provocare delle giornate in cui si tende ad essere più depressi, soprattutto se l’ansia coinvolge la dimensione interpersonale.

“L’ansia in un qualsiasi giorno prediceva in modo evidente la depressione 1,2,3, e 4 giorni dopo. Per contrasto, la depressione non prediceva l’ansia nei giorni successivi. Questa parziale dipendenza dell’umore depresso dal precedente umore ansioso è di potenziale importanza.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1398

“L’umore ansioso era più efficace nel predire il successivo umore depresso nei giorni in cui i pazienti esperivano problemi interpersonali e percepivano un rifiuto. Gli autori hanno anche riscontrato che l’umore ansioso e quello depresso erano più strettamente correlati nei giorni in cui i pazienti ruminavano sulla propria ansia o vedevano i propri sintomi ansiosi in un modo più negativo. In linea di principio, tale ricerca potrebbe chiarificare le modalità in cui la preoccupazione e la ruminazione si attivano a vicenda.” Eysenck and Fajkowska 2018, p. 1398.

44“Inoltre, nel corso della loro vita, dal 49% all’81% delle persone con un disordine depressivo hanno soddisfatto i criteri diagnostici per un disordine dell’ansia, e dal 47% all’88% di quelli con un disordine dell’ansia hanno soddisfatto i criteri per un disordine depressivo” Jacobson and Newman 2017, p. 1155

45In un articolo sulla differenza tra ansia e depressione, cosí si esprimono gli autori:

“La scala dell’ostilità non contribuiva alla funzione discriminante. (…) Comunque, l’ostilità è clinicamente rilevante e sottostimata nei nostri sistemi correnti di classificazione.” Hollander-Gijsman et al. 2010, p. 203

46In precedenza abbiamo osservato che una persona propensa agli stati ansiosi non è priva di momenti di affettività positiva. Ciò che stiamo osservando in questo passaggio si riferisce invece al fatto che mentre l’affettività positiva è ridotta nel momento in cui l’ansia attivamente percepita. (La persona ansiosa può esperire momenti di affettività positiva, ma difficilmente questo accade nei momenti di ansia.)

Lo Stress e la Depressione

La depressione è caratterizzata da un abbassamento cronico del livello di interesse e di coinvolgimento nel mondo. Lo stress invece riguarda la modulazione dell’attività dell’organismo quando ci troviamo ad affrontare delle situazioni impegnative, le quali spesso implicano un coinvolgimento nel mondo molto intenso.

La reazione generale dell’organismo di fronte ad una situazione di minaccia o pericolo (e dunque potenzialmente stressante) è l’attivazione fisica e mentale. L’organismo mobilita le risorse disponibili per concentrarle sulle esigenze più immediate e pressanti. Quando abbiamo paura o quando siamo arrabbiati, per esempio, il cuore e la respirazione accelerano, arriva più ossigeno ai muscoli scheletrici, e siamo più pronti a combattere o a fuggire. Da un punto di vista mentale questa attivazione generale ci rende più pronti a cogliere ed interpretare i dettagli anche minimi, che in altre situazioni avremmo trascurato. La focalizzazione dell’organismo sulle necessità immediate, però, non può durare indefinitamente, perché avviene a scapito di altri processi di medio lungo termine, i quali vengono temporaneamente disattivati. Fra questi ultimi abbiamo per esempio la digestione, la crescita, la riproduzione e parte del sistema immunitario.1

L’attivazione psico-corporea immediata è gestita dal sistema nervoso simpatico (SNS) e da quel sistema fisiologico più tipico dello stress che è l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (in inglese “Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis”, abbreviato in HPA). Il sistema nervoso simpatico agisce attraverso l’adrenalina e la noradrenalina, mentre l’asse HPA esercita i suoi effetti attraverso il cortisolo. L’adrenalina e la noradrenalina sono due neurotrasmettitori, ed agiscono velocemente, nella scala temporale dei millisecondi.2 Il cortisolo invece è un ormone, il che significa che si diffonde attraverso il sangue ed agisce più lentamente, nella scala temporale dei minuti.3

L’asse HPA include fra le sue caratteristiche fondamentali quella dell’autoregolazione. Quando il livello di cortisolo cresce eccessivamente, allora l’attività dell’asse HPA si autoriduce proporzionalmente, in modo da evitare un eccesso di cortisolo in circolo.

Se la mobilitazione immediata delle risorse è efficace nel risolvere il problema che abbiamo incontrato, allora l’organismo ritorna allo stato di equilibrio iniziale e riprende normalmente tutte le funzioni che erano state interrotte. In caso contrario, il corpo si trova a dover modulare con cautela la propria disponibilità di energie. Da un lato c’è la necessità di rimanere attivi per combattere la “battaglia” in corso. Dall’altro lato ci sarebbe l’esigenza di “staccare la spina” dalle nostre attività nel mondo, per poter recuperare (o risparmiare) energia, e per consentire cosí ad altri processi corporei di avere luogo.

Quando i fattori stressanti sono intensi e prolungati nel tempo, la capacità del corpo di gestire le proprie risorse fisiologiche e mentali è messa a dura prova, ed i meccanismi di autoregolazione possono subire delle alterazioni. È anche possibile che si instauri uno stato di perdurante “disattivazione” dell’interesse verso il mondo. È questo il caso della depressione.

Per approfondire il tema dell’interesse inteso come emozione fondamentale, LEGGI ANCHE: Carroll Izard e le emozioni.

Quanto abbiamo appena scritto è una descrizione molto semplificata del legame fra stress e depressione. Da un punto di vista biochimico le complessità che si celano dietro questi fenomeni sono davvero notevoli, e non sono ancora del tutto comprese dalla scienza. Si può comunque affermare che vi sia un legame fra gli sbilanciamenti del sistema HPA e il manifestarsi sia dei disturbi dello stress sia della depressione.4

Gli eventi stressanti possono essere di tipo prettamente fisiologico-corporeo, oppure di natura psicologica. Da un punto di vista corporeo vi sono alcuni fattori oggettivamente stressanti, come l’esposizione a temperature troppo alte o basse, i rumori molto intensi, o una concentrazione di zucchero nel sangue eccessivamente ridotta. Da un punto di vista psicologico, invece, è difficile dare una definizione esatta di cosa sia un elemento stressante.

I fattori di stress psicologico sono legati alla nostra personale interpretazione della situazione concreta. Parlare in pubblico, organizzare un viaggio, andare a scuola, discutere un progetto di lavoro, andare ad una cena, tutte queste attività possono essere divertenti per qualcuno e stressanti per qualcun altro.

Se cercassimo una categoria generale in cui raggruppare i fattori di stress psicologico potremmo forse parlare di pressione, di minaccia, di pericolo, di sfida, di problemi, di difficoltà. Tutti questi concetti hanno in comune l’idea dell’alterazione di un equilibrio psichico preesistente, che l’organismo, nella sua complessa unità psicosomatica, tende a ristabilire. I concetti di equilibrio e di alterazione dell’equilibrio risultano utili sia per unificare la nostra comprensione dei diversi fattori di stress psicologico, sia per assimilarli ai fattori stressanti di natura corporea. Tramite l’idea di alterazione dell’equilibrio, inoltre, si comprende meglio il modo in cui anche le emozioni positive possano generare una forma di stress, ovvero quello che a volte viene chiamato eustress.5

In un articolo precedente abbiamo approfondito il concetto di omeostasi, che è strettamente legato a quello di equilibrio.

Il nostro orientamento teorico è quello di ricondurre lo stress di natura psicologica all’attività delle emozioni, e più precisamente ai sette sistemi emotivi fondamentali individuati dalle neuroscienze affettive.6 Nell’assumere tale posizione teorica è opportuno richiamare l’attenzione su una precisazione importante. Le emozioni non rappresentano una dimensione opzionale della nostra vita mentale. Le emozioni, al contrario, modellano il nostro impulso fondamentale a partecipare alla vita nel mondo. Le emozioni rappresentano una dimensione sempre presente dell’attività mentale e probabilmente sono proprio loro la radice del nostro vivere cosciente.

Le sette emozioni fondamentali secondo le neuroscienze affettive sono paura, rabbia, eccitazione sessuale, cura, pena della solitudine, gioco e interesse. Il sistema emotivo dell’interesse è il più antico di tutti, possiamo anche chiamarlo voglia-di-fare, oppure ricerca, e determina il livello di coinvolgimento nel mondo.

La depressione corrisponde ai casi in cui l’interesse ed il coinvolgimento nel mondo sono cronicamente ad un livello basso.

È abbastanza facile comprendere come si possano verificare delle situazioni stressanti prodotte dalle emozioni di rabbia e paura. È un altra però l’emozione fondamentale più intimamente legata al fenomeno dello stress. Secondo Jaak Panksepp, il padre nelle neuroscienze affettive, un caso paradigmatico di stress è quello causato dal sentimento dell’abbandono.7 Tale sentimento fa capo al sistema emotivo chiamato GRIEF in inglese, e che noi abbiamo tradotto in italiano con “pena della solitudine”. L’attività di questo sistema emotivo è ben esemplificata dal bambino piccolo che scoppia a piangere quando si rende conto di essere rimasto senza la mamma.8

Ricondurre lo stress alla pena della solitudine è molto significativo, perché la pena della solitudine sembra essere uno dei principali fattori coinvolti nello sviluppo della depressione. Abbiamo affrontato meglio questo argomento nei nostri articoli sul pianto e sugli attacchi di panico.

In un articolo successivo ci ripromettiamo di approfondire il discorso sullo stress per considerare quali siano i modi migliori di gestirlo. Per ora ci limitiamo ad osservare quanto segue.

Chi ha a che fare con lo stress e la depressione si trova come preso fra due fuochi. Il primo pericolo, lo stress, è quello di essere presi da un coinvolgimento troppo intenso e disordinato nelle urgenze della vita lavorativa, sociale, scolastica. Il secondo pericolo, la depressione, è quello di perdere completamente il coinvolgimento nel mondo. Nel mezzo vorremmo che ci fosse una comprensione ordinata del nostro stare-nel-mondo, un’arte dello stare coinvolti nel mondo cosí come un surfista, per usare una metafora, cosí come un surfista sa stare sull’onda. Per imparare quest’arte ci sono dei segreti, e noi crediamo che tali segreti abbiano a che fare con le emozioni. Proprio i sistemi emotivi, infatti, sono la radice biologica che da forma e tono al nostro coinvolgimento nel mondo.

Sono arrabbiato con te. Ho paura di te. Mi prendo cura di te. Gioco con te. Sono attratto da te. Sento la tua mancanza. Il nostro stare nel mondo, che anzitutto è un mondo sociale, è governato nel profondo dai movimenti emotivi.

Sembra che per costruire un progetto di vita solido e capace di reggere allo stress dobbiamo prima fare i conti con le emozioni.

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Lo Stress e la Depressione

Lo Stress e la Depressione

Il contenuto di questo articolo non sostituisce il parere del medico.

BIBLIOGRAFIA

Biggs, Amanda, Paula Brough, and Suzie Drummond. “Lazarus and Folkman’s psychological stress and coping theory.” The handbook of stress and health: A guide to research and practice (2017): 351-364.

Chrousos, George P. “Stress and disorders of the stress system.” Nature reviews endocrinology 5.7 (2009): 374.

De Kloet, E. Ron, Marian Joëls, and Florian Holsboer. “Stress and the brain: from adaptation to disease.” Nature reviews neuroscience 6.6 (2005): 463-475.

Fink, George. “Stress: concepts, definition and history.” Change (2016).

Goldstein, David S. “Stress-induced activation of the sympathetic nervous system.” Bailliere’s clinical endocrinology and metabolism 1.2 (1987): 253-278.

McCorry, Laurie Kelly. “Physiology of the autonomic nervous system.” American journal of pharmaceutical education 71.4 (2007).

Smith, Sean M., and Wylie W. Vale. “The role of the hypothalamic-pituitary-adrenal axis in neuroendocrine responses to stress.” Dialogues in clinical neuroscience 8.4 (2006): 383.

Panksepp, Jaak, and Lucy Biven. The archaeology of mind: neuroevolutionary origins of human emotions (Norton series on interpersonal neurobiology). WW Norton & Company, 2012.

Watt, Douglas F., and Jaak Panksepp. “Depression: An evolutionarily conserved mechanism to terminate separation distress? A review of aminergic, peptidergic, and neural network perspectives.” Neuropsychoanalysis 11.1 (2009): 7-51.

1L’effetto dello stress è differenziato a seconda di quali parti del sistema immunitario si prendono in considerazione.

2La scala temporale dei millisecondi riguarda l’attraversamento di una singola giunzione sinaptica, ma bisogna tenere conto che prima della partenza del messaggio di attivazione è necessaria una fase di interpretazione dello stimolo che può durare anche, per esempio, alcuni secondi.

3Considera anche questo interessante approccio: “Secondo Frankenhaeuser (1983), lo sforzo senza lo stress è accompagnato da elevate catecolamine; lo sforzo con stress da un aumento nella secrezione di cortisolo e catecolamine; e lo stress senza sforzo (l’arrendersi senza speranza) da un aumento di cortisolo soltanto”Goldstein 1987, p. 270.

(le catecolamine includono adrenalina e noradrenalina, chiamate anche epinefrina e norepinefrina)

4Vedi in particolare de Kloet et al. 2005, p. 469-471.

5L’idea di equilibrio e di alterazione dell’equilibrio sono valide anche perché fanno da ponte fra il dominio temporale e quello qualitativo-spaziale.

6Le emozioni, naturalmente, sono incluse nella teoria transazionale di Lazarus e Folkman (che è molto influente nell’ambito della teorizzazione sullo stress). A tratti, esse paiono concepite più come un risultato nell’ambito dei processi relativi allo stress, mentre noi le consideriamo come un’entità processuale che nello spazio causale si espande maggiormente. Non le releghiamo allo status di risultato. Le pensiamo come una forma processuale inclusiva di diversi momenti causali/essenziali fra loro complessamente interconnessi.

Considera al riguardo le due seguenti citazioni tratte da Biggs et al. 2017, il quale sintetizza il contenuto della teoria transazionale di Lazarus e Folkman.

“Le valutazioni di minaccia e di danno si riferiscono a transazioni che hanno il potenziale di nuocere o di danneggiare, e provocano emozioni negative. Le valutazioni di sfida differiscono da quelle di danno e minaccia, perché implicano il potenziale di una ricompensa e di una crescita quando sono disponibili abbastanza risorse per farvi fronte, e sono caratterizzate da emozioni positive…” Biggs et al. 2017, p. 352.

“Nell’ambito di questa teoria, le strategie di gestione mirano a fronteggiare direttamente lo stressor (problem-focused coping, PFC) o a regolare le emozioni che emergono come conseguenza dell’incontro stressante (emotion-focused coping, EFC)…” Biggs et al. 2017, p. 353.

7“Questi dati convergono con molta altra evidenza che lo stress da separazione è in verità uno stress prototipale per il cervello sociale, con complesse relazioni fra le dinamiche di attaccamento infantile, il patrimonio genetico, e i fenotipi delle cascate dello stress. Le prime esperienze di attaccamento nei mammiferi appaiono in grado di modulare in modo permanente la neurofisiologia individuale dello stress, nel bene e nel male, (…) favorendo le vie epigenetiche del cervello che determinano una ridotta oppure un’accresciuta propensione ai disordini depressivi.”

Watt e Panksepp 2009, p. 22.

8Nell’associare lo stress alla circostanza dell’abbandono vi è un dettaglio importante da tener presente. La prima reazione spontanea all’abbandono è il tentativo di richiamare l’attenzione di chi ci ha abbandonato. È soltanto dopo, se il ricongiungimento non ha successo, che subentra una fase di attività ridotta.